5/24/2013

I live my broken dreams - La musica (e la poesia) nuda di Daniel Johnston


 (mio articolo uscito su Venerdì di Repubblica in edicola oggi)

   Avete presente quel conflitto, non di interessi ma di emozioni, di quando vorreste dire a tutti qualcosa che vi piace ma nello stesso tempo non vorreste condividerlo quasi con nessuno? E’ ciò che mi accade nel dare notizia del concerto di Daniel Johnston all’Angelo Mai Occupato, a Roma, il 29 maggio, unica data italiana.
   Chi è? Nei commenti ai suoi video su youtube, l’aggettivo più ricorrente è “cool”, seguito da “geniale” (o “mostruosamente geniale”). C’è chi resta sorpreso dal suo aspetto attuale, dalla naturalezza delle sue canzoni, e lo definisce creepy (pauroso, raccapricciante), ma la maggior parte esprime meraviglia e amore per la purezza e nudità della sua musica.
   Canta quasi le stesse canzoni che registrava in garage i primi anni ‘80 con voce da ragazzino, accompagnandosi con una pianola elettrica e una chitarra suonata come una grattugia. Salvo scoprire che anche senza orchestrazione né arrangiamenti le sue soluzioni musicali, come i suoi testi, erano incredibilmente belle e innovative, e miscelavano tutti i generi. Faceva tutto da solo e si divertiva come un matto.
   Poi “matto” lo divenne davvero, o meglio maniaco-depressivo, a partire da quando si innamorò di una ragazza, Laurie, che preferì fidanzarsi con un giovane becchino. Daniel ebbe un crollo nervoso, ma poi le dedicò, tra le altre, una canzone satirica, Funeral Home. O quando fu la sua stessa famiglia a mandarlo in manicomio dopo che da ragazzo, accompagnando il padre su un piccolo aereo, prese i comandi dirigendolo in picchiata: si salvarono per miracolo nonostante lo schianto. Adesso non ha più quella faccetta timida e curiosa di ventenne, è grasso, sformato dai farmaci dopo anni di cure psichiatriche, stringe il microfono con entrambe le mani che gli tremano, ma la voce è ancora fanciulla ed è questo salto a spiazzarci, il brusco passaggio dalla fanciullezza alla vecchiaia, anche se Daniel Johnston di anni ne ha 52: la nostra civiltà ha abolito la vita adulta, si è giovani oppure anziani, e il suo essere ibrido ci appare strano, “mostruoso”. Ma le sue canzoni restano di una bellezza straziante, vestite solo di ciò che le denuda, pura bellezza.
   La vita di Daniel Johnston, nato a Sacramento (California) nel 1961, sembra un romanzo di Philip K. Dick, ma anche uno di quei racconti di Richard Brautigan pieni di cose buffe e tragiche. Da ragazzo sognava di diventare i Beatles, tutti e quattro. Sembra la promessa di una personalità multipla, anche se il suo vero problema è stata la cosiddetta sindrome bipolare. Disegnava e aveva la passione  di registrare tutto. Il bel film documentario sulla sua vita, The Devil and Daniel Johnston, girato nel 2005 da Jeff Feuerzeig e premiato anche al Sundance Festival fa uso di filmini e disegni animati di Daniel, e inizia con la sua voce che dice: “sono il fantasma di Daniel Johnston, lavoravo al McDonald, il diavolo conosce il mio nome…”
   Scorrono filmati di famiglia e fotografie: lui bebè sul seggiolone, la madre Mabel e il padre Bill, lui bambino al pianoforte, scolaro in divisa, nella sua camera di adolescente col poster di Fonzie di Happy days e la copertina di New Morning di Bob Dylan. Il documentario descrive un’epoca, ma anche la casa attuale di Daniel Johnston riproduce la cantina della sua adolescenza. Le sue canzoni hanno titoli come True Love will Find You in the End, Tears, Some Things Last a Long Time e sono esattamente quello che promettono, testi di una purezza essenziale. I Live My Broken Dreams fa pensare all’interrogazione del poeta Allen Ginsberg (anch’egli ricoverato da giovane in un manicomio) sul “senso della realtà” e della vita.
   E in effetti, da quanto tempo abbiamo cessato di porre queste domande? Nelle sue canzoni si sente l’esperienza del dolore e dell’oppressione, ma l’onda calda che arriva è di liberazione e gioia. E’ alla poesia che bisogna paragonare la musica di Daniel Johnston, mai ingenua, ma così priva di malizia nel packaging. Come nei suoi disegni e fumetti, nelle canzoni modella come plastilina i sentimenti di rabbia, disperazione e resa, e impasta abbandonandosi alla sua anima folk e blues, litanie e rap, rock e jazz. O come Rock’n’roll/Ega, del più tardivo disco Fun (1994), canzone definita “perfetta sintesi di tutte le bipolarità umorali”, che alterna la dolcezza di una ballata all’urto del rock.
   Nel 1983, anno a cui risale il disco fatto in casa Yip/Jump Music (che Kurt Cobain mise tra i suoi dischi preferiti), Daniel scappò al seguito di un luna park in cui vendeva pop-corn. Assaporò la liberta per la prima volta e tutto, disse, gli sembrava un film. Visse a Austin lavorando al McDonald, dove regalava ai clienti le sue musicassette registrate in garage e illustrate coi suoi disegni, e iniziò a essere conosciuto dalla gente. Un critico musicale paragonò le sue canzoni al primo disco dei Beatles, e nell’85 suonò in apertura al concerto del gruppo di cui faceva parte un’amica. La gente che ascoltava si chiese: “Che cos’è, uno scherzo?” Finché una trasmissione itinerante di Mtv che fece tappa a Austin quello stesso anno lo chiamò a esibirsi, e di colpo diventò un artista riconosciuto e apprezzato. Il pubblico di giovani applaudì quelle canzoni e quella voce coraggiose e nude, semplici e perfette, che mescolavano ironia, tristezza, tragedia e farsa.
   Mentre Lou Reed, uno dei suoi fan più prestigiosi insieme a Tom Waits, i Sonic Youth, i Rem, Beck, David Bowie, Steven Spielberg, Matt Groening e molti altri, lo aspettava invano in un teatro a New York per suonare insieme, Daniel Jonhston veniva arrestato perché scriveva graffiti contro Satana dentro la Statua della Libertà. Risale a quando il cantante dei Butthole Surfers gli diede un acido a un concerto la fissazione di Daniel contro il diavolo. Ma questa è un’altra storia e lui la racconta molto bene nella sua ormai mitica canzoncina Devil Town: “ho vissuto in una città di dèmoni / io non sapevo che fosse una città di dèmoni...” 

