Fino a poco fa il cielo era azzurro, ed ero contento che per una volta Roma non assomigliasse a Copenhagen, come capita da troppi giorni - pioggerellina fitta, quando non a dirotto. Le nuvole grigie lo hanno già coperto. E se c'è una città che non sa sopportare la pioggia è proprio Roma (detto da un emiliano): perde il suo senso - le palme, i pini marittimi, il mare che non si vede, le rovine che brillerebbero al sole, ecc.
Da tempo non scrivo sul blog intransitivamente, come nei diari o nella scrittura vera.
Sono in cucina, come in una poesia di Vladimir Holan (quella che mi pace di più, La neve, che parla fa le righe dell'essere senza soldi, non può neanche comprare le scarpette a Saskia, ma che importa, dice, "nulla da mettere in mostra"). Ho grandi stanze dal soffitto alto, e finisce che mi metto sempre in cucina. Così non vedo libri, ma solo inquadrature di oggeti, tra Morandi, Ghirri e la pop art. (Tutti i soldi che avevo nella tasca della giacca li ho passati a mio figlio adolescente, che ha esigenze e desideri che io ho la fortuna di non sentire (più). Il bancomat non mi eroga nulla in questi giorni. Mi arrangerò).
Oggi è l'ennesimo giorno della memoria. Penso a Celan (testimoniare per i testimoni), penso al turismo della memoria, penso all'anestesia della memoria, penso al destino dei rituali istituzionalizzati, penso a quando da ragazzo (e io mi sento giovane, mi illudo) l'antifascismo mi sembrava un tabù solidissimo ("mai più"), e mi permettevo perfino di annoiarmi un po' quando si andava al cinema con la scuola e si guardava il film mai ambiguo sulla Resistenza; e si ascoltavano le parole di un ex partigiano più o meno famoso); penso a quanto tutto questo, ma proprio tutto, si è sfaldato, penso all'ingenuità terribile del "mai più", mentre è invece "ancora sempre", penso che siamo tutti alle prese con qualcosa di prossimo alle parole "sommersi" e "salvati", e che la salvezza e la sommersione oggi si giocano sottilmente (e pesantemente) nelle chance economiche, nella sordità e sprofondamenti abissali dell'essere esclusi, più che precari... E che occorre davvero ricominciare tutto da capo, unica alternativa al non rassegnarsi alla sconfitta definitiva, alla dannazione. E comunque, per restare al tema del giorno, ecco che qui si può rileggere questo, la mia conversazione con Claude Lanzmann (l'autore del film Shoah) dell'anno scorso.
Ma si sa, quando si scrive intransitivamente alla fine è sempre di altro che si vuole parlare. Buona giornata.
1/27/2009
1/25/2009
su Stieg Larsson e la trilogia "Millenium" (recensione)
Ho quasi dedicato a Stieg Larsson un capitolo di Panchine (quello, pubblicato anche su carmillaonline, sul "Leggere, vita secondaria"; questa che segue è una recensione all'ultimo volume della sua trilogia uscita su l'Unità di oggi).
Non sono certo il solo ad amare lo svedese Stieg Larsson. I tre volumi della sua «Millennium Trilogy» hanno già venduto 6 milioni di copie, ma non è che l’inizio: la pubblicazione è avvenuta solo in 12 dei 34 paesi che ne hanno acquisito i diritti, Stati Uniti esclusi (lo stanno pubblicando ora). Ai pochi amici ancora ignari, e che mi vedevano divenire assolutamente asociale ogni volta che usciva la traduzione di un suo libro (l’ultimo della sua trilogia - La regina dei castelli di carta - è in libreria da pochi giorni, dopo Uomini che odiano le donne e La ragazza che giocava con il fuoco, tutti targati Marsilio), spiegavo che sì, sono “anche” dei gialli, la trama è forte, i personaggi geniali (oltre al giornalista Mikael Blomkwist, è di Lisbeth Salander che ci si innamora, la giovane hacker minuta, sociopatica e geniale, vittima assoluta ma anche guerriera sorprendente); ma non si possono racchiudere questi romanzi nella definizione di “letteratura di genere” solo perché c’è la messa in scena di un’inchiesta (un’inchiesta immanente), perché la trama è avvincente e suscita a volte spasmodicamente le attese narrative del lettore. Sono romanzi che descrivono in modo sorprendentemente acuto il nostro tempo, come ancora due giorni fa si leggeva sulla seconda pagina di le Monde, dove Larsson è citato a commento della crisi economico-morale dell’Occidente.
Nell’ultimo volume, agli individui disperatamente in conflitto con le istituzioni che perversamente contraddicono la loro natura e funzione (psichiatri pedofili, avvocati e assistenti sociali stupratori, servizi segreti deviati), si affianca un Ufficio per la Difesa della Costituzione. Alla solitudine del detective (del private eye, o “pensatore privato”) si unisce una resistenza democratica che procede unita nella guerra finale per la giustizia. Troppo semplice? In realtà è entusiasmante, e la descrizione delle realtà politiche, spionistiche e informatiche è precisa e fattuale in ogni aspetto. Il fatto è che mai finora un’epica contemporanea è riuscita a saldare insieme, narrativamente e con tanta forza, la difesa della democrazia e la denuncia delle violenze individuali – in primo luogo sulle donne e bambini – la denuncia del neo-fascismo istituzionale e quella della crudeltà individuale, il suspense e l’umanità, il thriller e politica, lo spionaggio e la repressione delle libertà.
L’autore, Steig Larsson, fu uno straordinario giornalista d’inchiesta, antifascista militante, femminista autentico, esperto di neonazismo in Svezia e altrove. Scrisse i tre romanzi tra il 2002 e il 2004, consapevole del successo che avrebbero avuto, per assicurare finalmente una tranquillità economica a lui e alla compagna. Ma morì per un attacco cardiaco prima che uno solo fosse pubblicato, nel 2004. Si legga il commovente ritratto che fa la compagna Eva Gabrielsson della vita breve e intensa di Larsson (in un articolo di Ghislaine Ribeyre apparso su Paris Match lo scorso anno, leggibile in italiano on line: http://www.carmillaonline.com/archives/2008/07/002704.html#002704. Tra gli eroi della resistenza e della lotta per la giustizia spicca giustamente il “quarto potere”, incarnato da Mikael Blomkwist. “Come è possibile che funzionari della pubblica amministrazione si spingano così in là da commettere degli omicidi?”, gli chiedono. “L’unica spiegazione che riesco a dare [...] è che si sono dati le loro leggi, e per loro concetti come giusto e sbagliato hanno cessato di essere rilevanti. Si sono totalmente isolati dalla società normale”. “Suona come una specie di malattia mentale”. “Non è una descrizione del tutto sbagliata”.
Non sono certo il solo ad amare lo svedese Stieg Larsson. I tre volumi della sua «Millennium Trilogy» hanno già venduto 6 milioni di copie, ma non è che l’inizio: la pubblicazione è avvenuta solo in 12 dei 34 paesi che ne hanno acquisito i diritti, Stati Uniti esclusi (lo stanno pubblicando ora). Ai pochi amici ancora ignari, e che mi vedevano divenire assolutamente asociale ogni volta che usciva la traduzione di un suo libro (l’ultimo della sua trilogia - La regina dei castelli di carta - è in libreria da pochi giorni, dopo Uomini che odiano le donne e La ragazza che giocava con il fuoco, tutti targati Marsilio), spiegavo che sì, sono “anche” dei gialli, la trama è forte, i personaggi geniali (oltre al giornalista Mikael Blomkwist, è di Lisbeth Salander che ci si innamora, la giovane hacker minuta, sociopatica e geniale, vittima assoluta ma anche guerriera sorprendente); ma non si possono racchiudere questi romanzi nella definizione di “letteratura di genere” solo perché c’è la messa in scena di un’inchiesta (un’inchiesta immanente), perché la trama è avvincente e suscita a volte spasmodicamente le attese narrative del lettore. Sono romanzi che descrivono in modo sorprendentemente acuto il nostro tempo, come ancora due giorni fa si leggeva sulla seconda pagina di le Monde, dove Larsson è citato a commento della crisi economico-morale dell’Occidente.
