Beppe Sebaste, Bianco su bianco
Da tempo, da quando me li aveva indicati mia moglie, pensavo che i gabbiani che svolazzano sull’Altare della Patria, soprattutto al crepuscolo nei mesi di primavera e d’estate, fossero fantasmi in una delle loro trasformazioni. Quel bianco su bianco, sui tetti dell’immensa macchina da scrivere di marmo, sullo sfondo di un cielo blu elettrico, non aveva più cessato di farmi sentire una strana premonizione, e insieme un’idea di comunanza. Se attraversando Piazza Venezia la sera vedevo i gabbiani svolazzare nell’ultima luce io ero allegro, ma di un’allegria irrequieta, un po’ nervosa, come l’energia di quegli uccelli che non stanno mai fermi, o che si posano a volte sulle statue del ponte di Castel Sant’Angelo, o dovunque ci sia dell’arte umana da prendere un po’ in giro, magari lasciar cadere dall’alto qualche cacca, tanto per giocare. I gabbiani e le statue, i gabbiani e l’arte: mi sembrava un bel tema. Come le panchine e i fantasmi. In realtà, ora lo so, è tutto collegato. Era un presentimento? Mi spiego.
All’inizio e alla fine di ogni colore, c’è sempre il bianco. Anche le statue sono bianche, le tele e i fogli dove si scrive sono bianchi. Ho sempre voluto fare lo scrittore, e l’ultima cosa che avrei voluto scrivere era sulle panchine, solo che… non ho fatto in tempo. Mi spiego meglio: il fatto è che nel frattempo sono diventato anch’io un fantasma. Me ne sono accorto per la prima volta una sera d’inizio primavera, e lì per lì non ci ho fatto molto caso.
Ero al Circolo degli Artisti sulla Casilina Vecchia, era sabato, l’aria era tiepida e c’era una luce molto tenera – la luce migliore di Roma. Non so come ero capitato lì, si inaugurava una mostra dal titolo “svuotamenti” - pezzi di mondo che vengono svuotati del visibile e, in cambio, riempiti di quello che non si vede mai, lo spazio tra le cose e tra la gente, lo spazio tra le forme (lo spazio dei fantasmi?). Avevo già guardato la mostra due volte, stranamente non mi aveva salutato nessuno, e mi sono seduto fuori in disparte, su una panchina col prato alle spalle. Sorseggiavo del vino e guardavo le ragazze che entravano e uscivano dal bar. Mi sentivo così in pace che mi misi a scrivere degli sms dolci: a mio figlio, a mia moglie, agli amici, alle amanti perdute, a quelle non ancora trovate. A tutti dicevo che stavo davvero bene, descrissi il rosso e l’arancio del tramonto, la luce romana di fine marzo. Intanto contemplavo la luce declinante e le ragazze e i ragazzi che sciamavano coi bicchieri in mano, parlottando come api in un giardino. Buffo che solo poco ore prima mi ero alzato dal letto in quello stato che una frase romantica dice così: “mentre contemplavo l’aurora, è calata la sera”. Ero passato da un crepuscolo all’altro, dopo una notte di… che cosa, in effetti?
Finché mi accorsi, mentre tenevo ancora in mano il telefonino, che l’orologio segnava sempre la stessa ora, le 20,00. Le otto di sera. Mi sentivo bene, mi sentivo in pace e contemplativo.
Mi sentivo invisibile.
Mi sentivo fuori dal tempo.
Allora sorrisi, perché capii. Ero diventato fantasma. Era stato questo a darmi voglia di scrivere? Scrivere, si sa, è una cosa che fanno i fantasmi.
Qualche segno c’era stato: quell’idea di scrivere sulle panchine, il tempo senza tempo di chi ci sta tutto il giorno sopra e intorno. Stare in panchina non è già una cosa da fantasmi?
Alcune, soprattutto, erano diventate le mie predilette, come quelle della piazzetta con la fontana intitolata a Cairoli, vicino al Ministero della Giustizia. Io lavoravo lì vicino (sono direttore dell’ufficio postale di via Arenula), e ci andavo a fare le pause. Sempre più spesso, devo dire. La chiamavo la “piazzetta dell’accasciato” perché c’è una statua di uno, credo Cairoli stesso, che siede con le gambe incrociate su una poltrona, completamente accasciato e tristissimo, con la mano sinistra a reggersi la testa, il braccio destro riverso di fianco alla poltrona, e un libro in mano che sta per cadergli per terra. Forse si è addormentato, o forse è così assorto da preoccupazioni e pensieri che non si rende conto. La cosa buffa è che, sulle panchine che costeggiano il giardinetto, le persone che si siedono (persone?) hanno assunto tutte quella stessa aria accasciata, forse perché sono disoccupati, e sembrano presi da una stanchezza o da un tedio tali, da lasciarsi tutti scivolare sulle panchine come se fossero schiacciati da preoccupazioni e pensieri sovrumani, come Cairoli – anche se quasi nessuno a dire il vero ha un libro in mano, e pur essendo facile provvedere a questo: a pochi metri c’è una bancarella che vende libri usati, e io stesso ci ho trovato più di una volta per pochi euro un libro che faceva al caso, poter accasciarmi su una panchina e leggere, oppure chiudere il libro nella mano e lasciarla cadere giù, alla mia destra, preso dai miei pensieri o dalla mia stanchezza di direttore dell’ufficio postale. Lì ci sono sempre degli uccelli, però svolazzano poco, si limitano a camminare saltellando, hanno l’aria anche loro un po’ stanca, e a volte si accasciano sull’erba rada e ingiallita – perché anche l’erba è stanca e accasciata per terra. Ecco, a pensarci, il fatto che passassi la maggior parte del tempo sulla piazzetta dell’accasciato, non avrebbe dovuto insospettirmi? Stavo diventando un fantasma, e anche quelli che si sedevano con me, e anche gli uccelli (per lo più piccioni). Ma questo lo capii solo dopo.
