(Il corpo di Robert Walser morto nella neve, durante una passeggiata, il giorno di Natale del 1956) |
Si riparla di Robert Walser, grazie agli artisti. Domani 26 settembre alle ore 18 si inaugura infatti a Venezia una mostra in omaggio al grande scrittore svizzero, preceduta alle ore 15 da una breve chiacchierata o tavola rotonda su Walser col sottoscritto e altre persone (leggere qui). Vorrei in particolare richiamare l'attenzione che su Walser ha portato in questi ultimi anni l'artista Antonio Rovaldi, che ha ripercorso l'ultima passeggiata di Walser in compagnia di colui che, bambino, fu il primo a trovarne il corpo e a segnalarlo. La sua esperienza costituisce il lavoro e la rigorosa installazione (visibile qui).
Resta che, nelle foto originali, la morte di Walser, l'ostensione del suo corpo nella neve (nei pressi della clinica-manicomio in cui ventisette anni prima avevo scelto di abitare), così simile a una scrittura sul foglio bianco (e si ricordino i suoi "illeggibili" microgrammi, ovvero la sua normale calligrafia, la scrittura della sua prosa), resta una specie di incantato, miracoloso, inesauribile capolavoro visivo.
Su Walser ho parlato e scritto in diverse occasioni, ogni volta dimenticandomene. Ma grazie a un sito altrui ritrovo un mio articolo che non avevo mai pubblicato nel blog, scritto per il cinquantesimo anniversario della morte di Robert Walser (uscì su Venerdì di Repubblica del 22 dicembre 2006). Eccolo. Non credo che riuscirei a parlarne meglio, domani a Venezia.
Per il cinquantenario di Robert Walser (2006)
Se Don Chisciotte fosse svizzero e si trovasse in una
città del primo Novecento, guarito dalla follia ma pur sempre sognatore e
vagabondo, con un’inalterata smania di mettersi al servizio del prossimo, forse
ragionerebbe fra sé come lo scrivano Simon Tanner: “L’edificio di una banca è
proprio una cosa stupida, in primavera. Che effetto farebbe un istituto
bancario in mezzo a un rigoglioso prato verde? Forse la mia penna mi
sembrerebbe un piccolo fiore appena spuntato dalla terra [...] Le nuvole
bianche passano nel cielo, e io devo stare qui a scrivere. Perché guardo le
nuvole? Se fossi un calzolaio, almeno farei le scarpe per bambini e uomini e
donne, e loro in una giornata di primavera andrebbero a passeggio per la strada
con le mie scarpe. Io sentirei la primavera se vedessi la scarpa fatta da me
sul piede di un altro. Qui non posso sentirla, mi disturba”. In questo
periodare giovanile tratto da I fratelli Tanner (1907) c’è tutto l’incanto
della prosa tenera e lieve di Robert Walser, lo straordinario scrittore nato
nel 1878 nella cittadina bilingue di Biel/Bienne, nel cantone di Berna, vissuto
a Zurigo e Berlino, dove frequentò una scuola per domestici che gli ispirò
l’arte cerimoniosa del servire che traspare nelle sue storie.