Nell’ultimo volume, agli individui disperatamente in conflitto con le istituzioni che perversamente contraddicono la loro natura e funzione (psichiatri pedofili, avvocati e assistenti sociali stupratori, servizi segreti deviati), si affianca un Ufficio per la Difesa della Costituzione. Alla solitudine del detective (del private eye, o “pensatore privato”) si unisce una resistenza democratica che procede unita nella guerra finale per la giustizia. Troppo semplice? In realtà è entusiasmante, e la descrizione delle realtà politiche, spionistiche e informatiche è precisa e fattuale in ogni aspetto. Il fatto è che mai finora un’epica contemporanea è riuscita a saldare insieme, narrativamente e con tanta forza, la difesa della democrazia e la denuncia delle violenze individuali – in primo luogo sulle donne e bambini – la denuncia del neo-fascismo istituzionale e quella della crudeltà individuale, il suspense e l’umanità, il thriller e politica, lo spionaggio e la repressione delle libertà.
L’autore, Steig Larsson, fu uno straordinario giornalista d’inchiesta, antifascista militante, femminista autentico, esperto di neonazismo in Svezia e altrove. Scrisse i tre romanzi tra il 2002 e il 2004, consapevole del successo che avrebbero avuto, per assicurare finalmente una tranquillità economica a lui e alla compagna. Ma morì per un attacco cardiaco prima che uno solo fosse pubblicato, nel 2004. Si legga il commovente ritratto che fa la compagna Eva Gabrielsson della vita breve e intensa di Larsson (in un articolo di Ghislaine Ribeyre apparso su Paris Match lo scorso anno, leggibile in italiano on line: http://www.carmillaonline.com/archives/2008/07/002704.html#002704. Tra gli eroi della resistenza e della lotta per la giustizia spicca giustamente il “quarto potere”, incarnato da Mikael Blomkwist. “Come è possibile che funzionari della pubblica amministrazione si spingano così in là da commettere degli omicidi?”, gli chiedono. “L’unica spiegazione che riesco a dare [...] è che si sono dati le loro leggi, e per loro concetti come giusto e sbagliato hanno cessato di essere rilevanti. Si sono totalmente isolati dalla società normale”. “Suona come una specie di malattia mentale”. “Non è una descrizione del tutto sbagliata”.
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Se Revolutionary Road è un vicolo cieco... (rubrica n.)
Non avevo mai letto, prima della riedizione da minimum fax in occasione del film che ne ha tratto Sam Mèndes (quello di American beauty), il bellissimo Revolutionary Road (1961) di Richard Yates E’ un romanzo dal suspense teatrale (ricorda Osborne e Pinter) che tratta l’esistenza umana con la pietosa ironia che sarà ripresa da autori come Raymond Carver e Richard Ford. Descrive in presa diretta la drammatica implosione di una giovane coppia - April e Franck Wheeler, con due bambini - inesorabile come una tragedia greca (e già si capisce quanto Sam Mendes possa avere attinto anche in precedenza da Yates). E’ una famiglia come tante altre, all’inizio degli insediamenti suburbani, quei non-luoghi di villette tra campagna e città artificiali come i valori cui ci si aggrappa per la sopravvivenza mentale. Le donne si occupano di casa e bambini, gli uomini sono pendolari e di giorno abitano i grattacieli impiegatizi di Manhattan; nel week-end tutti bevono alcoolici in salotto coi vicini, spettegolando e sfoggiando eloquenza contro tutti gli altri vicini e gli americani in generale. Può accadere però che si scorga la “falsità dell’insieme” (dei castelli di parole: ma tutta la vicenda sembra costruita essenzialmente di atti di parola), e che la premessa fondamentale di essere diversi e superiori agli altri sia falsa, come esclama April al marito: “Siamo tali e quali la gente di cui stai parlando! Siamo la gente di cui stai parlando!” Epifania dolorosa, da rimuovere con ulteriori illusioni, per esempio un piano di trasferirsi in Europa, nella mitica Parigi degli esistenzialisti (come da noi ci si trasferirebbe ciclicamente a New York o altrove). La famiglia anni ’50, riattualizzata oggi dalla politica patriottica e conservatrice americana, e che anche in Italia conosciamo benissimo, restituisce in realtà una società intera. E’ il proprio di una politica dominante quello di determinare anche la qualità della sua opposizione. E, come dice il dirigente capo di Franck all’azienda di macchine da scrivere e calcolatrici (c’è già la retorica della futura informatica), “tutto si vende”: “Dove diavolo crede che si troverebbe ora se suo padre non si fosse saputo vendere bene a sua madre?” Ha dichiarato Yates che il titolo Revolutionary Road – quello di un sobborgo collinare di villette nel Connecticut (simbolico come lo sono delicatamente tutti i nomi dei personaggi del romanzo) non a caso designa una strada cieca, senza uscita. Da parte mia confesso che questo magnifico romanzo mi ha dato voglia di riprendere un mio progetto di scrittura il cui titolo era “L’amore al tempo di Berlusconi” (che non è tanto “contro” di lui, quanto “contro” di noi).
(una versione più ridotta è uscita su l'Unità di oggi, mia rubrica "acchiappafantasmi)
(una versione più ridotta è uscita su l'Unità di oggi, mia rubrica "acchiappafantasmi)
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1/19/2009
Conoscenza e delirio, cioè letteratura. Per il bicentenario di Edgar Allan Poe
“Si potrà chiedere in che senso il delirio sia conoscenza: semplicemente, presupponendo che la realtà non sia reale, che anzi il concetto stesso di ‘realtà’ altro non sia che una bassa invenzione pedagogica, una minatoria falsificazione moralistica”. Sembra una frase di Philip K. Dick o un suo commentatore, ma è il nostro Giorgio Manganelli a proposito dei racconti di Edgar Allan Poe, “insondabili incunaboli della letteratura moderna”, capolavori di intelligenza e lucidità visionaria. Difficile dire di cosa la letteratura contemporanea (e non solo la letteratura) non sia debitrice verso Allan Poe. L’autore dei racconti del Grottesco e dell’Arabesco (così li titolò nel 1839) ha anticipato e scandagliato ogni futura direzione narrativa.
Nato a Boston nel 1809, morto quarant’anni dopo in un ospedale di Baltimora dopo un’esistenza dissipatissima e dark, la lungimiranza di Edgar Allan Poe viene dall’aver combinato insieme nella sua opera le opposte tendenze della sua epoca (che per molti versi è ancora la nostra): quel nuovo romanticismo che nei manuali viene chiamato “Decadentismo” (non a caso la sua opera fu tradotta da Baudelaire) e l’euforia razionalista e progressista di ciò che ancora i manuali chiamano “Positivismo”, ossia il metodo scientifico e il “mondo della tecnica”. Mezzo secolo prima di Freud l’americano Poe descrive l’ascesa e il trionfo della borghesia nelle grandi città, il suo apparente pieno controllo del mondo, e nello stesso tempo la sua impotenza di fronte all’emergere di angosce e paure incontrollabili. Inventò il genere forse più razionalista e ottimista, il romanzo poliziesco (suo è il detective Dupin, eroe de I delitti della rue Morgue e La lettera rubata, imitato da ogni successivo giallo a enigma; e suo è il primo “mistero della porta chiusa”), sapendo però che l’uso della ragione, il pensiero, altro non è che paura trasformata, paura che si è data un’attrezzatura metodica. E che può anche fallire.
