9/04/2014

"Scrivo, dunque sono libera". Amare la letteratura con Jacqueline Risset



E' morta Jacqueline Risset, grande poetessa, saggista, studiosa di letteratura, redattrice storica della rivista Tel Quel, traduttrice insigne di Dante, da anni residente e docente all'università di Roma
L'11 dicembre 2006, mentre a Villa Medici riprendevano le letture del ciclo di incontri con scrittori francesi curato dall'amico Olivier Rolin, "Amare la letteratura", pubblicavo sulle pagine della cultura de l'Unità questa conversazione con Jacqueline Risset. A ripensarci, fu un periodo letterariamente intenso di nutrimento e resistenza. Vorrei ricordare Jacqueline con queste sue parole di un'attualità bruciante e viva. Si possono leggere anche qui nella pagina originale, in pdf, oppure col titolo “Risset: Scrivo dunque sono libera” sul sito de l'Unità che ancora vive. Comunque eccolo, il nostro colloquio. Con immenso affetto e stima.


   Il silenzio delle sirene Percorsi di scrittura nel Novecento francese (Donzelli, p. 242, euro 28), deve il suo titolo a un enigmatico frammento postumo di Kafka: Ulisse sapeva  non sapeva che le sirene avevano già smesso di cantare, e che il loro silenzio è forse più insidioso del loro canto? E’ l’ultimo libro di Jacqueline Risset - poeta e saggista, docente di letteratura francese all’università di Roma, insigne traduttrice della Commedia di Dante, cui ha dedicato numerosi saggi - e lo si legge come un manuale essenziale dell’esperienza letteraria più significativa del Novecento, non solo francese: letteratura come “forma autonoma di conoscenza”, “esperienza del limite”, indistinguibile forse dalla filosofia. Ma è anche una summa autobiografica della sua teoria e pratica di questa esperienza: da Mallarmé a Joyce, da Proust a Deleuze, da Ponge a Beckett.

   “E’ una rassegna delle mie passioni – mi dice Jacqueline Risset - delle attenzioni che non ho potuto fare a meno di avere per alcuni scrittori del XX secolo che ogni volta mi hanno colpito come dei punti irradianti, delle costellazioni che si facevano segno l’una all’altra, che passavano l’una nell’altra. Ho posto Mallarmé all’inizio, il che può stupire perché appartiene all’Ottocento, e però ha inseminato, anche di dubbi, il XX secolo. In Valery, in Proust, in tutti gli autori del Novecento di cui tratto, si ritrovano le interrogazioni che ha posto Mallarmé. Perfino nei linguisti, come il grande Roman Jakobson, che raccontava di avere cominciato al liceo col leggere Mallarmé, e questi lo aveva portato a suoi famosi studi sulla linguistica. E’ stato uno shock e un grande piacere veder riconosciuto, come fanno oggi gli scienziati, che la poesia, il punto più ardito della letteratura, possa anticipare le scoperte della scienza. Freud ha riconosciuto che la poesia, la letteratura, aveva scoperto prima di lui il continente inconscio, e alcuni scienziati hanno visto che la letteratura aveva già percepito, e addirittura teorizzato, quella che oggi si dice “teoria della complessità”. Soprattutto la letteratura che si fa “teoria della letteratura”. Proust più di chiunque altro, ma anche i grandi dell’inizio del secolo, Musil, Kafka, ecc.. Letteratura come pensiero della e sulla letteratura, che è la cosa più affascinante delle opere del XX secolo: la capacità di pensare se stesse, senza delegare ai critici. La stessa cosa mi affascinò nel gruppo della rivista Tel Quel, cui partecipai prima che si identificasse, con Philippe Sollers, con un pensiero politico (cinese o maoista). Era l’idea di riprendere il pensiero della letteratura, di ripensare la “scrittura” – parola che diventò il centro della riflessione – come un luogo che ognuno interrogava da sé, e che andava oltre i confini tradizionali della letteratura”.