E’ su una di quelle panchine che conobbi il sig. Guzman. Guzman aveva i capelli rossi, era ebreo ma sembrava un irlandese, e tutti i giorni entrava e usciva dall’Istituto Italo Latino Americano. Cercava documenti, diceva, e non riusciva a farsi dare nessun riconoscimento di identità, e a sentir lui non aveva niente, solo il nome, Guzman, e che era ebreo, credo russo, ma parlava spagnolo e aveva i capelli rossi da irlandese, voleva andare in Argentina ed era il mio compagno di panchina. Aveva la faccia più anonima del mondo, mi faceva pensare a un racconto di Pirandello, però più rassegnato e moderno, finché una volta lo vidi diventare bianco, ma così bianco che sembrava una statua. Poi sparì. Non lo vidi più sulla panchina, finché una sera una cacca di piccione sulla spalla, poi altre a raffica sulla statua dell’accasciato mi fecero alzare la testa e vidi un uccello alto con un ciuffo rosso, e pensai a Guzman. Ora lo so, era lui. Adesso so un sacco di cose. Sono un fantasma anch’io.
Quella notte tornai dalla Casilina Vecchia, salii a casa e, mentre cercavo di aprire la porta con la chiave, vidi che la mia mano ci passava attraverso (la chiave però no, la lasciai sulla toppa), e andai da mia moglie tutto eccitato per dirglielo. Lei però era al telefono e non mi sentiva, nemmeno se parlavo forte. Uscii sul terrazzo attraversando i vetri, e guardai il cielo e la città gialla per via delle luci elettriche, e mi sembrò bellissima, anche se mi sembrava di guardarla attraverso un vetro sottile, o un plexiglas. E’ così che guardano i fantasmi, come dietro un vetro. L’aria frizzante mi dava piccoli brividi attraversandomi, e mi sentivo davvero in forma. Mia moglie era sempre al telefono (ma con chi parlava?) e non c’era davvero nulla che potessi fare per richiamare la sua attenzione. Passai le ore in terrazza a guardare e pensare, ogni tanto rientravo – stare dentro era come stare fuori - e intanto diventavo sempre più bianco, “bianco come un fantasma” esclamai, e scoppiai a ridere da solo, una risata stridula da fantasma timido. Mia moglie era sempre al telefono, agitata. Poco prima dell’alba rimasi seduto sul cornicione a guardare giù, indeciso se avere paura del vuoto. Macché. E pensare che una volta soffrivo di vertigini. E se magari volo?, mi sono detto. No, i fantasmi non sono angeli, al massimo fluttuo, però non mi sfracellerò al suolo, tutt’al più divento terra, divento suolo, potrei perfino farmi calpestare dagli altri. E intanto dondolavo i miei arti di fantasma sulla balaustra arrugginita. Guardavo i tetti, le cupole in lontananza, la città invisibile dietro la città visibile, mentre io stesso facevo parte dell’invisibile, ero - risi tra me e me - l’uomo invisibile. Quello che, ha scritto un poeta, non si vede mai, neanche nei film dell’Uomo invisibile, neanche fuori dal cinema, dopo il film. Fu in quel momento che mi lasciai andare, oltre la terrazza e la balaustra, oltre tutte quelle forme e quei vuoti tra le forme, oltre le correnti d’aria. Ciao, dissi alla finestra, ai quadri e ai mobili (mia moglie era sempre al telefono e non mi vide: le sorrisi), leviamo le ancore, cessiamo ogni attaccamento e lasciamo ogni presa, è bello il vento che mi passa attraverso, sono davvero felice. Fu dopo pochissimo tempo (quanto, non saprei calcolarlo) che mi ritrovai a svolazzare sul Castel Sant’Angelo, sopra le statue bianche, sopra le chiese bianche, e da lì mi diressi verso i miei simili, erano tanti, e volteggiai insieme a loro allegramente, ridevamo danzando, scrivevamo frasi sul cielo nella nostra allegra scrittura di fantasmi, sul foglio bianco della Macchina da Scrivere, sul cielo grande e scuro che cominciava a diventare colorato, sopra quel piccolo altare bianco.