Quando ero studente, e il mio professore più famoso era Umberto Eco, mi capitò di confrontarmi con lui in una dibattito al Festival del Giallo di Cattolica. Lui leggeva i gialli, sulla scorta del pragmatismo filosofico di Charles S. Peirce, che impresse nuovi sviluppi alla semiotica (in particolare allo studio dell’abduzione) come un modello di ragionevolezza induttiva. Gli esempi venivano in genere tratti da Sherlock Holmes, calco dell’investigatore Dupin inventato da Poe. Io leggevo gli stessi gialli come modello di ebbrezza, paragonando quel lasciarsi trasportare di cui è immagine la nuvola spinta dal vento, cioè il piacere di lasciarsi trasportare dal tono narrativo. Il piacere della letteratura, di cui fa parte “la sospensione dell’incredulità”, non cessa coi romanzi polizieschi, viene anzi rilanciato da essi, come imparai leggendo le lettere di Edgar Allan Poe al suo editore. La logica che affascina i lettori e li spinge a credere a una superiore intelligenza deduttiva dell’investigatore, scriveva Poe, non è che un effetto retorico, l’effetto di un “tono metodico”: “dov’è l’ingegnosità nel dipanare una matassa che voi stesso avete arruffato per il preciso scopo di dipanarla? Il lettore è indotto a confondere l’ingegnosità dell’immaginario Dupin con quella dello scrittore della novella” (lettera a Philip P. Cooke, 9 agosto 1846).
Edgar Allan Poe, che scrisse anche poesie, saggi di estetica e poetica, e una Filosofia della composizione, inventò sia i "Tales of Ratiocination "- “racconti di raziocinio”, tra cui appunto i primi gialli in assoluto – sia i “racconti di allucinazione”, dove reinventava il genere gotico e horror, come in Berenice o La caduta della casa Usher. Scrisse un romanzo “incompiuto” – Le avventure di Gordon Pym, che spacciò così efficacemente come storia vera da non avere successo proprio per questo. Scrisse un racconto come L’uomo della folla, primo affresco di quella solitudine urbana come estraneità e disincanto che popolerà la sociologia e il cinema. Ma sopratutto, tratto comune a ogni suo racconto, Poe inventò un nuovo tipo di eroe moderno, un eroe intellettuale che potremmo chiamare meglio ”percettivo”, un personaggio la cui caratteristica è una sviluppata facoltà di “attenzione”, e una vocazione a giocarsi il destino interpretando i dati delle sue percezioni – che si tratti degli arabeschi di un tappeto, di una macchia bianca nel gatto nero o di gocce d’acqua che scivolano su vetri. Le storie differiscono solo dall’esito delle loro interpretazioni: chi interpreta bene può trovare un tesoro (Lo scarabeo d’oro), chi interpreta male può perdere la vita (Il gatto nero) o arrivare all’horror di una follia assassina (Berenice). Come è stato osservato, tutti questi personaggi sono inizialmente liberi, liberi di pensare ciò che vogliono, ma non liberi di non pensare. Il loro destino è la logica, o meglio, l’interpretazione delle loro visioni. Già questo basterebbe a fare di Edgar Allan Poe il narratore antesignano della nostra alienazione culturale o delle nostre nevrosi, fino all’indiscernibilità di delirio e conoscenza cui accennava Manganelli, e da cui abbiamo preso le mosse.
Resta che i racconti di Edgar Allan Poe siano i più citati, usati e portati a esempio dalla filosofia, e non solo per la loro messa in scena del processo di pervenire alla verità (o all’errore). E’ forse grazie a Poe, al suo suggerimento di uno sconfinamento tra delirio e conoscenza, deriva e salvezza, che Jorge Luis Borges, nella sua catalogazione dei generi della letteratura fantastica, aggiunse la speculazione metafisica.
(uscito su l'Unità di oggi, 19/1/09)
Nato a Boston nel 1809, morto quarant’anni dopo in un ospedale di Baltimora dopo un’esistenza dissipatissima e dark, la lungimiranza di Edgar Allan Poe viene dall’aver combinato insieme nella sua opera le opposte tendenze della sua epoca (che per molti versi è ancora la nostra): quel nuovo romanticismo che nei manuali viene chiamato “Decadentismo” (non a caso la sua opera fu tradotta da Baudelaire) e l’euforia razionalista e progressista di ciò che ancora i manuali chiamano “Positivismo”, ossia il metodo scientifico e il “mondo della tecnica”. Mezzo secolo prima di Freud l’americano Poe descrive l’ascesa e il trionfo della borghesia nelle grandi città, il suo apparente pieno controllo del mondo, e nello stesso tempo la sua impotenza di fronte all’emergere di angosce e paure incontrollabili. Inventò il genere forse più razionalista e ottimista, il romanzo poliziesco (suo è il detective Dupin, eroe de I delitti della rue Morgue e La lettera rubata, imitato da ogni successivo giallo a enigma; e suo è il primo “mistero della porta chiusa”), sapendo però che l’uso della ragione, il pensiero, altro non è che paura trasformata, paura che si è data un’attrezzatura metodica. E che può anche fallire.
Quando ero studente, e il mio professore più famoso era Umberto Eco, mi capitò di confrontarmi con lui in una dibattito al Festival del Giallo di Cattolica. Lui leggeva i gialli, sulla scorta del pragmatismo filosofico di Charles S. Peirce, che impresse nuovi sviluppi alla semiotica (in particolare allo studio dell’abduzione) come un modello di ragionevolezza induttiva. Gli esempi venivano in genere tratti da Sherlock Holmes, calco dell’investigatore Dupin inventato da Poe. Io leggevo gli stessi gialli come modello di ebbrezza, paragonando quel lasciarsi trasportare di cui è immagine la nuvola spinta dal vento, cioè il piacere di lasciarsi trasportare dal tono narrativo. Il piacere della letteratura, di cui fa parte “la sospensione dell’incredulità”, non cessa coi romanzi polizieschi, viene anzi rilanciato da essi, come imparai leggendo le lettere di Edgar Allan Poe al suo editore. La logica che affascina i lettori e li spinge a credere a una superiore intelligenza deduttiva dell’investigatore, scriveva Poe, non è che un effetto retorico, l’effetto di un “tono metodico”: “dov’è l’ingegnosità nel dipanare una matassa che voi stesso avete arruffato per il preciso scopo di dipanarla? Il lettore è indotto a confondere l’ingegnosità dell’immaginario Dupin con quella dello scrittore della novella” (lettera a Philip P. Cooke, 9 agosto 1846).
Edgar Allan Poe, che scrisse anche poesie, saggi di estetica e poetica, e una Filosofia della composizione, inventò sia i "Tales of Ratiocination "- “racconti di raziocinio”, tra cui appunto i primi gialli in assoluto – sia i “racconti di allucinazione”, dove reinventava il genere gotico e horror, come in Berenice o La caduta della casa Usher. Scrisse un romanzo “incompiuto” – Le avventure di Gordon Pym, che spacciò così efficacemente come storia vera da non avere successo proprio per questo. Scrisse un racconto come L’uomo della folla, primo affresco di quella solitudine urbana come estraneità e disincanto che popolerà la sociologia e il cinema. Ma sopratutto, tratto comune a ogni suo racconto, Poe inventò un nuovo tipo di eroe moderno, un eroe intellettuale che potremmo chiamare meglio ”percettivo”, un personaggio la cui caratteristica è una sviluppata facoltà di “attenzione”, e una vocazione a giocarsi il destino interpretando i dati delle sue percezioni – che si tratti degli arabeschi di un tappeto, di una macchia bianca nel gatto nero o di gocce d’acqua che scivolano su vetri. Le storie differiscono solo dall’esito delle loro interpretazioni: chi interpreta bene può trovare un tesoro (Lo scarabeo d’oro), chi interpreta male può perdere la vita (Il gatto nero) o arrivare all’horror di una follia assassina (Berenice). Come è stato osservato, tutti questi personaggi sono inizialmente liberi, liberi di pensare ciò che vogliono, ma non liberi di non pensare. Il loro destino è la logica, o meglio, l’interpretazione delle loro visioni. Già questo basterebbe a fare di Edgar Allan Poe il narratore antesignano della nostra alienazione culturale o delle nostre nevrosi, fino all’indiscernibilità di delirio e conoscenza cui accennava Manganelli, e da cui abbiamo preso le mosse.
