5/28/2007

Bianco su bianco

E' il titolo del mio racconto uscito su la Repubblica (edizione romana) domenica scorsa, illustrato dal pittore Andrea Aquilanti - per la serie "i colori di Roma". (La cosa che mi impressiona di più è vedere che ormai gli scrttiori di Roma, cioè che vivono qui, sono la gran parte: merito del clima o di Veltroni?). Dopo queste giornate di impegni fitti, tra lavoro e gratuità (la piccola campagna elettorale a Parma, di cui sapremo i risultati stasera), lasciatemi il piacere di postare qualcosa che mi appartiene davvero - un racconto, bello o brutto che sia. Ed ecco perché posto qui, sul blog e non in un archivio del sito, questo "Bianco su bianco". Per rompere il ghiaccio dopo una lunga pausa.


Beppe Sebaste, Bianco su bianco

Da tempo, da quando me li aveva indicati mia moglie, pensavo che i gabbiani che svolazzano sull’Altare della Patria, soprattutto al crepuscolo nei mesi di primavera e d’estate, fossero fantasmi in una delle loro trasformazioni. Quel bianco su bianco, sui tetti dell’immensa macchina da scrivere di marmo, sullo sfondo di un cielo blu elettrico, non aveva più cessato di farmi sentire una strana premonizione, e insieme un’idea di comunanza. Se attraversando Piazza Venezia la sera vedevo i gabbiani svolazzare nell’ultima luce io ero allegro, ma di un’allegria irrequieta, un po’ nervosa, come l’energia di quegli uccelli che non stanno mai fermi, o che si posano a volte sulle statue del ponte di Castel Sant’Angelo, o dovunque ci sia dell’arte umana da prendere un po’ in giro, magari lasciar cadere dall’alto qualche cacca, tanto per giocare. I gabbiani e le statue, i gabbiani e l’arte: mi sembrava un bel tema. Come le panchine e i fantasmi. In realtà, ora lo so, è tutto collegato. Era un presentimento? Mi spiego.
All’inizio e alla fine di ogni colore, c’è sempre il bianco. Anche le statue sono bianche, le tele e i fogli dove si scrive sono bianchi. Ho sempre voluto fare lo scrittore, e l’ultima cosa che avrei voluto scrivere era sulle panchine, solo che… non ho fatto in tempo. Mi spiego meglio: il fatto è che nel frattempo sono diventato anch’io un fantasma. Me ne sono accorto per la prima volta una sera d’inizio primavera, e lì per lì non ci ho fatto molto caso.
Ero al Circolo degli Artisti sulla Casilina Vecchia, era sabato, l’aria era tiepida e c’era una luce molto tenera – la luce migliore di Roma. Non so come ero capitato lì, si inaugurava una mostra dal titolo “svuotamenti” - pezzi di mondo che vengono svuotati del visibile e, in cambio, riempiti di quello che non si vede mai, lo spazio tra le cose e tra la gente, lo spazio tra le forme (lo spazio dei fantasmi?). Avevo già guardato la mostra due volte, stranamente non mi aveva salutato nessuno, e mi sono seduto fuori in disparte, su una panchina col prato alle spalle. Sorseggiavo del vino e guardavo le ragazze che entravano e uscivano dal bar. Mi sentivo così in pace che mi misi a scrivere degli sms dolci: a mio figlio, a mia moglie, agli amici, alle amanti perdute, a quelle non ancora trovate. A tutti dicevo che stavo davvero bene, descrissi il rosso e l’arancio del tramonto, la luce romana di fine marzo. Intanto contemplavo la luce declinante e le ragazze e i ragazzi che sciamavano coi bicchieri in mano, parlottando come api in un giardino. Buffo che solo poco ore prima mi ero alzato dal letto in quello stato che una frase romantica dice così: “mentre contemplavo l’aurora, è calata la sera”. Ero passato da un crepuscolo all’altro, dopo una notte di… che cosa, in effetti?
Finché mi accorsi, mentre tenevo ancora in mano il telefonino, che l’orologio segnava sempre la stessa ora, le 20,00. Le otto di sera. Mi sentivo bene, mi sentivo in pace e contemplativo.
Mi sentivo invisibile.
Mi sentivo fuori dal tempo.
Allora sorrisi, perché capii. Ero diventato fantasma. Era stato questo a darmi voglia di scrivere? Scrivere, si sa, è una cosa che fanno i fantasmi.
Qualche segno c’era stato: quell’idea di scrivere sulle panchine, il tempo senza tempo di chi ci sta tutto il giorno sopra e intorno. Stare in panchina non è già una cosa da fantasmi?
Alcune, soprattutto, erano diventate le mie predilette, come quelle della piazzetta con la fontana intitolata a Cairoli, vicino al Ministero della Giustizia. Io lavoravo lì vicino (sono direttore dell’ufficio postale di via Arenula), e ci andavo a fare le pause. Sempre più spesso, devo dire. La chiamavo la “piazzetta dell’accasciato” perché c’è una statua di uno, credo Cairoli stesso, che siede con le gambe incrociate su una poltrona, completamente accasciato e tristissimo, con la mano sinistra a reggersi la testa, il braccio destro riverso di fianco alla poltrona, e un libro in mano che sta per cadergli per terra. Forse si è addormentato, o forse è così assorto da preoccupazioni e pensieri che non si rende conto. La cosa buffa è che, sulle panchine che costeggiano il giardinetto, le persone che si siedono (persone?) hanno assunto