   Da Mallarmé si irradia tutto il percorso del tuo libro, e ne fornisci vari esempi: le sue frasi contro il senso tradizionale, positivistico del “capire” (che ricordano Lacan, le cui affermazioni che citi gli sono straordinariamente vicine); oppure quello che colpisce e ispira Jakobson, l'idea che il linguaggio poetico non sia uno scarto rispetto alla lingua, ma una macro-lingua…
   “Sì, perché c’era quell’idea della poesia come un linguaggio decorativo, più alto rispetto al linguaggio comune, mentre è forse il contrario, la poesia che ingloba il linguaggio comune, più vasta.”

Infine l’idea della poesia come “pensiero nascente”, che ricorda intimamente l’opera di Beckett, ma anche i gesti filosofici più importanti ed estremi della storia del pensiero… 
   E’ vero. C’è chi vede la letteratura e la filosofia totalmente separate, ma a me pare ci sia un’erosione reciproca dell’una nell’altra nel XX secolo, ed è questa erosione che segna gli avvenimenti più interessanti. Per esempio Blanchot, che per me è molto importante. Nel XX secolo egli ha reso conto dell’esperienza – ogni volta unica, con proprie caratteristiche – di questa interrogazione della letteratura come esperienza. In Italia si parlava molto negli stessi anni di sperimentazione, una nozione importante ma riduttiva, che perde quella dimensione più vasta e non definibile della letteratura, un’esperienza della scrittura non prevedibile. Ma è anche vero che in Italia non c’è stata quella grandissima rivoluzione poetica che ci fu in Francia alla fine dell’Ottocento. In Italia c’è solo Leopardi”. 

   Rispetto alla Francia, credi che in Italia la letteratura sia un’esperienza meno comune e condivisa?
 In Italia mi sembra che negli ultimi anni ci sia stata una politicizzazione estrema, che ha fatto della letteratura un’ancella della filosofia, ma anche della politica. Ora noto finalmente nei giovani un desiderio della letteratura come di qualcosa senza confini, come ciò che può insegnarti qualcosa proprio perché non è irretito in una serie di legami ideologici o pratici  scientifici e quindi la letteratura, credo,  sia un po’ come per Georges Bataille quando parlò contro l’impegno di Sartre, e che il motto della letteratura sia quello del diavolo, “Non serviam!”, cioè “non servirò”, e solo questa sarebbe la libertà. Per Bataille l’impegno e la letteratura erano agli antipodi, e dice chiaramente: se uno sente la necessità profonda di impegnarsi, a un dato momento, lo deve fare, ma ciò che è profondamente estraneo alla letteratura è svolgere programmi già prestabiliti. La letteratura o è esperienza o non è nulla. L’autonomia della letteratura in questo senso forse oggi è sentita, ma non è stato così per molto tempo. Quando parlavo di Tel Quel sentivo molta ostilità, perfino da parte dei giovani del Gruppo 63, per i quali quella libertà era una cosa quasi pericolosa”.

 Dove vedi l’ampliarsi oggi della letteratura come esperienza, forse nel successo delle letture pubbliche, dei festival? Penso alla frase di Barthes che dà il titolo alle attuali letture a Villa Medici organizzate da Olivier Rolin, “Amare la letteratura”. Ovvero “dissipare, nel momento della lettura, ogni dubbio sul suo presente, la sua attuazione (…) come se il suo corpo fosse realmente qui accanto a me”.
   “Questa frase di Barthes dice che la letteratura può dare anche felicità. E questo paradossalmente, perché la letteratura è quasi come Sheerazade, chi scrive vuole differire la morte, e quindi nella letteratura c’è un corpo-a-corpo con la morte. Ma nella letteratura c’è una  risorsa di felicità, e anche Proust parla di “enigma della felicità”. Proust, che secondo me è il più grande scrittore francese, che equivale in Italia a un Dante, o ad un Shakespeare, un Cervantes. Come Dante ha la stessa volontà di totalità, di creare un universo”.

