Ho incontrato Bruno Vespa nei freddi
giorni della “decadenza” di Silvio Berlusconi, attratto dal sottotitolo del suo
ultimo libro, L’Italia che ho vissuto: da nonna Aida alla Terza Repubblica,
un’idea di memoria. Non erano stati poi Berlusconi e Vespa una coppia
mediatica, se non teatrale, a partire
dalla gag del contratto con gli Italiani, il siparietto allestito a “Porta a
porta”? Il giornale che leggevo al bar riportava i lamenti del futuro ex
senatore - una sera ospiti a cena l’uomo più potente del mondo (Putin), quella
dopo servi alla mensa dei poveri. Ma invece di rallegrarsi del miracolo non
dormiva più, quand’ecco dall’altoparlante parte la canzone di Vasco Rossi:
“Voglio una vita spericolata”, “una vita che chi se ne frega, di quelle che non
dormi mai”. Fu un’illuminazione: era perfetta per Berlusconi. Se, grazie al
cielo, lui e io non ci incontreremo mai, nemmeno al Roxy Bar (“ognuno a
rincorrere i suoi guai, ognuno in fondo perso dentro i cazzi suoi”) già
incontrare Vespa era una cosa strana.
E’ gentile e accogliente. Come giornalista
sono un impostore, gli dico. “Benvenuto”, ride Vespa. No, sul serio, sono solo
uno scrittore, e darmi del tu come si fa coi colleghi è quasi abusivo. Poi gli
chiedo se è consapevole di essere ormai in Italia un paradigna, modello di uno
stile retorico a metà tra il cortigiano e il Segretario del Principe, colui che
dice e non dice all’ombra di chi comanda, ne amministra i segreti, li divulga -
quasi fosse il mittente, non solo il cancelliere, delle parole del Potere.
Vespa riporta questo stile all’identità
“moderata”, quella della cosiddetta maggioranza silenziosa. Perché si chiama così?
“I moderati hanno in genere più difficoltà
ad esprimersi, non so perché, è una domanda interessante. La maggioranza
silenziosa è quella della vittoria di Berlusconi nel 1994, del suo pareggio nel
2013, avvenimenti che nessuno aveva previsto. E’ una fascia ampia e indistinta
che sfugge perfino ai sondaggi. Un altro aspetto è la resistenza da parte dei
moderati a fare giornalismo militante. Non è una forma di ipocrisia, ma forse
di educazione, di carattere. Un moderato è sempre un po’ reticente a esprimersi.
Nel giornalismo militante si parte da delle premesse, mentre il moderato non ha
una tesi da dimostrare. Ha le sue idee, certo, ma invita tutti alle
trasmissioni, fa in modo che ogni ascoltatore si faccia la propria idea. A
volte poi i moderati si arrabbiano moltissimo – vedi la marcia dei
‘quarantamila’ nel 1980, o i ‘due milioni’ della manifestazione berlusconiana
del ’96, dopo la vittoria di Prodi…”
Diciamo, credo, la stessa cosa, ma dandole
un valore diverso. Il pluralismo aritmetico di Vespa (dare la parola a tutti)
non gli impedisce di trasmettere come dominanti il messaggio e il codice del
potere, e la sua ‘moderazione’ ricorda un po’ il giornalista ne La ricotta di Pasolini che intervista
Orson Welles, il regista-genio che lo stigmatizza con asprezza. Ma il suo
autoritratto si completa un attimo dopo. Berlusconi non è un moderato, lo
interrompo, lo sono Renzi, Cuperlo, lo sono tutti meno Grillo, ma di sicuro non
lui. “Lo è di carattere - dice Vespa - non
per le cose che dice. In un certo senso è togliattiano, si adatta alle
circostanze e alle contingenze, negli affari come nella politica, si fa concavo
e convesso, come dice di sé”.
E’ quindi di Berlusconi la migliore
definizione dello stile di Vespa: concavo e convesso. Con una camaleontica
vocazione a stare dalla parte del potere, sempre per definizione “moderato”.
Moderato significa: che dà sicurezza - come la voce suadente di Vespa. C’era
un’altra parola in Italia per dire questo stile, un sostantivo divenuto da
tempo aggettivo: “democristiano”.
“Parola rivalutata”, sorride Vespa.
“Togliatti non avrebbe cacciato Berlusconi così, avrebbe risolto la faccenda
con maggior finezza e pragmatismo”. Vero: anche Togliatti era democristiano.