tutte quella stessa aria accasciata, forse perché sono disoccupati, e sembrano presi da una stanchezza o da un tedio tali, da lasciarsi tutti scivolare sulle panchine come se fossero schiacciati da preoccupazioni e pensieri sovrumani, come Cairoli – anche se quasi nessuno a dire il vero ha un libro in mano, e pur essendo facile provvedere a questo: a pochi metri c’è una bancarella che vende libri usati, e io stesso ci ho trovato più di una volta per pochi euro un libro che faceva al caso, poter accasciarmi su una panchina e leggere, oppure chiudere il libro nella mano e lasciarla cadere giù, alla mia destra, preso dai miei pensieri o dalla mia stanchezza di direttore dell’ufficio postale. Lì ci sono sempre degli uccelli, però svolazzano poco, si limitano a camminare saltellando, hanno l’aria anche loro un po’ stanca, e a volte si accasciano sull’erba rada e ingiallita – perché anche l’erba è stanca e accasciata per terra. Ecco, a pensarci, il fatto che passassi la maggior parte del tempo sulla piazzetta dell’accasciato, non avrebbe dovuto insospettirmi? Stavo diventando un fantasma, e anche quelli che si sedevano con me, e anche gli uccelli (per lo più piccioni). Ma questo lo capii solo dopo.
E’ su una di quelle panchine che conobbi il sig. Guzman. Guzman aveva i capelli rossi, era ebreo ma sembrava un irlandese, e tutti i giorni entrava e usciva dall’Istituto Italo Latino Americano. Cercava documenti, diceva, e non riusciva a farsi dare nessun riconoscimento di identità, e a sentir lui non aveva niente, solo il nome, Guzman, e che era ebreo, credo russo, ma parlava spagnolo e aveva i capelli rossi da irlandese, voleva andare in Argentina ed era il mio compagno di panchina. Aveva la faccia più anonima del mondo, mi faceva pensare a un racconto di Pirandello, però più rassegnato e moderno, finché una volta lo vidi diventare bianco, ma così bianco che sembrava una statua. Poi sparì. Non lo vidi più sulla panchina, finché una sera una cacca di piccione sulla spalla, poi altre a raffica sulla statua dell’accasciato mi fecero alzare la testa e vidi un uccello alto con un ciuffo rosso, e pensai a Guzman. Ora lo so, era lui. Adesso so un sacco di cose. Sono un fantasma anch’io.
Quella notte tornai dalla Casilina Vecchia, salii a casa e, mentre cercavo di aprire la porta con la chiave, vidi che la mia mano ci passava attraverso (la chiave però no, la lasciai sulla toppa), e andai da mia moglie tutto eccitato per dirglielo. Lei però era al telefono e non mi sentiva, nemmeno se parlavo forte. Uscii sul terrazzo attraversando i vetri, e guardai il cielo e la città gialla per via delle luci elettriche, e mi sembrò bellissima, anche se mi sembrava di guardarla attraverso un vetro sottile, o un plexiglas. E’ così che guardano i fantasmi, come dietro un vetro. L’aria frizzante mi dava piccoli brividi attraversandomi, e mi sentivo davvero in forma. Mia moglie era sempre al telefono (ma con chi parlava?) e non c’era davvero nulla che potessi fare per richiamare la sua attenzione. Passai le ore in terrazza a guardare e pensare, ogni tanto rientravo – stare dentro era come stare fuori - e intanto diventavo sempre più bianco, “bianco come un fantasma” esclamai, e scoppiai a ridere da solo, una risata stridula da fantasma timido. Mia moglie era sempre al telefono, agitata. Poco prima dell’alba rimasi seduto sul cornicione a guardare giù, indeciso se avere paura del vuoto. Macché. E pensare che una volta soffrivo di vertigini. E se magari volo?, mi sono detto. No, i fantasmi non sono angeli, al massimo fluttuo, però non mi sfracellerò al suolo, tutt’al più divento terra, divento suolo, potrei perfino farmi calpestare dagli altri. E intanto dondolavo i miei arti di fantasma sulla balaustra arrugginita. Guardavo i tetti, le cupole in lontananza, la città invisibile dietro la città visibile, mentre io stesso facevo parte dell’invisibile, ero - risi tra me e me - l’uomo invisibile. Quello che, ha scritto un poeta, non si vede mai, neanche nei film dell’Uomo invisibile, neanche fuori dal cinema, dopo il film. Fu in quel momento che mi lasciai andare, oltre la terrazza e la balaustra, oltre tutte quelle forme e quei vuoti tra le forme, oltre le correnti d’aria. Ciao, dissi alla finestra, ai quadri e ai mobili (mia moglie era sempre al telefono e non mi vide: le sorrisi), leviamo le ancore, cessiamo ogni attaccamento e lasciamo ogni presa, è bello il vento che mi passa attraverso, sono davvero felice. Fu dopo pochissimo tempo (quanto, non saprei calcolarlo) che mi ritrovai a svolazzare sul Castel Sant’Angelo, sopra le statue bianche, sopra le chiese bianche, e da lì mi diressi verso i miei simili, erano tanti, e volteggiai insieme a loro allegramente, ridevamo danzando, scrivevamo frasi sul cielo nella nostra allegra scrittura di fantasmi, sul foglio bianco della Macchina da Scrivere, sul cielo grande e scuro che cominciava a diventare colorato, sopra quel piccolo altare bianco.