   E’ questa la politicità della poesia? Voglio dire: dopo un periodo di comuni testimonianze politiche, che approdarono nel 2002 al pamphlet collettivo Non siamo in vendita. Voci contro il regime, Roberto Benigni andò in tv, e nonostante le attese della destra, che invocava una censura preventiva, non parlò direttamente di politica, ma recitò l’ultimo canto del Paradiso di Dante. La poetessa Patrizia Cavalli mi ha detto: “Siamo nati per giocare”, e sull’Unità è rimbalzato un dibattito a partire da un mio breve intervento sulla poesia, “così inutile, così sovversiva”... 
 “Sì, ci sentivamo costretti a intervenire politicamente, tutti i giorni ci indignavamo per qualcosa, siamo stati governati cinque anni da una terribile “banda” che mi auguro non torni più. Sono assolutamente d’accordo con le tue parole, “inutile e sovversiva”. Quanto a Dante, penso che sia di una ricchezza e di una libertà che sorprende ancora oggi per la sua attualità. Uno completamente ateo del XX secolo può dialogare con Dante. Oltretutto Dante aveva politicamente idee chiarissime e in anticipo sulla separazione dei poteri, mentre in Italia non si capisce ancora oggi l’idea di laicità come spazio neutro di libertà, necessario per acquisire una capacità critica. Nel De Monarchia Dante parla di un Papa e di un Imperatore, senza nessuna gerarchia tra i due poteri, ciascuno assolutamente libero nella propria sfera: il Papa doveva pensare alla felicità celeste, l’Imperatore a quella terrestre. La sua Monarchia fu condannata e bruciata nel Medioevo, ma mi fa rabbia che l’Italia sia ancora in ritardo su questo, che non abbia ancora assimilato questa separazione e dia ancora tanto potere alla religione, alle religioni. Forse ci vorrebbe un Voltaire... Comunque sia, ho sempre pensato che la forma della letteratura sia la libertà, e la sua esperienza sia feconda perché libera. Quando si scrive non si sa quello che si sta per scrivere, e anche se si ha l’esperienza dello scrivere si può essere sorpresi da ciò che si è scritto. Questo, nella nostra epoca di programmazioni obbligatorie in ogni campo, è qualcosa di più utile e prezioso che mai. Ovviamente la letteratura è odiosa alle tirannie, e gli scrittori ne sono sempre stati oppressi. Lo scrittore gioca, è vero, e questo gioco deve farlo in libertà, se no non è gioco, e quindi è naturalmente contro la tirannide, non perché sia “impegnato”, ma perché scrive. Forse oggi questo bisogno di letteratura esiste di più, perché è legato al sentimento di un mondo più chiuso. Foucault ha scritto Sorvegliare e punire, e oggi siamo in un mondo in cui la sorveglianza ha raggiunto livelli pazzeschi, e il fatto di trovarsi soli in una stanza, con un foglio bianco, è una condizione privilegiata e meravigliosa di libertà”.

  Pensi ci sia un futuro, che l’esperienza del Novecento di cui parli nel tuo libro non si chiuda?
   “Se non stiamo assistendo all’Apocalisse finale, se il pianeta Terra non si dissolve o i fondamentalisti non ci riducono in schiavitù totale, credo che sì, c’è un futuro, si sentono i segni di un gusto, un desiderio di ribellione che sta rinascendo, e se rinasce allora la letteratura e la poesia si salvano, come è successo in ogni civiltà, che si misura del resto da cose come l’arte e la letteratura. Il libro si chiude con l’elogio di una parola che in italiano non esiste: insoumission, che è più del contrario di sottomissione. Insubordinazione, forse. Letteratura come campo di realizzazione dell’inesauribile, capace di svelare l’enigma delle sirene, il loro presunto silenzio”.

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