Resta che i racconti di Edgar Allan Poe siano i più citati, usati e portati a esempio dalla filosofia, e non solo per la loro messa in scena del processo di pervenire alla verità (o all’errore). E’ forse grazie a Poe, al suo suggerimento di uno sconfinamento tra delirio e conoscenza, deriva e salvezza, che Jorge Luis Borges, nella sua catalogazione dei generi della letteratura fantastica, aggiunse la speculazione metafisica.
(uscito su l'Unità di oggi, 19/1/09)
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1/18/2009
Contro l'intolleranza e il consenso (ancora su Vargas e Battisti) (rubrica)
Come altre volte in passato, si assiste in questo presente increscioso al massimo di consenso e di intolleranza: avviene in politica (ormai solo elettorale) come nei programmi televisivi, di fronte alle tragedie della storia come di fronte alle tragedie degli individui, alle prese con l’intimità della vita e della morte. Avviene anche, e indirettamente mi riguarda, nelle reazioni on line alla mia intervista a Fred Vargas, autrice di splendide storie sul commissario Adamsberg, “spalatore di nuvole”, e che per anni ha studiato le vicende processuali di quel disgraziato latitante e superstite degli anni ‘70 Cesare Battisti, ora in un carcere brasiliano.
Gran parte dei commenti (c’è chi li definisce forcaioli) non tollera si discutano presunte certezze – presumo tratte dai giornali. I quali però ancora l’altro ieri presentavano Battisti come autore materiale di quattro omicidi (due dei quali avvenuti quasi simultaneamente ma in luoghi diversi e distanti), anche se la stessa sentenza non lo sostiene, essendo stato dichiarato colpevole per “concorso morale” - in quanto ex-appartenente al gruppo terrorista dei Pac. Egli ha dichiarato e scritto (con la sua faccia antipatica e anticomunicativa, cioè antitelevisiva) non di essere innocente, ma di “non avere mai ucciso”. E' vero o forse non è vero, ma non è irrilevante. Sulla rivista/blog carmillaonline c’è un ampio archivio sul caso Battisti (http://www.carmillaonline.com/archives/cat_il_caso_battisti.html). Si legga soprattutto un’agile sintesi, il testo Le FAQ (Frequently Asked Questions) su Cesare Battisti aggiornate, a cura dello scrittore Valerio Evangelisti.
Ma che cos’è quest’ansia decisionista che ci prende tutti di liquidare, fare giustizia sommaria, avversare il dubbio, il pensiero, l’analisi della Storia (gli anni ‘70 sono sempre più un buco nero della coscienza collettiva)? Da dove viene l’intolleranza verso ogni dissenso, e la paura di quale crollo cerchiamo di coprire dietro le nostre parole veementi?
Gran parte dei commenti (c’è chi li definisce forcaioli) non tollera si discutano presunte certezze – presumo tratte dai giornali. I quali però ancora l’altro ieri presentavano Battisti come autore materiale di quattro omicidi (due dei quali avvenuti quasi simultaneamente ma in luoghi diversi e distanti), anche se la stessa sentenza non lo sostiene, essendo stato dichiarato colpevole per “concorso morale” - in quanto ex-appartenente al gruppo terrorista dei Pac. Egli ha dichiarato e scritto (con la sua faccia antipatica e anticomunicativa, cioè antitelevisiva) non di essere innocente, ma di “non avere mai ucciso”. E' vero o forse non è vero, ma non è irrilevante. Sulla rivista/blog carmillaonline c’è un ampio archivio sul caso Battisti (http://www.carmillaonline.com/archives/cat_il_caso_battisti.html). Si legga soprattutto un’agile sintesi, il testo Le FAQ (Frequently Asked Questions) su Cesare Battisti aggiornate, a cura dello scrittore Valerio Evangelisti.
Ma che cos’è quest’ansia decisionista che ci prende tutti di liquidare, fare giustizia sommaria, avversare il dubbio, il pensiero, l’analisi della Storia (gli anni ‘70 sono sempre più un buco nero della coscienza collettiva)? Da dove viene l’intolleranza verso ogni dissenso, e la paura di quale crollo cerchiamo di coprire dietro le nostre parole veementi?
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Fred Vargas
1/16/2009
"Perché difendo Cesare Battisti". Colloquio con Fred Vargas
“Quando in Francia si accorse di essere stato condannato al carcere a vita, e che tutte le colpe e gli omicidi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) gli erano stati buttati addosso, Cesare Battisti era incredulo. Non è vero che era scappato per non essere giudicato, fu giudicato (e condannato a 12 anni di carcere per banda armata) nel 1981, e trasferito nel carcere di Frosinone, non a caso destinato a chi non fosse colpevole di crimini che avessero comportato la morte di persone. Evase dalla pena, non dal giudizio. Il processo successivo si svolse in contumacia. Battisti passò da un incubo all’altro, in una trappola senza uscita, da quella dei Pac e della lotta armata - da cui uscì e si dissociò già nel 1978 – a quella di un processo kafkiano che lo condannò all’ergastolo sulla base di testimonianze di pentiti – i capi dei Pac Pietro Mutti e Arrigo Cavallina – che addossarono a lui assente ogni colpa ed ebbero una condanna di 15 anni. Messi insieme, tutti gli elementi di dubbio fanno una montagna. E pochi ricordano che Battisti si è sempre detto innocente dei delitti di cui è stato condannato”.
A parlare così – accettando di camminare su un campo minato oggi in Italia - è la scrittrice Fred Vargas, i cui romanzi polizieschi, brillanti e innovativi, sono molto noti e apprezzati anche in Italia. Ma Fred Vargas è anche una ricercatrice e studiosa di archeologia e paleontologia (precisamente è archeozoologa), abituata a cercare con ostinazione verità storiche con un paziente lavoro di scavo, reperimento, concatenazione di frammenti, infine ricomposizione di un senso come un puzzle. Con questo spirito si è dedicata da anni alla ricostruzione di un’altra verità storico-giuridica su Cesare Battisti, dedicando un libro alle sue vicende processuali. A Parigi Battisti si era rifatto una vita (ha due figlie, una di tredici, l’altra di ventitre anni) indossando il fragile abito di rifugiato politico (oggi in via di estinzione oltralpe), e diventando a sua volta autore di romanzi. Fred Vargas si è prodigata affinché, in nome della tradizione giuridica francese, fosse negata la sua estradizione in Italia. Mentre la Francia ne decideva l’estradizione, Battisti scappò in Brasile. Successivamente arrestato, il ministro della Giustizia di quel Paese, appellandosi all’articolo 5 della Costituzione brasiliana, gli ha ora accordato l’asilo politico. Di fronte al coro unanime e compatto di condanna per questa decisione, la posizione garantista di Fred Vargas è assai isolata.
Quali sono le tue contro-verità?
