Ai tanti cinquantenari di cui si è parlato, rievocazioni e attualizzazioni di un anno intenso come il 1963 – dalla morte di J. F. Kennedy a quella di Aldous Huxley e di Giovanni XXIII, dalla fondazione della casa editrice Adelphi a quella del Gruppo ’63, l’unica avanguardia letteraria del dopoguerra in Italia – vorrei suggerirne un altro: la pubblicazione de La scoperta dell’alfabeto, opera prima di Luigi Malerba, uno dei grandi autori italiani del Novecento, e che un legame col Gruppo ’63 lo ebbe eccome.
L’appartenenza, per quanto disorganica, alla neoavanguardia gli accentuò
fortemente un senso di libertà e disinvoltura nello scrivere, perché
sperimentale Malerba lo era ‘naturalmente’, e lo restò tutta la vita - uno
scrittore cioè che faceva di ogni sua nuova opera un’opera nuova. Ma quella
formidabile raccolta di racconti che prende il titolo dal primo di essi, “La
scoperta dell’alfabeto” - l’esilarante storia delle lezioni di scrittura che il contadino Ambanelli prende da un
ragazzino, forse lo stesso Malerba da giovane, narratore della storia -
conteneva o prometteva gran parte della sua poetica futura. Se l’opera
complessiva di Malerba è tra le più vive e attuali, un ruolo di primo piano
spetta a questo libro che non cessiamo di rileggere con meraviglia: un libro
dedicato alla stralunata epica contadina di un paese dell’appennino di Parma
(Malerba nacque a Berceto), ma più fecondo di un corso di scrittura creativa.
Non c’è
dubbio che questo libro abbia ispirato gli stuporosi Narratori
delle pianure con cui iniziò vent’anni dopo una seconda vita letteraria
Gianni Celati, a loro volta stimolo alle stravaganti e cantilenanti storie di
Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia e altri narratori emiliani. Ma la grandezza di
Malerba era anche, appunto, nel non accontentarsi di un genere e nel non
chiudersi in una maniera. I suoi racconti sull’appennino, su modi di vita già
allora in via di sparizione, non hanno nulla a che fare con alcune attuali
mitologie di paesi e mondi scomparsi, tra compiacimento nostalgico ed estetica
delle rovine. Non c’era già allora in Luigi Malerba (ironico pseudonimo di
Luigi Bonardi) alcun rimpianto pasoliniano né diversamente ideologico, ma uno
sguardo sulla commedia umana che, se è prossimo a quello di Celati, lo è
soprattutto per la comune ammirazione per lo sguardo di Buster Keaton e il suo
ostinato silenzio, indecidibile tra stupore e malinconica saggezza, e che è in
realtà elemento essenziale di una briosa macchina narrativa.
Una volta
Malerba disse a una platea di studenti che
scriveva “per sapere che cosa
penso”, e cercare così di dare un senso alla realtà. Il cosiddetto
realismo però era per lui un equivoco secolare, “una truffa ordita dalla
critica ai danni dei lettori”, perché la letteratura non traduce mai la realtà
così com’è (ammesso che esista una realtà così com’è), ma “inventa una realtà anche quando parla
delle nostre cose più vicine”, di sentimenti o persone a noi note e familiari.
Anche quando descrive, lo scrittore inventa, e a differenza della cronaca fatta
dai giornalisti, diceva Malerba, gli scrittori non raccontano la realtà, ma il
senso, anzi il sentimento della realtà. (Non stupisce che Malerba abbia anche
confessato che il romanzo che avrebbe voluto riscrivere fosse il Don Chisciotte: non c’è nulla di più
malerbiano della deliberata confusione testuale e narrativa di Cervantes tra il
mondo e la scrittura - descrivere la realtà come se fosse un libro, scrivere (e
leggere) un libro come se fosse la realtà).