Parliamo del suo libro. Certe pagine sono
addirittura belle: l’odore di Palmolive e di speranza sugli autobus negli anni
‘60, quando anche l’Italia andava verso il proprio futuro; la tenerezza del
commiato con l’amico di giovinezza Pietrostefani, condannato per l’omicidio
Calabresi. Ma c’è quella reticenza che mi turba, l’uso smodato di litoti,
eufemismi, understatement e altri stratagemmi retorici per alludere
senza dire, per non prendere posizioni politicamente e moralmente chiare. Tra
gli esempi buffi, la frase sulla convivente di Ruby, che “non è proprio una
Maria Goretti” (“c’è il rischio di essere querelati a dire che qualcuno è una
prostituta senza avere le prove”, mi dice), o sul non sapere che Ruby fosse
minorenne (“non credo che dopo Noemi potesse rischiare di frequentare una
minorenne, anche se c’è della follia nell’aver portato in casa sua tutte quelle
donne”). Di Berlusconi parla a volte come di un tale che conosciamo e che ogni
tanto ne combina una delle sue, non un primo ministro accusato di nefandezze e
già condannato. Gli eufemismi di Vespa possono essere ironici, e sono parte
integrante della fluidità e del successo del libro presso la sua maggioranza
silenziosa di lettori. Anzi non-lettori, come mi spiega lui stesso.
“Scrivere mi piace molto, mi diverte, mi
rilassa, non mi affatica, ma pubblicare il primo libro non fu facile.
L’opinione diffusa era che quelli della televisione non sapessero scrivere, e
Mondadori mi chiese una prova di scrittura. Mandai le prime cartelle del libro Telecamera con vista e dissero di sì.
Dal secondo libro cominciai a vendere centomila copie e fui rivalutato. La
televisione aiuta il successo di libri come i miei solo se si attrae il
pubblico dei non lettori. Non come da Fazio. Lui ha un pubblico di lettori e
invita un certo tipo di scrittori. Eravamo amici, cominciò facendo la mia
imitazione, ma nella sua trasmissione non mi ha mai invitato. Se lo fossi avrei
un boom di vendite pazzesco. Per me vendere è faticoso. Se il pubblico dei
lettori mi è precluso (non credo che anche tu sia un mio lettore abituale: hai perfino
tolto la sovracoperta del mio libro, come quelli che leggono di nascosto Cinquanta
sfumature di grigio), devo andare da quello dei non lettori”. I suoi libri
vendono dalle cento alle trecentomila copie, ma sono i temi, non la qualità
letteraria a fare la differenza”.
“Non troverai mai un mio libro in una
vetrina della Feltrinelli. A Genova fu strappato un mio libro in pubblico, e
nessuno disse niente. Se fosse accaduto ad altri scrittori o giornalisti, a
Saviano, si sarebbe fermata l’Italia. Prima di scrivere libri, quando ero
ritenuto solo un giornalista democristiano, mi sentivo rispettato. Negli anni
del compromesso storico, tra il 1976 e il 1979, ero portato in palmo di mano.
Sono sempre uguale, dico le stesse cose, ma vengo etichettato per il potere o
l’aria che tira. A Berlinguer e Amendola facevo le stesse domande fatte più
tardi a Berlusconi. Nessuno ricorda che
le prime domande sul conflitto di interessi gliele feci io dopo la sua prima
vittoria…”
Non si accorge Vespa che il suo mimetismo
col potere di turno attrae le critiche e l’indignazione rivolte al potere
politico? A parte che dare pari dignità a Berlinguer e a Berlusconi è per molti
inaccettabile.
“Io sono un cronista che ancora si
entusiasma per i fatti, e secondo me il dovere di un cronista è quello di
raccontare cose che non possono essere smentite (in vent’anni non ne ho mai
avute). E’ la base del mio lavoro, e porta fatalmente a un understatement, un tono necessariamente basso. Ma se Berlusconi non
avesse vinto le elezioni non avrei più lavorato. Fui epurato dalla Rai come un
impresentabile pur avendo fatto un telegiornale stravincente su quello di
Canale 5. Nel ‘94, la sera della vittoria di Berlusconi, il direttore della Rai
Locatelli mi propose di improvvisare un programma, e lo realizzai portando in
studio i più importanti segretari politici. Fu così che ricominciai a lavorare,
devo essere grato a Berlusconi, che io non conoscevo, per il fatto di esistere,
se no chissà che fine avrei fatto”.
Perché tanta amarezza e vittimismo? Anche
nel libro Vespa ce l’ha cogli snob di sinistra, i colti, gli intellettuali…
“C’è una tendenza all’esclusione da parte di
un certo mondo della sinistra (che non è quello più intelligente) che poi porta
gli esclusi a dire: ma perché? Ma questi miei dispiaceri non mi hanno portato a
essere rancoroso, non ho scritto un libro alla Pansa, tipo Il sangue dei
vinti, non sono uno spretato”.
Al contrario, sei piuttosto un consacrato…
“Il libro non ha rancori, ho solo il
dispiacere di venire escluso, io che sono una persona così ‘inclusiva’ - a Porta a porta ho invitato tutti, anche
Renato Curcio, anche Adriano Sofri”.
Tutti i tuoi sogni, scrivi, sono di
mascherarti, come mai?
“Ho un aspetto
serioso, ma sono istintivamente molto giocoso. Sono molto represso, e quindi
vorrei fare quello che non ho mai fatto. Sarei una discreta spalla comica, come
quando intervisto Fiorello”.
(articolo pubblicato su l'Unità di sabato 7 dicembre 2013)