“Innanzitutto confesso che mi è molto difficile parlare senza la paura di offendere la sensibilità degli Italiani. Non sono in nessun modo contro l’Italia, Paese che amo molto, e piango ogni vittima della violenza politica. Odio ogni violenza, e non sono una paladina della sinistra estrema. Credo però che la decisione del ministro della Giustizia del Brasile sia onesta, giusta, coraggiosa e umana. Tiene conto dei diritti giuridici, ma anche dello stato di malattia di Battisti, attualmente distrutto. Per quanto riguarda i diritti, anzi il Diritto, molti insigni giuristi brasiliani – posso citare Dalmo Dallari e Milo Batista, oltre al senatore Edoardo Suplici – hanno sollevato molti dubbi, convincendosi della sua innocenza. Così come il ministro dei Diritti umani del Brasile, Paolo Vanucci. La condanna inflitta a Cesare Battisti non solo fu senza prove effettive e sulla base di testimonianze contraddittorie, oltre all’eccessivo peso dato ai pentiti; ma si svolse in contumacia, in assenza dell’imputato, che non ha quindi potuto difendersi”.
Come sarebbe potuto accadere?
“Per renderlo regolare furono prodotti tre mandati, o procurazioni, cioè tre lettere di incarico agli avvocati per rappresentarlo, a firma di Cesare Battisti, due con data 1982, una 1990. Qui interviene il mio mestiere di storica e di ricercatrice. Ho potuto dimostrare che si tratta di falsi, contraffazioni anche goffe della sua scrittura e della sua firma ottenute tramite il calco per trasparenza di una lettera precedente dal Messico. Si riconosce in tutte l’identico modello, e che le firme sono state seguite nello stesso breve lasso di tempo. Risparmio i dettagli tecnici. Il fatto è che senza quelle lettere il processo non si sarebbe potuto svolgere. Di questo e di altri aspetti della vicenda processuale di Battisti ho parlato col Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, e anche coll’ambasciatore italiano, persona squisita. Quest’ultimo mi ha detto di essere stato turbato, come uomo, dalla mia ricostituzione dei fatti, ma che come ambasciatore non poteva che richiedere l’estradizione di Battisti. Il mio mestiere è la verità, non mi interessa difendere un’ideologia, né la sinistra estrema. Scavo la terra, dai frammenti restituisco la verità storica. Ho studiato per oltre dieci anni la propagazione della peste nel Medio Evo, un lavoro in cui non ci si può sbagliare nemmeno di un bacillo, dove occorre analizzare l’interno di una pulce. Il mio mestiere non è credere a qualcosa, ma cercare e trovare la verità. E’ quello che ho fatto anche con i pezzi di carta della vicenda Battisti”.
Ma lo status di rifugiato accordato a Battisti ha una motivazione soprattutto politica…
“C’è indubbiamente un risvolto politico, e non perché qualcuno simpatizzi con le motivazioni politiche dei crimini che gli sono stati imputati. Cesare Battisti non fuggì la giustizia, nel 1981 fu giudicato e condannato. Ma i successivo processo rimanda alle leggi d’emergenza (o d’eccezione) che caratterizzarono quegli anni in Italia, e la memoria di quegli anni non viene affrontata in Italia col giusto sguardo (mentre il Brasile è molto sensibile al tema dell’amnistia). Rivedere, rimettere in discussione le modalità di quel processo significherebbe rimettere in discussione molti degli eventi giuridico-politici degli anni ’70 in Italia. Questo è il senso politico, o l’altro dubbio, se vogliamo, che ha caratterizzato credo la scelta del Brasile della presunzione di innocenza di Cesare Battisti”.
(uscito su l'Unità di venerdì 16/1/09)
(vedi anche, qui sul sito, intervista a Fred Vargas del 2005: http://www.beppesebaste.com/incontri/intervista_vargas.html
A parlare così – accettando di camminare su un campo minato oggi in Italia - è la scrittrice Fred Vargas, i cui romanzi polizieschi, brillanti e innovativi, sono molto noti e apprezzati anche in Italia. Ma Fred Vargas è anche una ricercatrice e studiosa di archeologia e paleontologia (precisamente è archeozoologa), abituata a cercare con ostinazione verità storiche con un paziente lavoro di scavo, reperimento, concatenazione di frammenti, infine ricomposizione di un senso come un puzzle. Con questo spirito si è dedicata da anni alla ricostruzione di un’altra verità storico-giuridica su Cesare Battisti, dedicando un libro alle sue vicende processuali. A Parigi Battisti si era rifatto una vita (ha due figlie, una di tredici, l’altra di ventitre anni) indossando il fragile abito di rifugiato politico (oggi in via di estinzione oltralpe), e diventando a sua volta autore di romanzi. Fred Vargas si è prodigata affinché, in nome della tradizione giuridica francese, fosse negata la sua estradizione in Italia. Mentre la Francia ne decideva l’estradizione, Battisti scappò in Brasile. Successivamente arrestato, il ministro della Giustizia di quel Paese, appellandosi all’articolo 5 della Costituzione brasiliana, gli ha ora accordato l’asilo politico. Di fronte al coro unanime e compatto di condanna per questa decisione, la posizione garantista di Fred Vargas è assai isolata.
Quali sono le tue contro-verità?
“Innanzitutto confesso che mi è molto difficile parlare senza la paura di offendere la sensibilità degli Italiani. Non sono in nessun modo contro l’Italia, Paese che amo molto, e piango ogni vittima della violenza politica. Odio ogni violenza, e non sono una paladina della sinistra estrema. Credo però che la decisione del ministro della Giustizia del Brasile sia onesta, giusta, coraggiosa e umana. Tiene conto dei diritti giuridici, ma anche dello stato di malattia di Battisti, attualmente distrutto. Per quanto riguarda i diritti, anzi il Diritto, molti insigni giuristi brasiliani – posso citare Dalmo Dallari e Milo Batista, oltre al senatore Edoardo Suplici – hanno sollevato molti dubbi, convincendosi della sua innocenza. Così come il ministro dei Diritti umani del Brasile, Paolo Vanucci. La condanna inflitta a Cesare Battisti non solo fu senza prove effettive e sulla base di testimonianze contraddittorie, oltre all’eccessivo peso dato ai pentiti; ma si svolse in contumacia, in assenza dell’imputato, che non ha quindi potuto difendersi”.
Come sarebbe potuto accadere?
“Per renderlo regolare furono prodotti tre mandati, o procurazioni, cioè tre lettere di incarico agli avvocati per rappresentarlo, a firma di Cesare Battisti, due con data 1982, una 1990. Qui interviene il mio mestiere di storica e di ricercatrice. Ho potuto dimostrare che si tratta di falsi, contraffazioni anche goffe della sua scrittura e della sua firma ottenute tramite il calco per trasparenza di una lettera precedente dal Messico. Si riconosce in tutte l’identico modello, e che le firme sono state seguite nello stesso breve lasso di tempo. Risparmio i dettagli tecnici. Il fatto è che senza quelle lettere il processo non si sarebbe potuto svolgere. Di questo e di altri aspetti della vicenda processuale di Battisti ho parlato col Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, e anche coll’ambasciatore italiano, persona squisita. Quest’ultimo mi ha detto di essere stato turbato, come uomo, dalla mia ricostituzione dei fatti, ma che come ambasciatore non poteva che richiedere l’estradizione di Battisti. Il mio mestiere è la verità, non mi interessa difendere un’ideologia, né la sinistra estrema. Scavo la terra, dai frammenti restituisco la verità storica. Ho studiato per oltre dieci anni la propagazione della peste nel Medio Evo, un lavoro in cui non ci si può sbagliare nemmeno di un bacillo, dove occorre analizzare l’interno di una pulce. Il mio mestiere non è credere a qualcosa, ma cercare e trovare la verità. E’ quello che ho fatto anche con i pezzi di carta della vicenda Battisti”.