In tutta Europa si preparano omaggi per il cinquantesimo
anniversario della sua morte, e per il centenario de I fratelli Tanner, suo
primo vero romanzo. Il lettore interessato troverà ogni informazione sul sito
dell’Archivio Walser a Zurigo (www.walser-archiv.ch), mentre a Roma la libreria
Simon Tanner (www.simontanner.it) promette il 7 gennaio un appropriato omaggio:
una passeggiata walseriana alla Caffarella. Il fatto è che Walser, il più
disadattato degli scrittori contemporanei, è ormai riconosciuto come l’alfiere
della libertà narrativa, che ha insegnato che tutto è esperienza e degno di
essere raccontato, proprio come nell’arte della passeggiata, e che “discorso” e
“percorso” appartengono a un comune, anarchico divagare (si pensi a La
passeggiata o a I temi di Fritz Kocher). Si sa che per Robert Musil “Kafka fa
l’effetto di un caso particolare del tipo Walser”, e che lo stesso Kafka guardò
a Walser come un maestro. Elias Canetti lo leggeva così assiduamente da
considerarlo “una sorta di droga”, e Walter Benjamin gli dedicò un saggio
folgorante: i personaggi dei racconti di Walser, scrisse, sono dei “folli guariti”
dalla cui bocca esce pura prosa, “pura e forte come l’aria della vita che
guarisce”. Più recentemente, lo scrittore tedesco W. G. Sebald ha dedicato a
Walser un riverente e commosso scritto intitolato Il passeggiatore solitario
(Adelphi 2006), e anche in Italia non mancano gli appassionati, dall’editore
Roberto Calasso (la sua Adelphi ha pubblicato quasi tutti i titoli disponibili)
al filosofo Giorgio Agamben, al compianto scrittore Giorgio Messori, il più
walseriano di tutti. Ma è di Gianni Celati il commento più lungimirante alla
sua “passeggiata senza meta”. Lo “scandalo” di Walser”, ha scritto anni fa, è
lo scandalo di “una scrittura che dichiaratamente non cattura nulla”, anzi
“celebra affettuosamente tutto ciò che ci sfugge”, e proprio per questo
“acquisterà un’importanza sempre maggiore quando tutto il campo della
letteratura ufficiale sarà composta solo da prodotti fabbricati per il
successo”. Cioè oggi.
Come gli scrittori da lui più amati, sui quali
ripetutamente scrisse – Kleist, Lenz, Buchner – Walser fu un “anti-Goethe”,
anomalo e ai margini. La sua scrittura, come la sua vita, fu precaria e priva
di appartenenza, fino alla decisione del silenzio, e quella di abitare,
cinquantenne, in un asilo psichiatrico a Herisau, da cui usciva la domenica per
fare lunghe passeggiate, a volte in compagnia del devoto editore Carl Seelig.
Se lo Zen fosse nato in Svizzera, o se nel cantone di Berna vi fossero stati
dei monasteri buddhisti, forse Robert Walser ne sarebbe stato monaco, “in umore
di santità”. Fu lì, durante una passeggiata, che il 25 dicembre 1956 Walser
morì accasciandosi sulla neve. Una foto lo ritrae, il suo corpo sembra un segno
di matita tracciato sulla neve.
Carl Seelig scoprì una quantità di fogli fittamente
scritti a matita a caratteri microscopici. Pensando si trattasse di una
scrittura folle e segreta, li nascose. Decifrarli fu il ventennale lavoro dei
germanisti Bernhard Echte e Walter Morlang, che li hanno da poco stampati in 4
tomi di 4000 pagine. Questi mitici “microgrammi” furono redatti da Walser tra
il 1924 e il 1933 dopo una crisi e una fortissima “avversione per la penna”:
solo la matita gli restituì il gusto di scrivere, “in modo più sognante, più
calmo, più lento, più contemplativo”. E fino alla fine attinse a quei “microgrammi”,
ricopiandoli in modo leggibile, per i libri e gli articoli sui giornali. Una
mostra debuttata in autunno a Ginevra presso la Fondazione Bodmer ha mostrato
per la prima volta al pubblico, col titolo «Territorio della matita», molti di
quei manoscritti. E se spesso Walser ha paragonato “i fogli bianchi delle
pagine” a “fiocchi di neve”, la scenografia della mostra, a cura
dell’architetto Mario Botta, gli dà ragione, facendoli galleggiare lievi come
neve nella penombra, macchie bianche coperte da una grafia di illeggibile
bellezza, un fascinoso coincidere di materialità e spiritualità.
Su uno di questi fogli, il «microgramma» n. 134, c’è una
traccia di rossetto, ricoperto dalla poesia intitolata L’incompreso. Anche
questa disperata gaiezza, o galanteria, è qualcosa di molto, molto walseriano.
(Venerdì
di Repubblica, 22-12-2006)