5/22/2007

A casa, a Roma...

Che bello tornare a Roma da Parma. Ieri sono rimasto perché veniva Veltroni, l'incredibile Walter che incanta quando parla, così amato da tutti (e in effetti, come resistere al suo effetto di trascinamento?). Voglio riposarmi un po', questa commistione con la politica, anche se per me minima, per le elezioni comunali a Parma, mi esaurisce. Non ho fatto niente, lo giuro, anche se un po' mi scappa da ridere, e già domenica sul giornale locale il potente sindaco uscente mi ha attaccato ("intellettuale" a Parma pare sia l'insulto più usato, come se Parma fosse la capitale della Lega Nord), e idem sulla tv locale ecc. Ma che ho fatto? Ho detto che si rischia l'anestesia completa, e che ci vorrebbe qualche cura, ecc. ecc. Un grazie a Gianni Biondillo che è venuto ad incantare i parmigiani parlando di letteratura, di città, di abitare... con la sua simpatia e la sua verve, ma anche con la sua competenza e la sua capacità di osservazione della realtà. Nel frattempo ho capito il mio disagio profondo: i politici possono mentire, è strutturale, ma gli scrittori no, non possono mai mentire (è la definizione di poeta che una volta mi ha insegnato Erri De Luca). E dunque io che cavolo sto facendo a Parma? Forse è per questo che mi hanno attaccato..
Per cambiarsi un po' la bocca, vi linko qui un'intervista che sul sito la poesia e lo spirito mi ha fatto Marino Magliani (che qui saluto con affetto). Chi invece volesse solidarizzare con me e ha voglia di sproloquiare un po', può intervenire e difendermi, come ha fatto il buon Davide Tedeschini (vedi anche copia del suo commento nel mio post precedente), sul sito www.alicenonlosa.it. A presto...
P.S., 23 maggio: per chi sta a Roma, di domenica scorsa segnalo su "la Repubblica" un mio racconto, Bianco su bianco; sullo stesso giornale, pagine di Roma, ieri un mio pezzo in memoria del poeta Gregory Corso, romano onorario, le cui ceneri sono sepolte nel cimitero dei poeti del Testaccio.