5/09/2013

I miracoli della lista: una mostra di Patrizia Cavalli descritta da Stefania Scateni


Su l'Unità di ieri 8 marzo c'era questo pezzo di Stefania Scateni sulla mostra della poetessa Patrizia Cavalli che si è inaugurata ieri a Roma, ed è una bella fortuna perché amo molto entrambe e quindi ve le offro qui (io sono in vacanza (si fa per dire) tra la Puglia e la Basilicata, e parlerò di panchine tra i sassi di Matera, o di sassi tra le panchine di Matera, vedremo lo all'ultimo momento)

La vertigine della lista (per rubare il titolo a Umberto Eco) affonda le sue infinite spire nello scorrere del tempo e nella cieca fede per le parole. La lista come necessità per vivere e per sognare, come ansiolitico senza controindicazioni ed effetti collaterali.
Può essere sola la lista? No di certo. Può essere «finita» la lista? Nemmeno un po’! Anche se finisce. Meraviglia delle meraviglie della vita quotidiana, ma anche della mente dei filosofi e del cuore dei monaci, la lista, che sia la teoria dei santi del rosario o l’elenco degli amici dei quali si vuole ricordare il giorno del compleanno, ha anche una potente valenza estetica: scrittura breve che va sempre a capo. Come la poesia. E siccome una lista tira l’altra, ecco che diventa altro, ovvero struttura grafica, opera visuale, bellezza.
Pensieri che prendono vita immediatamente ammirando I miei splendidi giorni tutti uguali, serica installazione di Patrizia Cavalli inaugurata venerdì sera allo Studio Stefania Miscetti di Roma. Dicevamo la poesia, eccola! Sulle tre pareti bianche della galleria manoscritti (per la prima volta esposti al pubblico) da diverse raccolte poetiche, stagnole e liste. Tre «sezioni» che testimoniano di uno stesso «miracolo», generato dall’incontro dell’intenzione e del caso.
I numerosi manoscritti di poesie, pubblicate ed inedite, messe in mostra nella fisicità della scrittura, degli errori, delle correzioni e degli appunti extraterritoriali appartengono a un sistema di forze dell’intenzione e del caso. Così nasce anche la serie di carte stagnole, dove l’intenzione e il caso della combustione hanno lasciato le loro tracce. Protagoniste assolute della mostra sono le numerose liste quotidiane che da anni la poeta romana ha l’abitudine scrivere e che ha sempre conservato. Gli elenchi della spesa, diventati materia prima, scrivono» sul candido muro di faccia all’ingresso una serie di linee parallele e irregolari. L’uno accanto all’altro, i foglietti segnano un tempo definito, fermano il flusso inarrestabile dello scorrere dei giorni. Un potere immenso - quello di governare il tempo, scorrerci sopra o dentro, prenderne un pezzo, rivoltarne la direzione - nelle «mani» di umili pezzetti di carta e semplici parole: pane, giornale, sigarette... latte, uova, tintoria... Parole ferme e buone che tracciano una mappa, la mappa del mattino.
«Esco con la mia mappa in tasca - scrive Patrizia Cavalli nel testo che accompagna la mostra - e, attrezzata di intenzioni e di mete, attraverso libera e con passi freschi la mutevole larghezza del mattino. A volte intenzioni e mete sono scarse, ho solo due cose da comprare, e a guardare la lista mi deludo, dato che: lista corta, giro breve - giro breve giorno triste... Se invece le liste sono ricche e complesse, ecco i giorni felici. Ma è ciò che la mappa non dice, quella zona di mezzo, il vuoto che c’è tra un nome e l’altro, tra le diverse mete, e che dovrò riempire con i miei passi, ecco il vero fine della lista: far muovere le mie intenzioni nel magnifico territorio del caso, che con le sue deviazioni ed eccessi può produrre miracoli di gioia. In questi foglietti ho riconosciuto sia questi miracoli sia le tante imprevedibili temperature dei miei mattini. Come ci si può disfare di simili testimoni?».
La stessa ammirazione - commozione – si accende nell’anima di chi li guarda appesi al muro e benedice quei foglietti, ai quali quotidianamente ognuno di noi affida la propria memoria, i propri gesti, e poi li butta nel cestino. 