Ma lo status di rifugiato accordato a Battisti ha una motivazione soprattutto politica…
“C’è indubbiamente un risvolto politico, e non perché qualcuno simpatizzi con le motivazioni politiche dei crimini che gli sono stati imputati. Cesare Battisti non fuggì la giustizia, nel 1981 fu giudicato e condannato. Ma i successivo processo rimanda alle leggi d’emergenza (o d’eccezione) che caratterizzarono quegli anni in Italia, e la memoria di quegli anni non viene affrontata in Italia col giusto sguardo (mentre il Brasile è molto sensibile al tema dell’amnistia). Rivedere, rimettere in discussione le modalità di quel processo significherebbe rimettere in discussione molti degli eventi giuridico-politici degli anni ’70 in Italia. Questo è il senso politico, o l’altro dubbio, se vogliamo, che ha caratterizzato credo la scelta del Brasile della presunzione di innocenza di Cesare Battisti”.
(uscito su l'Unità di venerdì 16/1/09)
(vedi anche, qui sul sito, intervista a Fred Vargas del 2005: http://www.beppesebaste.com/incontri/intervista_vargas.html
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1/11/2009
La vita senza narrazione
Nella conversazione avuta con l’amico politologo Marc Lazar, pubblicata venerdì su l’Unità, emerge a proposito della crisi della politica (soprattutto della sinistra) il tema cruciale e insieme dimenticato della narrativa, anzi della forza del racconto, che un tempo si chiamava “mito”. Non c’è evento, cambiamento, né tanto meno impegno personale e collettivo senza la forza della narrazione - che ci porta mentre noi la portiamo. Non c’è fede, né fiducia, separata da un racconto. Non c’è vita, direi (e non riguarda solo il sogno d’evasione del carcerato). Lazar si soffermava sul potente apparato ideologico-narrativo delle destre in Europa, grazie al quale hanno intrapreso un’ascesa politica. Eppure è paradossale, soprattutto in Italia. Da noi governa un barzellettiere che è anche il capo di una grande impresa pubblicitaria. La narrazione di cui egli è portatore (a differenza degli ideali di un Sarkozy a destra, o di un Obama a “sinistra”) è come minimo una narrazione frantumata, senza tempo, come una televisione sempre accesa che ogni istante nega se stessa, appiattita su un perpetuo presente, senza memoria né futuro (l’unico futuro si offre come futuro di questo presente). Quello che manca oggi – ed è la svolta antropologica che definisce la tragedia della precarietà – è lo sparire di un senso narrativo dell’esistenza, una volta definito anche dalla parola “carriera”, career, strada per carri di montagna (oggi lavoro si dice job, e siamo tutti dei pezzi di ricambio, anche nell’amore). Non solo quindi i figli sono più poveri dei loro genitori, ma le stesse vite dei genitori risultano incomprensibili, votate com’erano a obiettivi a lungo termine: voltandosi indietro o guardando in avanti, la loro vita assumeva un senso narrativo. Non era poco. Oggi tutto manca, e continua a mancare anche a chi si crede berlusconiano e felice.
(uscito oggi su l'Unità, rubrica domenicale)
(uscito oggi su l'Unità, rubrica domenicale)
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1/09/2009
La sinistra sulbalterna e l'esigenza di grandi narrazioni. Conversazione con Marc Lazar
“A sinistra oggi si sente la mancanza di un nuovo mito fondatore, qualcosa come un grande romanzo, una narrazione che dia identità e senso del passato, quindi del futuro. Non è solo un problema del Pd e della sinistra italiana”.
A parlarmi è Marc Lazar, storico e politologo francese di fama. Nato nel 1952, è professore di storia e sociologia politica, direttore di studi dottorali alla facoltà di Scienze politiche a Parigi e docente alla Luiss di Roma. Studia e conosce da anni la realtà politica italiana, di cui è osservatore disincantato e appassionato, soprattutto per quanto riguarda la sinistra. Era presente con Maurice Duverger al congresso che sancì la fine del Pci, dopo il famoso annuncio alla Bolognina di Achille Occhetto, ha seguito da vicino la nascita de Ds, poi quella del Pd. Alla sinistra dedica pagine dure, le più interessanti del suo nuovo libro che esce oggi, L’Italia sul filo del rasoio(Rizzoli), seguito ideale di Democrazia alla prova (Laterza 2007), e “un tentativo di capire quali siano i veri elementi di continuità e di cambiamento degli ultimi decenni in Italia, a partire dalle elezioni dello scorso anno che hanno visto la nuova vittoria di Berlusconi e delle destre”.
Chiave di lettura del libro – variante della celebre frase del Gattopardo - sta nel distinguersi sia da chi dice che niente cambia in questo Paese, e spiega Berlusconi come una tradizionale disgrazia e difetto dell’Italia, la cui storia sarebbe un elenco di errori ed occasioni mancate; sia da chi vede solo ed esclusivamente novità e cambiamenti. Ma quelli che dicono – soprattutto studiosi italiani - che “è cambiato tutto”, sono gli stessi che prima spiegavano l’Italia come immobilismo. “Bisogna uscire da questa oscillazione - dice Marc Lazar - per individuare i cambiamenti e le continuità. E’ il mio modello d’analisi per capire la vostra ‘modernizzazione tradizionale’: non una modernizzazione autoritaria, né un taglio dei legami col passato (come per noi francesi l’esempio classico della rivoluzione). Uno dei cambiamenti più importanti è l’ascesa della destra in Italia, che mi stupisce come storico – poiché dopo il fascismo, fino agli anni ’80-‘90 era quasi impossibile dirsi di destra in Italia (c’era solo l’Msi, oggetto di una legittima stigmatizzazione in quanto erede del fascismo). Lo sdoganamanto di questa destra da parte di Berlusconi è stato accompagnato non solo da una crescita dei partiti, ma soprattutto da un’impresa culturale capace di mobilitare dei valori, che oggi ha raggiunto in Italia l’egemonia culturale”.
Come dire: quando la sinistra non era di governo era però vincente nella società...
“Sì. Mentre a sinistra spariscono i valori, essi sono fortemente promossi dalla destra. E’ un cambiamento avvenuto anche in Francia, dove la sinistra era minoritaria elettoralmente ma dominante culturalmente, e adesso non solo è minoritaria ma ha perso anche la battaglia culturale. Berlusconi è riuscito a unificare diverse anime della destra, da quella post-fascista a quella cattolica intransigente, la Lega Nord col liberismo conservatore, il che significa che – non essendo Berlusconi immortale (anche se questa ovvia affermazione appare da voi un’eresia) - quando passerà la mano la destra avrà di sicuro un bel problema a restare unita. Ma l’Italia in questo non è isolata. In Francia Sarkozy è riuscito unificare le destre, che è un evento storico perché dall’Ottocento vige una distinzione tra le tre destre (bonapartista, orléanista, legittimista, ovvero tradizionale, liberale e autoritaria). Ora è tutta riunita, fino a lambire qualche elemento di sinistra, in un partito unico, l’Ump. Pur nelle differenze (Berlusconi e Sarkozy sono diversi, e quest’ultimo, come Chirac, ha sempre criticato duramente l’estrema destra di Le Pen), il processo di riunificazione dietro un leader, nella consapevolezza che la battaglia culturale sia fondamentale, lo condividono tutte le destre in Europa. Al contrario di ciò che è stato detto spesso – le ideologie non hanno più importanza - la destra ha capito l’importanza dei ‘valori’, da mettere nella testa della gente per andare incontro a parte dell’opinione pubblica. In Italia una miscela di nazionalismo, individualismo, compassione sociale, ripiegamento sul locale di fronte alla mondializzazione, liberismo ma con protezione da parte dello Stato, tutti valori contraddittori, come la “modernità nella tradizione” appunto, e con un forte riferimento alla Chiesa cattolica, e anche un po’ di laicità (poca, ma conta il costume degli uomini politici, che in Italia è all’opposto della dottrina cristiana), questa miscela contraddittoria, dicevo, ha messo insieme un elettorato composito. Ma è l’ascesa culturale della destra, in senso antropologico, la novità più importante. Uno degli errori più gravi della sinistra è stato la presunzione intellettuale, invece che cercare di ricostruire un’identità moderna...”