5/18/2007

Invito a Parma


L'invito è a Parma, domenica ore 16 (ma poi si resta anche per cena, a parlare di estetica e politica) nel ristorante più simpatico e leggendario di Parma, quello della famiglia Cerati, gestito dai figli nella tradizione del padre Giulio Cerati, il cuoco amico dei poeti e degli artisti dell'avanguardia italiana. Il pretesto, l'occasione, è il libro Periferie (Laterza), curato da Stefania Scateni, di cui si parlerà con due degli autori, Gianni Biondillo, scrittore e architetto milanese, e il sottoscritto, aiutati dalla critica letteraria Francesca Avanzini e dal giornalista Bruno Rossi. Ma essendo il libro soprattutto esempio di un metodo (credo molto umile) di descrizione del territorio urbano, si parlerà appunto di città, di paesaggio, di conoscenza dei luoghi e di tutti quei temi estetici, quei giudizi politici, che sono (Hillman insegna) già giudizi e azioni politiche. E a Parma, città dei più importanti palazzinari e costruttori italiani (da Pizzarotti all'ex ministro Lunardi, sodali dell'attuale sindaco) ormai lo avrete capito che ci sono le elezioni amministrative, e io sto dando una mano.

5/15/2007

Sullo scrivere un blog

Ieri l'amica Lipperini, nota giornalista e blogger, mi ha coinvolto in un gioco di dichiarazioni, ovvero i cinque motivi, scrive, per cui vale la pena scrivere un blog. Lei li ha elencati in modo onesto e intelligente. Quello che mi imbarazza, avendolo da poco e all'interno di un mio sito ancora in costruzione, è che in passato i blog li ho sempre presi un po' in giro, additando anche troppo facilmente la loro autoreferenzialità: non tanto dei singoli scriventi, ma autoreferenzialità del genere cui appartengono: i blog parlano sempre di blog (come a volte i giornali parlano di altri giornali: come un mondo a parte). E dunque, perché aggiungersi?
Innanzitutto per prova: se mi stufo smetto.
Poi per il piacere di non essere virtualmente solo anche quando sono solo. Nel post inaugurale, in febbraio, scrivevo che per anni avevo tenuto un diario al computer, e immaginavo di non essere solo scrivendo. Era un modo di uscire, di aprire una finestra. E il blog allora è per me un aprire una finestra, essere in contatto col mondo anche quando sono da solo (nulla è più solitario che scrivere).
Poi c'è il fatto che io chiamo "archivio", parola importante e dai sensi oggi sempre più ampi e sfumati: documentario, testimonianze, indizi di qualcosa che può servire, cose da non buttare via ma da mettere da parte, cose informi che forse hanno una forma che ancora non riusciamo a vedere, ecc. ecc. Altra ragione per scrivere quella nebulosa che si chiama blog. In realtà si scrive sempre per se stessi e a se stessi (se si è scrittori) ma il fantasma dell'altro (sic) è di grandissimo sostegno, nonché in fondo il vero motore (sembra contraddittorio, e lo è: ma si scrive per sé e per l'altro, dove l'ultimo "per" suona come quello di "una sonata per pianoforte").
Non escludo quindi un giorno o l'altro di postare lì, come se niente fosse, il primo capitolo del "romanzo" che sto scrivendo, e che risulta strano a me stesso (buon segno, so per esperienza) per vedere che effetto fa...
Poi mi accade che quando faccio un'esperienza, un'esperienza che ancora non ho elaborato (anche leggere un libro), invece di mettermi lì e fare un articolo per un giornale, lo scrivo nel blog: cosa assolutamente antieconomica, perché i giornali mi pagano, il mio blog no. Ma vuoi mettere la libertà di modi e di tempi?
Poi mi vengono in mente altre cose. Ieri su un settimanale on line (alicenonlosa) che fanno a Parma, dove ho sciaguratamente (per me) accettato di essere candidato in una lista di sinistra per le elezioni amministrative, è uscita un'intervista a me, con tanto di commenti dei lettori. In esse un signore mi apostrofa come "il paradigma dell'intellettuale, o sedicente tale, con l'aggravante di essere di sinistra", ecc. ecc. (del genere: quando sento la parola cultura cerco con la mano la pistola). Mi ha talmente intrigato questa figura che credevo mitica o scomparsa che gli ho risposto. Quei commenti, ovviamente, sono un blog collettivo, come è un blog quello in cui i "centoautori" di cinema (ne parlo in un post di qualche giorno fa) si sono organizzati per smuovere le cose sulla politica del cinema in Italia. Insomma, la dimensione politica, pubblica, del blog. Tornando al signore di Parma, mi è venuto in mente per una serie di associazioni di idee lo stile epigrammatico di Pasolini, le sue polemiche, le sue vicende giudiziarie, e ho pensato che avere un blog è uno strumento che potrebbe essere tagliente e lapidario come il suo Orson Welles che ne La ricotta attacca il giornalista, "normale", quindi intrinsecamente "fascista", o come quei versi che PPP dedicò a un suo avversario: "Sei così ipocrita / che quando l'ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all'inferno / e ti dirai in paradiso".
Il blog allora non solo come un diario (aperto), uno snodo postale (lettere, scrittura destinata, epistolarità nel senso più alto), ma come palestra possibile di una non-normalità, di una ricerca, trasformazione e transito di idee, di una pratica dei margini, della sperimentazione, dell'insubordinazione (meglio in francese: della insoumission), di una parola civile. Quella che ancora cerca una forma, e forse l'ha già trovata e non lo sa.