Oggi possiamo vedere come ne La scoperta dell’alfabeto ci fosse già tutto questo, e come la sua
innovazione letteraria fosse connessa con quanto di meglio si stava elaborando
in altre avanguardie europee (penso in particolare alla Francia). Era un
periodo molto eccitante se paragonato alla miseria del tempo presente, in cui
la sperimentazione è quasi bandita e la banalità premiata. Così, mentre Malerba
scriveva questi primi racconti sul linguaggio, e che pure facevano vedere la
realtà e la sua epica meglio di qualsiasi tentativo realista, Roland Barthes
scriveva e pubblicava i suoi Essais critiques, in particolare quelli
dedicati ai romanzi coevi di Alain Robbe-Grillet, al cui sguardo iperrealista
rimproverava un unico errore: “credere che si dia un esserci delle cose antecedente e esterno al linguaggio, e che la letteratura
abbia il compito di ritrovarlo in un estremo slancio di realismo”. Che è poi
quello che oggi in Italia, anche nella filosofia, passa per una riscoperta di
avanguardia, non per l’involuzione che di fatto è rispetto alle formulazioni
letterarie e filosofiche degli anni ’60, fino alla Lezione di Barthes e a L’ordine del discorso di Michel Foucault; fino a a quel bizzarro,
malizioso inciso di Derrida, a mio avviso magnifico, secondo cui “non c’è nulla
fuori dal testo”. Forse non ci si accorse abbastanza che la filosofia viveva
allora una nostalgia attiva, e tutt’oggi inascoltata, verso la letteratura, ma
per fortuna quello che si pretende contraddire nei filosofi non ci si sogna
ancora di obbiettarlo agli scrittori, altrimenti non avrebbe più da tempo
diritto di cittadinanza l’intera opera di Samuel Beckett, la stella più
luminosa (come si dice delle stelle spente) dell’epoca. Fu infatti Beckett il
grande ispiratore di una ricerca letteraria tesa a esplorare i limiti del
linguaggio e le scaturigini stesse della parola. Le opere successive di
Malerba, come i “romanzi” Il
serpente, Salto mortale ecc. - acrobazie sintattiche le cui forme più prossime, anche nella
musicalità, sono forse le poesie del reggiano Corrado Costa - confermarono
questa direzione.
A distanza di anni dunque possiamo
riconoscere ulteriori valenze all’opera di Malerba, la cui messa in discussione
del senso della realtà lo accomuna ai
grandi scrittori e artisti di ogni tempo, quelli che pongono domande scomode e
creative che hanno conseguenze anche pratiche (politiche) sul senso della
realtà. Non solo le domande perturbanti di Philip K. Dick sulla realtà della
realtà (lui che ispirò storie come Matrix o The Truman Show), o
le poesie di Allen Ginsberg, che conobbe il manicomio a causa del suo diverso
senso della realtà; ma anche quelle del grande Gregory Bateson, autore di Verso
un’ecologia della mente. Dove si legge, nel “metalogo” con la figlia “Dei
giochi e della serietà”, forse il testo più prossimo a “La scoperta
dell’alfabeto”, che per pensare idee nuove bisogna disfarsi di quelle già
pronte e mescolarne i pezzi (come si faceva nelle tipografie coi cliché
per fare parole nuove), anche a costo di apparire insensati: “se parlassimo
sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso; non faremmo che
ripetere come pappagalli i vecchi cliché che tutti hanno ripetuto per
secoli”. Ne “La scoperta
dell’alfabeto”, primo racconto dell’omonima raccolta, si parla di
scrittura: “prima c’è A, poi c’è B”, insegna il ragazzino al vecchio Ambanelli.
“Perché prima e dopo?”, chiede quest’ultimo producendo brividi metafisici oltre
che comici. Chi ha deciso l’ordine dell’alfabeto, e perché? Ambanelli vuole
imparare a scrivere il proprio nome. Il ragazzino allora riprende: “prima c’è
A, poi c’è M…” “Hai visto? Ora cominciano a ragionare”, esclama Ambanelli
mettendo il ragazzino nei pasticci. Scriveva Bateson: “Se non ci cacciassimo nei
pasticci i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza mescolare le
carte”.
Le parole sono importanti, e tutto, o quasi
tutto, avviene in esse. Malerba ne inventò parecchie, come I Neologissimi
(deliziosa plaquette appena ripubblicata dai Quaderni dell’Oplepo). Come
avvertiva infatti Malerba ne Il serpente, “stai attento perché molte
parole sono sdrucciole, viscide
come anguille, salterine come cavallette, sono di un’astuzia diabolica e
non cadono in trappola tanto facilmente. Alcune parole sono invisibili”.
(articolo uscito su l'Unità dell'11 dicembre 2013)
4 commenti:
bellissimo, denso, stuporoso come dici tu
sergio
Mi metterei a piangere per non aver mai letto questo libro...
Le parole mi hanno sempre avvolto e protetto, andrò a cercarlo e sarà l'occasione di un gran piacere.
Grazie, un articolo magnifico.
www.carlapaolini.com
ah però!
grazie, carla paolini, ma è sempre bello avere libri ancora da leggere, no? auguri per tutto, b. s.
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