(mio articolo uscito su Venerdì di Repubblica in edicola oggi)
Avete presente quel conflitto, non di interessi ma di emozioni, di quando vorreste dire a tutti qualcosa che vi piace ma nello stesso tempo non vorreste condividerlo quasi con nessuno? E’ ciò che mi accade nel dare notizia del concerto di Daniel Johnston all’Angelo Mai Occupato, a Roma, il 29 maggio, unica data italiana.
Avete presente quel conflitto, non di interessi ma di emozioni, di quando vorreste dire a tutti qualcosa che vi piace ma nello stesso tempo non vorreste condividerlo quasi con nessuno? E’ ciò che mi accade nel dare notizia del concerto di Daniel Johnston all’Angelo Mai Occupato, a Roma, il 29 maggio, unica data italiana.
Chi è? Nei commenti ai suoi video su
youtube, l’aggettivo più ricorrente è “cool”, seguito da “geniale” (o
“mostruosamente geniale”). C’è chi resta sorpreso dal suo aspetto attuale, dalla
naturalezza delle sue canzoni, e lo definisce creepy (pauroso, raccapricciante),
ma la maggior parte esprime meraviglia e amore per la purezza e nudità della
sua musica.
Canta quasi le stesse canzoni che registrava
in garage i primi anni ‘80 con voce da ragazzino, accompagnandosi con una
pianola elettrica e una chitarra suonata come una grattugia. Salvo scoprire che
anche senza orchestrazione né arrangiamenti le sue soluzioni musicali, come i
suoi testi, erano incredibilmente belle e innovative, e miscelavano tutti i
generi. Faceva tutto da solo e si divertiva come un matto.
Poi “matto” lo divenne davvero, o meglio
maniaco-depressivo, a partire da quando si innamorò di una ragazza, Laurie, che
preferì fidanzarsi con un giovane becchino. Daniel ebbe un crollo nervoso, ma poi
le dedicò, tra le altre, una canzone satirica, Funeral Home. O quando fu
la sua stessa famiglia a mandarlo in manicomio dopo che da ragazzo,
accompagnando il padre su un piccolo aereo, prese i comandi dirigendolo in
picchiata: si salvarono per miracolo nonostante lo schianto. Adesso non ha più
quella faccetta timida e curiosa di ventenne, è grasso, sformato dai farmaci
dopo anni di cure psichiatriche, stringe il microfono con entrambe le mani che
gli tremano, ma la voce è ancora fanciulla ed è questo salto a spiazzarci, il
brusco passaggio dalla fanciullezza alla vecchiaia, anche se Daniel Johnston di
anni ne ha 52: la nostra civiltà ha abolito la vita adulta, si è giovani oppure
anziani, e il suo essere ibrido ci appare strano, “mostruoso”. Ma le sue canzoni
restano di una bellezza straziante, vestite solo di ciò che le denuda, pura
bellezza.
La vita di Daniel Johnston, nato a
Sacramento (California) nel 1961, sembra un romanzo di Philip K. Dick, ma anche
uno di quei racconti di Richard Brautigan pieni di cose buffe e tragiche. Da ragazzo
sognava di diventare i Beatles, tutti e quattro. Sembra la promessa di una
personalità multipla, anche se il suo vero problema è stata la cosiddetta
sindrome bipolare. Disegnava e aveva la passione di registrare tutto. Il bel film documentario
sulla sua vita, The Devil and Daniel
Johnston, girato nel 2005 da Jeff
Feuerzeig e premiato anche al Sundance Festival fa uso di filmini e disegni
animati di Daniel, e inizia con la sua voce che dice: “sono il fantasma
di Daniel Johnston, lavoravo al McDonald, il diavolo conosce il mio nome…”
Scorrono filmati di famiglia e fotografie:
lui bebè sul seggiolone, la madre Mabel e il padre Bill, lui bambino al
pianoforte, scolaro in divisa, nella sua camera di adolescente col poster di
Fonzie di Happy days e la copertina di New Morning
di Bob Dylan. Il documentario descrive un’epoca, ma anche la casa attuale di
Daniel Johnston riproduce la cantina della sua adolescenza. Le sue canzoni
hanno titoli come True Love will Find You
in the End, Tears, Some Things Last a Long
Time e sono esattamente quello che promettono, testi di una purezza
essenziale. I Live My Broken Dreams fa pensare all’interrogazione del
poeta Allen Ginsberg (anch’egli ricoverato da giovane in un manicomio) sul “senso
della realtà” e della vita.
E in effetti, da quanto tempo abbiamo
cessato di porre queste domande? Nelle sue canzoni si sente l’esperienza del
dolore e dell’oppressione, ma l’onda calda che arriva è di liberazione e gioia.
E’ alla poesia che bisogna paragonare la musica di Daniel Johnston, mai
ingenua, ma così priva di malizia nel packaging.
Come nei suoi disegni e fumetti, nelle canzoni modella come plastilina i
sentimenti di rabbia, disperazione e resa, e impasta abbandonandosi alla sua
anima folk e blues, litanie e rap, rock e jazz. O come Rock’n’roll/Ega,
del più tardivo disco Fun (1994), canzone definita “perfetta sintesi di
tutte le bipolarità umorali”, che alterna la dolcezza di una ballata all’urto
del rock.
Nel 1983, anno a cui risale il disco fatto
in casa Yip/Jump Music (che Kurt Cobain mise tra i suoi dischi
preferiti), Daniel scappò al seguito di un luna park in cui vendeva pop-corn.
Assaporò la liberta per la prima volta e tutto, disse, gli sembrava un film.
Visse a Austin lavorando al McDonald, dove regalava ai clienti le sue
musicassette registrate in garage e illustrate coi suoi disegni, e iniziò a
essere conosciuto dalla gente. Un critico musicale paragonò le sue canzoni al
primo disco dei Beatles, e nell’85 suonò in apertura al concerto del gruppo di
cui faceva parte un’amica. La gente che ascoltava si chiese: “Che cos’è, uno
scherzo?” Finché una trasmissione itinerante di Mtv che fece tappa a Austin
quello stesso anno lo chiamò a esibirsi, e di colpo diventò un artista
riconosciuto e apprezzato. Il pubblico di giovani applaudì quelle canzoni e
quella voce coraggiose e nude, semplici e perfette, che mescolavano ironia,
tristezza, tragedia e farsa.
Mentre Lou Reed, uno dei suoi fan più
prestigiosi insieme a Tom Waits, i Sonic Youth, i Rem, Beck, David Bowie,
Steven Spielberg, Matt Groening e molti altri, lo aspettava invano in un teatro
a New York per suonare insieme, Daniel Jonhston veniva arrestato perché
scriveva graffiti contro Satana dentro la Statua della Libertà. Risale a quando
il cantante dei Butthole Surfers gli diede un acido a un concerto la fissazione
di Daniel contro il diavolo. Ma questa è un’altra storia e lui la racconta molto bene nella sua ormai mitica canzoncina Devil Town: “ho vissuto in una
città di dèmoni / io non sapevo che fosse una città di dèmoni...”