Evasione

Una volta un critico mi ha mandato un sms, stupito che avessi dichiarato in pubblico che un certo romanzo mi era piaciuto. Gli ho risposto: sapessi quelli che leggo quando prendo il treno. Di solito sono, genericamente, "gialli" o thriller, quasi sempre americani. Appena letti li butti o li regali, perché non c'è niente da rileggere. Eppure... A parte lo stato ipnotico e di vero relax (la parte nobile dell'evasione: non dell'essere, ma dall'essere, direbbe Lévinas), per cui sarei felice, anche una volta che il treno è arrivato, di continuare a leggere su una panchina, a volte sono una miniera di frasi e idee. Per esempio l'ultimo, col solito, micidiale titolo - L'angelo delle ossa, di John Connolly - che quasi alle prime pagine riporta questa formula inedita, almeno per me: "il fantasma di Dio". Che idea straordinaria, una formula che neanche Philip Dick. E poi, accanto al macabro, il grottesco, il morboso, il male & il bene, ci sono battute esilaranti, quel mix ormai consolidato e americano (imitatissimo dagli scrittori noir italiani) di serio e buffo, su canovacci direttamente tradotti dai trattamenti di cinema e dalle sceneggiature. Libri montati come film, successioni di scene. Ma è negli interstizi che trovo quello che mi inchioda alla lettura, descrizioni di azioni ordinarie, dialoghi. Frasi che dicono verità semplici e illuminanti, come questa, detta dal detective alla sua donna quando lei gli dice che devono parlare: "Non ho mai affrontato una situazione in cui qualcuno mi anuncia che mi deve parlare uscendone meglio di come ci sono entrato". E, qui e là, personaggi stravaganti e comici come quelli di Lansdale.
Insomma, è un periodaccio, quanto a impegni. Ci mancava solo andare a Parma i weekend per aiutare gli amici nelle elezioni amministrative. Il caldo incombe. E la letteratura da treno (Jean-Luc Godard ci metteva dentro anche i romanzi di Moravia) un po' aiuta...

5/14/2007

Lunedì al sole (a Parma)

Recupero, dall'Unità del 26/1/2004 (era il periodo dello scandalo Parmalat), un corsivo di quella mia rubrica, I lunedì al sole, dal titolo "Parma dietro le quinte". Il fatto che a Parma si svolga una campagna elettorale non è ovviamente esente dalle ragioni di questo post.