5/07/2013

Camminando nei "Paesaggi in breve" di Tullio Pericoli


Cammino nei “paesaggi in breve” di Tullio Pericoli, da qualche parte tra Twombly, Cézanne e Ambrogio Lorenzetti, vago e divago come in un libro che non finisce, o come in una poesia del grande Wallace Stevens: “Nella mia camera, il mondo è al di là del mio intelletto; / Quando cammino vedo che si compone di tre o quattro / colline e di una nuvola”. Da dove viene tanta bellezza, mi chiedo mentre non cesso di guardarmi intorno, perché tanta felicità estetica?
   Dovrei nominare le delicatezze sublimi dei colori e del tratto, tutto il lessico giocoso e sapiente della pittura (punti, linee, superfici, colpi di pennello e di dita, impronte digitali), ma questi paesaggi mi parlano anche molto di scrittura: lo scrivere con le mani, l’arte di tracciare segni e bassorilievi a volte impercettibili ma non virtuali; e quell’altra scrittura della terra e nella terra, campi coltivati e anch’essi “manoscritti”, patchwork di idiomi e di grafie, come stoffe fatte di scampoli di diverse tessiture; terre, non a caso di rasserenante bellezza, cucite di una babele di scritture, di epiche e di lingue. Per esempio i vigneti e gli oliveti delle Marche e del Chianti, gli stessi che vediamo sullo sfondo della Allegoria del Buon Governo, colline come pagine immense di libri aperti, libri la cui lingua non sempre sappiamo leggere, ma che riconosciamo appunto scritta, punteggiatura compresa - cipressi a fare punti esclamativi, puntini e macchie di sospensione, boschive e d’inchiostro...
   Come un volto è tale proprio perché scritto, così il paesaggio, che ne è forse (e non solo per Pericoli) modello intercambiabile.
  Paesaggi “in breve”: in letteratura la brevitas, o breviloquentia, il “dire molto con poco” (l’opposto della magniloquentia) richiama lo stile semplice e morale, “piano” ma acuminato (gli “acumina” erano figure di ingegno nella retorica stoica e poi barocca). Ma fra le tante associazioni di idee che mi suscita prevale qui la somiglianza con l’haiku, la breve anzi fulminea poesia giapponese che è epifania del “qui e ora”, testimonianza dell’eccezionalità dell’ordinario, forma zen dell’idillio (un idillio in breve). “Idilli” erano i Canti del marchigiano Giacomo Leopardi, letteralmente “quadretti”, paesaggi di un mondo esterno e interno, soglie dell’anima, come è il caso della più celebre (e più bella) poesia italiana sul paesaggio, l’Infinito. Negli idilli del marchigiano Pericoli, come nell’haiku e nell’idillio leopardiano, la valorizzazione dello spazio coincide con una logica che annulla le dualità - la forma è vuoto e il vuoto è forma, il questo è il quello, il qui e ora è il perdersi nell’immenso - ma non la meraviglia di ciò che accade. L’arte dell’haiku (e dell’idillio) è arte dell’apparire, qualcosa di radicalmente diverso dalla rappresentazione. Se rappresentare è un atto luttuoso e funebre che celebra ciò che non c’è più, che è stato, o che ci sarebbe; far apparire celebra al contrario i gioiosi tratti di pennello che rivelano se stessi e il mondo, colori e forme, segni e tracce e impronte di vuoto o di pieno, di nudità, di presenza, linee curve e verticali, oblique, orizzontali; calligrafie; paesaggi e terre. E’ questa la felice magia degli acquerelli (e degli oli) di Tullio Pericoli, dei suoi paesaggi in breve.
(aprile 2013)
La mostra si inaugura giovedì 9 maggio da Tricromia