La cultura della destra che descrivi risponde esattamente al vecchio concetto di ideologia...
“Sono quasi pronto a usare questa parola, sapendo però che in questa definizione di ideologia non c’è più la “dottrina”. In questo senso la cultura di destra è ideologia, e la sinistra l’ha cancellata, cancellando i propri valori. Storicamente la sinistra italiana si è confrontata con una doppia crisi, quella del comunismo, e quella dell’esaurimento della forza propulsiva della socialdemocrazia (lo disse Berlinguer); il Pci si convertì alla socialdemocrazia nel momento storico in cui quel modello era in crisi. Per apparire responsabile e moderna la sinistra italiana ha fatto molti compromessi, ultimo il Pd, che difendo come progetto, ma che ha davanti a sé un grande vuoto, quello dell’identità culturale”.
Qualche esempio positivo di valori?
“La laicità, e i Dico, o Pacs, che in Francia esistono da anni. Mi stupisce non sia un argomento su cui il Pd avanzi, quando si sa che l’opinione pubblica italiana è favorevole. Dalla prudenza togliattiana (e berlingueriana) all’epoca del referendum sul divorzio, a quella veltroniana o dalemiana: la riluttanza ad affrontare temi civili come hanno fatto Zapatero in Spagna o Mitterrand in Francia nel 1981. E’ un piccolo esempio di investimento culturale, di valori, su cui il Pd potrebbe impegnarsi e vincere. Così come sui temi economici e sociali, se riuscisse a pensare seriamente la complessità della società italiana, ancora interpretata ideologicamente su modelli del passato. Occorre capire la profondità dei cambiamenti, e in questo la sinistra italiana è timida, lascia spazio alla destra, è sulla difensiva.
Anche riformismo è una parola povera, ottocentesca, un contenitore vuoto...
“In effetti anche la destra non si presenta più come conservatrice, ma come riformatrice. Ma ‘riformismo’ significava rinunciare all’utopia – non in filosofia, ma in politica - dove utopia vuol dire credere di cambiare l’essere umano, e non solo la situazione politica, economica e culturale. Ma rinunciare all’utopia non significa rinunciare a una narrativa; a forza di voler essere riformisti, responsabili, si dimentica che gli elettori non sono solo esseri razionali, hanno bisogni di grandi narrazioni. Da riformisti si può cercare di mobilitare la gente per un cambiamento. Un grande esempio è la vittoria di Obama, che è stato capace in diversi discorsi su diversi temi importanti di entusiasmare la gente; col suo carisma e la sua eloquenza, ma anche con una narrazione nuova, che rilanciava l’America e il cambiamento. Zapatero vinse la seconda volta mobilitando la gente con obiettivi civili e di modernizzazione. Al di là dei contenuti, Zapatero e Obama hanno dato agli elettori l’idea che col loro voto potessero cambiare qualcosa. Questa ‘narrativa’ non esiste più nella sinistra italiana: l’idea che si possa fare qualcosa di diverso con il Pd, un sogno, una narrazione che coinvolga, che potrebbe capovolgere il suo essere minoritario facendola tornare dominante culturalmente, cioè nella testa della gente”.
(uscito su l'Unità di oggi 9-1-2008)
A parlarmi è Marc Lazar, storico e politologo francese di fama. Nato nel 1952, è professore di storia e sociologia politica, direttore di studi dottorali alla facoltà di Scienze politiche a Parigi e docente alla Luiss di Roma. Studia e conosce da anni la realtà politica italiana, di cui è osservatore disincantato e appassionato, soprattutto per quanto riguarda la sinistra. Era presente con Maurice Duverger al congresso che sancì la fine del Pci, dopo il famoso annuncio alla Bolognina di Achille Occhetto, ha seguito da vicino la nascita de Ds, poi quella del Pd. Alla sinistra dedica pagine dure, le più interessanti del suo nuovo libro che esce oggi, L’Italia sul filo del rasoio(Rizzoli), seguito ideale di Democrazia alla prova (Laterza 2007), e “un tentativo di capire quali siano i veri elementi di continuità e di cambiamento degli ultimi decenni in Italia, a partire dalle elezioni dello scorso anno che hanno visto la nuova vittoria di Berlusconi e delle destre”.
Chiave di lettura del libro – variante della celebre frase del Gattopardo - sta nel distinguersi sia da chi dice che niente cambia in questo Paese, e spiega Berlusconi come una tradizionale disgrazia e difetto dell’Italia, la cui storia sarebbe un elenco di errori ed occasioni mancate; sia da chi vede solo ed esclusivamente novità e cambiamenti. Ma quelli che dicono – soprattutto studiosi italiani - che “è cambiato tutto”, sono gli stessi che prima spiegavano l’Italia come immobilismo. “Bisogna uscire da questa oscillazione - dice Marc Lazar - per individuare i cambiamenti e le continuità. E’ il mio modello d’analisi per capire la vostra ‘modernizzazione tradizionale’: non una modernizzazione autoritaria, né un taglio dei legami col passato (come per noi francesi l’esempio classico della rivoluzione). Uno dei cambiamenti più importanti è l’ascesa della destra in Italia, che mi stupisce come storico – poiché dopo il fascismo, fino agli anni ’80-‘90 era quasi impossibile dirsi di destra in Italia (c’era solo l’Msi, oggetto di una legittima stigmatizzazione in quanto erede del fascismo). Lo sdoganamanto di questa destra da parte di Berlusconi è stato accompagnato non solo da una crescita dei partiti, ma soprattutto da un’impresa culturale capace di mobilitare dei valori, che oggi ha raggiunto in Italia l’egemonia culturale”.
Come dire: quando la sinistra non era di governo era però vincente nella società...
“Sì. Mentre a sinistra spariscono i valori, essi sono fortemente promossi dalla destra. E’ un cambiamento avvenuto anche in Francia, dove la sinistra era minoritaria elettoralmente ma dominante culturalmente, e adesso non solo è minoritaria ma ha perso anche la battaglia culturale. Berlusconi è riuscito a unificare diverse anime della destra, da quella post-fascista a quella cattolica intransigente, la Lega Nord col liberismo conservatore, il che significa che – non essendo Berlusconi immortale (anche se questa ovvia affermazione appare da voi un’eresia) - quando passerà la mano la destra avrà di sicuro un bel problema a restare unita. Ma l’Italia in questo non è isolata. In Francia Sarkozy è riuscito unificare le destre, che è un evento storico perché dall’Ottocento vige una distinzione tra le tre destre (bonapartista, orléanista, legittimista, ovvero tradizionale, liberale e autoritaria). Ora è tutta riunita, fino a lambire qualche elemento di sinistra, in un partito unico, l’Ump. Pur nelle differenze (Berlusconi e Sarkozy sono diversi, e quest’ultimo, come Chirac, ha sempre criticato duramente l’estrema destra di Le Pen), il processo di riunificazione dietro un leader, nella consapevolezza che la battaglia culturale sia fondamentale, lo condividono tutte le destre in Europa. Al contrario di ciò che è stato detto spesso – le ideologie non hanno più importanza - la destra ha capito l’importanza dei ‘valori’, da mettere nella testa della gente per andare incontro a parte dell’opinione pubblica. In Italia una miscela di nazionalismo, individualismo, compassione sociale, ripiegamento sul locale di fronte alla mondializzazione, liberismo ma con protezione da parte dello Stato, tutti valori contraddittori, come la “modernità nella tradizione” appunto, e con un forte riferimento alla Chiesa cattolica, e anche un po’ di laicità (poca, ma conta il costume degli uomini politici, che in Italia è all’opposto della dottrina cristiana), questa miscela contraddittoria, dicevo, ha messo insieme un elettorato composito. Ma è l’ascesa culturale della destra, in senso antropologico, la novità più importante. Uno degli errori più gravi della sinistra è stato la presunzione intellettuale, invece che cercare di ricostruire un’identità moderna...”