I parmigiani, anche quelli d’adozione, quelli che ci si abituano, amano molto parlare di Parma. E’ il tratto principale della koiné parmigiana, cui non sfugge nessuna parola pubblica: un sentimento di appartenenza a qualcosa di già valorizzato, la condivisione di un codice e di un valore ostentato con presunzione e presupposizione. Gli aggettivi su Parma si sprecano, ma nonostante il dispendio di parole per dire la soddisfazione - estetica, politica (la forma “ducale”), gastronomica e godereccia in genere - è come se sempre in qualche modo il linguaggio si desse di gomito, alludesse a qualcosa che non si può dire fino in fondo, ma ben lo conosce chi lo vive. Circolo chiuso (cioè vizioso) di un modo di essere così soddisfatto di sé che ogni volta che cerca di guardare se stesso ne esce confermato e rafforzato; sazietà, narcisismo, ma senza quella passione che prima o poi destabilizzerebbe la propria identità. C’è qualcosa di unico in questo sentimento dei parmigiani, nel loro compiaciuto tematizzare se stessi, il proprio teatro interiore (perché la città diventa un Ego avvolgente come un alveo); qualcosa infine di caricaturale, che oltrepassa ogni analoga esperienza di sé e del proprio abitare. Parma come mònade: mi viene da dirlo così quel sentimento, “monadologia trascendentale”, con tutto ciò che di mono-logico e mono-tono è iscritto in questo concetto. E che è propriamente inconciliabile con chi, pur parmigiano come il sottoscritto, ha sempre cercato di incarnare in una nomadologia ugualmente trascendentale il proprio affermato sradicamento residenziale, come un’evasione continua non del proprio essere, per essere da qualche parte, ma dall’essere stesso, dall’omogeneità, dal valore, da ogni stasi compiaciuta di sé. Oggi Parma si lamenta che il proprio nome abdichi alla sua koiné e plusvalore, inaugurando tutt’altro lessico nel mondo globalizzato: quella della truffa e del disvalore. Ma tutto il boom della borsa negli ultimi anni, e in generale la corsa alla ricchezza, anche prima del crac Parmalat ricordava quel cinico gioco di società in auge nel ‘700. Si chiamava largesse (magnanimità), la facevano i ricchi e i nobili nei loro banchetti, lanciando pan di spezie ai poveri per il gusto di vederli azzuffarsi tra loro per spartirsi le briciole. Grazie a Internet e alle banche, una moltitudine interclassista di persone si è disputata in questi anni, come pesciolini alla superficie dell’acqua, le briciole di guadagni miliardari, sentendosi astuti geni della finanza. Salvo i crolli, lo scoppio delle bolle. Tanzi, come tanti, finanziava volentieri i restauri del Duomo e di altri monumenti. Ha fatto senz’altro del bene, a Parma. Ma nella finanza, in borsa soprattutto, non conta il valore reale (di una società), quanto la sua potenzialità, o l’impatto che ha sull’immaginario collettivo, il suo fantasma. Virtuale e valore sono sinonimi (lo sono sempre stati). Sono fantasmi. Come ciò che fa di Parma une “petite capitale”. Come il “liscio, dolce e color malva” che Proust associava a Parma. Come la celebre Certosa, che in realtà è a Modena.

5/10/2007

Politica della bellezza

Sabato, a Parma, nel cortile coi tigli della Corale Verdi, ci sarà un dialogo aperto, corale appunto, su "arte, estetica e cittadinanza a Parma", dove parteciperò insieme ad artisti (per esempio Alberto Reggianini) e architetti (per esempio Vittorio Savi, che insegna all'università di Firenze) per una politica della bellezza e, in sintesi, contro la concezione dell'arte come "arredo urbano". Ebbene sì, è un episodio di questa mia campagna elettorale a Parma, per buttare qualche seme di linguaggi diversi. Anche per questo spero vivamente che sabato partecipi anche un artista che stimo forse sopra ogni altro, Claudio Parmiggiani. Non è una politicizzazione dell'arte, è cittadinanza, espressione, prolungamento di uno sguardo. A questo proposito mi viene in mente, e vorrei offrirne qui uno stralcio, la lotta che registi, attori e altri che lavorano nel cinema stanno conducendo per una diversa politica del cinema (e della programmazione televisiva) in Italia. IE' stata promossa dal collettivo "centoautori", che ha anche un blog che raccoglie molte voci interessanti, ed è animato soprattutto da Giuseppe Piccioni (libreria del cinema di via dei Fienaroli, Trastevere). Dall'intervento dell'amico (parmigiano anche lui) Bernardo Bertolucci, in forma di lettera al ministro dei Beni culturali, durante l'assemblea al teatro Ambra Jovinelli il 7 maggio, copio qui uno stralcio che mi sembra molto bello. Riprende il tema di quegli anni Settanta (anni di carne e non di piombo, scrissi) che mi sta a cuore, e il tema dello sguardo sul mondo, che è sempre una reciprocità:
“C’è stato un momento, verso la metà degli anni Settanta, che vorrei ricordare a tutti e anche a lei che lo ha vissuto, in cui sembrava essersi trovata una gioia, una sintesi tra la cultura di questo paese e la sua gente. Le parole, i libri, i film venivano percepiti in maniera che chiamerei sensuale. In quel clima di straordinaria tensione creativa e morale e politica abbiamo visto qualcosa di irresistibile: gli occhi della gente reinventavano quello che ricevevano, elaborandolo, allungandogli la vita, rilanciando.
"Non vivo nel miele della nostalgia o nell’illusione che quello stato di grazia collettivo possa ripetersi ma sono certo che ricordarlo costituisca un diritto per chi come me ci ha vissuto dentro come un topo nel formaggio. Perdonatemi l’autocitazione, ma un esempio è Novecento, riuscito o meno non conta, un film completamente partorito da quel clima e premiato dal grande impatto che ebbe sulla gente. Le chiedo: crede che un film come quello sarebbe possibile oggi, nella sua libertà, nella sua utopia produttiva, nella sua megalomania, nell’estremismo delle sue contraddizioni? Io so che per anni ho tentato di chiuderlo con un terzo atto che arrivava ai giorni nostri ma ho dovuto rinunciare per onestà: il clima culturale era sfumato. . Mi torna in mente anche Salò, l’ultimo Pasolini, girato negli stessi mesi e a poche decine di chilometri, film atroce e sublime. Sarebbe possibile oggi Salò?”

5/08/2007

Estetica delle emozioni

(Questa mia recensione è apparsa ieri, 7 maggio, su l'Unità):

“Piangere almeno per i colori”, “Piangere senza sapere perché”, “Piangere come se fossimo stati colpiti da un fulmine”, “La torre d’avorio dell’incapacità di piangere” “Piangere su Dio”, “Come guardare e magari sentirsi commossi”, ecc. Sono alcuni dei nomi dei capitoli del bel libro di James Elkins, del 2001 ma tradotto da poco in italiano per le edizioni Bruno Mondadori, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro. In appendice l’autore riporta trentadue lettere (tra le quattrocento ricevute) in cui persone ordinarie, e che scelgono di restare anonime, raccontano episodi di commozione estetica, di pianto guardando opere e quadri dipinti. Alcune di queste lettere sono tra le pagine più belle del libro. Esiste un’estetica della commozione? O meglio: può esistere un’estetica (che significa scienza, o conoscenza, delle sensazioni) che prescinda dalla commozione, dall’affettività, dal pre-concettuale e, forse, addirittura pre-linguistico? Si piange per il “freddo” Mark Rothko e per l’impetuoso Caravaggio, per il romantico Friederich che ci immerge nell’infinito e nel sublime o per una periferia apparentemente priva di bellezza di Utrillo, ma quello che conta è il guardare, l’abbandonarsi del nostro sguardo in qualcosa che ci guarda, ovvero ci riguarda. James Elkins non ha una teoria del pianto e della commozione: il suo metodo è empirico e narrativo, raccoglie e racconta storie, proprie e di altri, per allargare il campo dell’erudizione e dell’estetica, e fare dell’arte una fonte di esperienze autentiche (aggettivo su cui mi soffermerò tra breve).

Qualcosa del genere, in Italia, è da anni il metodo di una studiosa di arte contemporanea e pedagogista, Anna D’Elia (insegna Pedagogia interculturale e dell’Arte all’Università di Foggia e all’Accademia di Belle Arti di Bari), che dopo il recente Nello specchio dell’arte. Figure autobiografiche (Meltemi) ci offre ora, sempre da Meltemi, il volume Per non voltare pagina. Raccontare l’orrore. Nonostante il titolo, sempre di arte e di estetica si tratta, ovvero d educazione alla sensibilità nel mondo delle immagini in un’epoca in cui, a quelle degli artisti contemporanei che l’autrice predilige (da Frida Kahlo a Nan Goldin, da Francis Bacon a Marina Abvramovic) si sovrappongono quelle degli eventi più atroci e della cronaca quotidiana, fatta di guerre, torture, sofferenze. Contro l’indifferenza (formula che accomuna i libri di D’Elia e di Elkins) l’autrice si sforza di analizzare, in un teatro di voci tra madre e figlia che ricorda un po’ la forma del “metalogo” introdotta da Gregory Bateson nella letteratura scientifica, temi come la vergogna (anche per colpe non commesse), il sentimento dell’esilio e dell’estraneità, il valore etico ed estetico della testimonianza, e “che cosa c’entra il sesso con la guerra” (titolo di uno dei primi capitoli): “E se fossimo stati già tutti deportati e non ce ne fossimo neppure accorti? E se i nuovi campi di concentramento fossero diventate le nostre stesse case, le nostre città, la nostra lingua?”