La cultura della destra che descrivi risponde esattamente al vecchio concetto di ideologia...
“Sono quasi pronto a usare questa parola, sapendo però che in questa definizione di ideologia non c’è più la “dottrina”. In questo senso la cultura di destra è ideologia, e la sinistra l’ha cancellata, cancellando i propri valori. Storicamente la sinistra italiana si è confrontata con una doppia crisi, quella del comunismo, e quella dell’esaurimento della forza propulsiva della socialdemocrazia (lo disse Berlinguer); il Pci si convertì alla socialdemocrazia nel momento storico in cui quel modello era in crisi. Per apparire responsabile e moderna la sinistra italiana ha fatto molti compromessi, ultimo il Pd, che difendo come progetto, ma che ha davanti a sé un grande vuoto, quello dell’identità culturale”.
Qualche esempio positivo di valori?
“La laicità, e i Dico, o Pacs, che in Francia esistono da anni. Mi stupisce non sia un argomento su cui il Pd avanzi, quando si sa che l’opinione pubblica italiana è favorevole. Dalla prudenza togliattiana (e berlingueriana) all’epoca del referendum sul divorzio, a quella veltroniana o dalemiana: la riluttanza ad affrontare temi civili come hanno fatto Zapatero in Spagna o Mitterrand in Francia nel 1981. E’ un piccolo esempio di investimento culturale, di valori, su cui il Pd potrebbe impegnarsi e vincere. Così come sui temi economici e sociali, se riuscisse a pensare seriamente la complessità della società italiana, ancora interpretata ideologicamente su modelli del passato. Occorre capire la profondità dei cambiamenti, e in questo la sinistra italiana è timida, lascia spazio alla destra, è sulla difensiva.
Anche riformismo è una parola povera, ottocentesca, un contenitore vuoto...
“In effetti anche la destra non si presenta più come conservatrice, ma come riformatrice. Ma ‘riformismo’ significava rinunciare all’utopia – non in filosofia, ma in politica - dove utopia vuol dire credere di cambiare l’essere umano, e non solo la situazione politica, economica e culturale. Ma rinunciare all’utopia non significa rinunciare a una narrativa; a forza di voler essere riformisti, responsabili, si dimentica che gli elettori non sono solo esseri razionali, hanno bisogni di grandi narrazioni. Da riformisti si può cercare di mobilitare la gente per un cambiamento. Un grande esempio è la vittoria di Obama, che è stato capace in diversi discorsi su diversi temi importanti di entusiasmare la gente; col suo carisma e la sua eloquenza, ma anche con una narrazione nuova, che rilanciava l’America e il cambiamento. Zapatero vinse la seconda volta mobilitando la gente con obiettivi civili e di modernizzazione. Al di là dei contenuti, Zapatero e Obama hanno dato agli elettori l’idea che col loro voto potessero cambiare qualcosa. Questa ‘narrativa’ non esiste più nella sinistra italiana: l’idea che si possa fare qualcosa di diverso con il Pd, un sogno, una narrazione che coinvolga, che potrebbe capovolgere il suo essere minoritario facendola tornare dominante culturalmente, cioè nella testa della gente”.
(uscito su l'Unità di oggi 9-1-2008)
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1/06/2009
"Messaggio"
Ampiezza, ... tensione, ... un amico ne reclama una,
l'altro l'altra, nelle mie opere;
in versi e prosa. Beh, un accidente.
Non sto scrivendo un'autobiografia in versi, amici miei.
Impressioni, strutture, storielle della Columbia negli anni
trenta e il trimestre autunnale a Cambridge nel '36,
seguite da altre dopo. Non è la mia vita.
Questa è occlusa e persa.
Questa consisté di lezioni su San Paolo,
azzuffate con donne, momenti singolari
in cui certe cose riuscivano alla perfezione.
Ozio, bevute, brutti sogni.
Consisté di tre mogli e molti amici,
capricci e emergenze, perdite, scoperte.
E' stato un lungo viaggio. Lo rifarei?
Ma una volta una bellezza polacca mi mise a nudo e non infierì.
Non ricordo perché abbia mandato questo messaggio.
I bambini! i bambini sono il punto essenziale di tutto.
I bambini e la nobile arte.
Anche i soldi in banca son qualcosa.
Moriremo tutti, e sembra dimostrato
che "dopo non c'è nulla".
Cara, non ci si ricongiunge.
Intanto, credo, occorre essere buoni & coraggiosi.
(John Berryman, da Love & Fame, trad. di Sergio Perosa)
(P.S. Vorrei, mi piacerebbe, dire come sto. Questa poesia lo dice meglio. La amo da quando la conosco, più di 25 anni. Fu letta in un film che feci con Giorgio Messori dall'attore (e grande regista teatrale) Nanni Garella, col mio corpo disteso visto da dietro, per terra. Tanti anni fa. Con emozione (tremore & timore) mi ritrovo in essa, e basterebbe cambiare qualche data, qualche nome di luogo...
Mi è successo: l'ultimo dell'anno è stato buono, è poco dopo mezzanotte, nel capodanno, che sono precipitato. Se posso, se sopra-vivo, lo racconto. Un saluto a tutti.
l'altro l'altra, nelle mie opere;
in versi e prosa. Beh, un accidente.
Non sto scrivendo un'autobiografia in versi, amici miei.
Impressioni, strutture, storielle della Columbia negli anni
trenta e il trimestre autunnale a Cambridge nel '36,
seguite da altre dopo. Non è la mia vita.
Questa è occlusa e persa.
Questa consisté di lezioni su San Paolo,
azzuffate con donne, momenti singolari
in cui certe cose riuscivano alla perfezione.
Ozio, bevute, brutti sogni.
Consisté di tre mogli e molti amici,
capricci e emergenze, perdite, scoperte.
E' stato un lungo viaggio. Lo rifarei?
Ma una volta una bellezza polacca mi mise a nudo e non infierì.
Non ricordo perché abbia mandato questo messaggio.
I bambini! i bambini sono il punto essenziale di tutto.
I bambini e la nobile arte.
Anche i soldi in banca son qualcosa.
Moriremo tutti, e sembra dimostrato
che "dopo non c'è nulla".
Cara, non ci si ricongiunge.
Intanto, credo, occorre essere buoni & coraggiosi.
(John Berryman, da Love & Fame, trad. di Sergio Perosa)
(P.S. Vorrei, mi piacerebbe, dire come sto. Questa poesia lo dice meglio. La amo da quando la conosco, più di 25 anni. Fu letta in un film che feci con Giorgio Messori dall'attore (e grande regista teatrale) Nanni Garella, col mio corpo disteso visto da dietro, per terra. Tanti anni fa. Con emozione (tremore & timore) mi ritrovo in essa, e basterebbe cambiare qualche data, qualche nome di luogo...
Mi è successo: l'ultimo dell'anno è stato buono, è poco dopo mezzanotte, nel capodanno, che sono precipitato. Se posso, se sopra-vivo, lo racconto. Un saluto a tutti.
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