Accennavo sopra a parole ingombranti come autenticità ed esperienza. La soggettività esplicitata, ai limiti dell’autobiografismo, dei libri in questione, non è infatti solo un segno salutare di un allargamento degli orizzonti e delle discipline estetiche, ma segno d un ripensamento assai radicale del valore stesso della cultura. Vengono in mente le osservazioni fulminanti che svolgeva anni fa il filosofo Aldo Gargani a proposito della figura del “maestro”, che si differenzia dall’intellettuale tradizionale (cioè quasi tutti) per il fatto di investigare i modelli teorici presenti anche nelle disposizioni e negli atteggiamenti emotivi. Ecco, l’esperienza dell’autenticità è insegnamento dei maestri, che non esorcizzano l’emotività, lo smarrimento, la paura, la sofferenza. L’emotività muove il discorso e il pensiero, mentre l’intellettuale che la rimuove, che ne esclude il materiale pre-verbale, fa della cultura un’ennesima condizione di alienazione. Piangere di fronte a un quadro, guardare in faccia l’orrore, parlarne, vivere e raccontare queste esperienze, significa uscire dai ranghi degli intellettuali che parlano in realtà solo per tacere.

5/03/2007

Mantenere la parola

Navigando, scorrazzando distrattamente per Internet (la solita serendipity, trovare quello che non si cerca) mi imbatto in una frase che mi piace, in un sito gradevole. La frase è questa:
Come si può essere consapevoli della sofferenza, dell’imparare a imparare, dell’inautenticità e autenticità della nostra esistenza, se non sappiamo le parole non solo per dire, per nominare ciò che sentiamo e viviamo, ma neppure per ascoltare; se nessuno ci ha insegnato come trovarle, se anzi abbiamo perso l’idea dell’importanza delle parole; se nessuno più ci ricorda che articolare le parole in frasi ci permette appunto di essere maestri di una situazione – di una situazione di sofferenza, ad esempio. Bisognerebbe ricordarsi più spesso che leggere e scrivere sono una fatica del corpo. “Leggere” (così come “religione”) viene dalla stessa parola che designa un’attività fisica legata all’agricoltura, al lavoro della terra:”legare”, fasciare insieme. La penuria di parole e frasi traduce l’impoverimento della vita. Così, la distanza dalle cose e dalle esperienze reali, concrete; la triste insensatezza di certe costruzioni abitative, come le villette con le statuine dei sette nani; l’incapacità di descrivere un’esperienza vissuta, per esempio un viaggio, ma solo di commentarla: sono alcuni esempi di come, metaforizzazione su metaforizzazione, si finisca per “vivere per trasposta persona”.
La frase mi piace, l'ho sentita vicina. Salvo leggere, nelle righe suggessiva, che "Così scriveva Beppe Sebaste in Porte senza porta. Incontri con maestri contemporanei (Feltrinelli 1997)" (un libro oggi introvabile). Era il capitolo sullo scrivere, con Elizabeth Bing. Domanda: ci si può distanziare così da se stessi, dalle proprie parole? guardarsi dall'esterno? Evidentemente sì, e non mi sembra una cosa brutta. E poi, come ho scritto una volta sulla copertina di un altro libro, "Niente di tutto questo mi appartiene", soprattuto le parole (che come le idee, chissà da dove vengono) Ma la chiusa del post, in quel sito che vi dicevo sopra, aggiungeva, per associazione di idee, questa frase bellissima di Ezra Pound:

Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura.

P.S. "Mantenere la parola", di eco blanchotiana, era il titolo che avevo dato a un corso di scrittura creativa che feci pionieristicamente a Bologna, giovanissimo, tanti anni fa. Parlavo di tutto - del volto, dei luoghi... - meno che di scrittura. Non ho mai creduto in effetti che la si possa insegnare. La cura però sì. La manutenzione. Il rigore. E se continuo finisce che mi metto a parlare di etica e di politica...