12/31/2013

Il populismo spiegato ai bambini

Per una doppia pagina dedicata all'anno che finisce, sulla cultura de l'Unità di oggi 31 dicembre 2013 c'è questa mia nota sul populismo e sul dissolversi della politica, quasi sul sentimento di essere perduti, che niente esprime così bene come questa immagine straordinaria di Leandro Erlich, che mi fa pensare a una variante della caverna di Platone. Il mio testo è comunque quello che segue qui sotto. Auguri a tutti.


   Alla fine di un anno iniziato in un Vaffa-day permanente, con l’uso della parola “morti!” (col punto esclamativo) come manganello e insulto, leggo che presunti animalisti hanno insultato e augurato la morte a una ragazza rea di sopravvivere alle malattie grazie alla ricerca medica con sperimentazione sugli animali. Dà la sensazione di un cerchio triste che si chiude, ed eleggerei questi nazi-animalisti a campioni dello stile populista: spararle grosse, violente, asfaltare la realtà con uno strato di parole ribollenti e iper-semplificate, meglio se insulti sprezzanti Anche le menzogne vanno benissimo, qualcosa resterà.
   Dal regime pubblicitario del partito-azienda fondato vent’anni fa col nome di grido da stadio (“Forza Italia”), ai monologhi urlati dell’ex comico genovese, il populismo in Italia ha avuto un tale exploit da essere oggi addirittura rivendicato, non importa che sia sinonimo generico di fascismo con l’accento posto sulla demagogia: “siamo noi i veri populisti”, reclama la Lega Nord in concorrenza con forconi e fascisti vari. I più rozzi luoghi comuni, come l’intramontabile “non c’è lavoro per colpa degli immigrati”, non provocano più vergogna e ridicolo ma sono status symbol da ostentare, come i confitti di interessi all’epoca di Berlusconi.
   Ma c’è un tratto più profondo nel populismo italiano, che fa dell’antipolitica la parte preponderante della politica: l’essere indistinguibile dalla pubblicità. La pubblicità ha assimilato la politica così come, parallelamente, la finanza ha fagocitato l’economia. E poiché la pubblicità dissolve la realtà, tutto diventa possibile, a partire dalla fascinazione ipnotica dei Capi, sdoganatori delle più assurde pretese e dei più tristi e inconfessabili rancori. L’ultimo, l’ex comico, sembra a sua volta frutto e prestanome di un esperimento politico di laboratorio sulla psicopatologia delle masse.
   Ma se è vero che il populismo è il fallimento della politica, bisognerebbe dire la verità sul suo fallimento: la vergognosa debolezza di un’opposizione autodegradata a concorrenza, il Pd, simile in questi anni a un governo ombra del governo di estrema destra, nel senso di un’indistinguibile visione del mondo. Suggerirei un esempio. 
   Ricordo un certo Penati, membro della direzione del Pd nonché presidente della Provincia di Milano, caduto in disgrazia per tangenti. A parte l’aspetto giudiziario, per me Penati fu colui che dichiarò con fredda sicumera, senza nessuna protesta nel Pd, che la politica doveva abbandonare quella “vocazione pedagogica” del Pci (penso all’etica di Enrico Berlinguer) e andare incontro alle aspettative della gente, ‘quello che vuole il popolo’, come si dice al bar. Ma chi è la gente? Nell’epoca del più sconvolgente degrado morale in Italia, di un abissale deficit di educazione, di un analfabetismo di ritorno dovuto al monolinguismo delle tv commerciali (ragione, spiegavano gli storici, del successo elettorale di Berlusconi), quella frase di Penati, mai contraddetta nel suo partito, sembra l’agenda politica della Lega Nord tradotta in italiano, ma di fatto era ed è il populismo spiegato ai bambini. Non dico dove si arriva andando incontro alle aspettative della “gente”, perché in quel caos ci siamo già; manca solo la pena di morte e il diritto a “più figa per tutti” (di botte contro le femmine ce n’è già troppe). Ma anche nel cinismo pubblicitario-populista il Pd arrivava in ritardo, nel sottomettere cioè la bontà delle idee ai sondaggi, come dall’inizio ha sempre fatto Berlusconi, come da ultimo fa Beppe Grillo: salvare le vite dei presunti clandestini, per esempio, accogliere i profughi, non porta voti, quindi è una cattiva idea.

(da l'Unità del 31/12/20139)






12/27/2013

Sulla parola femminicidio (e sul brutto articolo di Guido Ceronetti)


   Tra i neologismi più recenti, “femminicidio” unisce all’indubbia sgradevolezza una precisione semantica tanto imbarazzante quanto efficace, che rende sospetto ogni tentativo di evitarla: non c’è un altro modo per dire l’atto di distruzione compiuto da uomini e soltanto da uomini per uccidere o ferire le donne in quanto donne e in quanto femmine, uccidere o ferire l’altro, la giustamente irriducibile alterità della donna che il maschio dell’uomo non riesce a metabolizzare e a trasformare (in crescita, in ascolto, in erotismo, in conoscenza, in contemplazione, etc).
   Femminicidio è una parola scomoda, come l’iperrealtà dell’atto che evoca, anzi descrive. Non stupisce quindi che periodicamente qualcuno (un uomo) la critichi più o meno capziosamente. In genere si tratta di intellettuali che, così come certi politici coi loro atti producono per reazione di disgusto l’antipolitica, colle loro giostre di parole producono per reazione l’anticultura. Entrambi, politici e intellettuali, sono accomunati dal tentativo di schivare o rimuovere la realtà per paura. Il compianto filosofo Aldo Gargani li chiamava intellettuali terrorizzati, che parlano per tacere, occultando in codici culturali già dati la verità emozionale e prelinguistica del reale.
    Temo sia il caso di Guido Ceronetti, di cui la Repubblica di oggi (27.12) ha pubblicato un dotto articolo sull’abolizione della parola femminicidio. Non dice nulla sulla realtà che la parola descrive, propone solo di “eliminare l’orripilante femminicidio, che le abbassa [le donne] a tutto ciò che, in natura, è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare”. A queste parole già imbarazzanti, con l’uso disinvolto e liquidatorio di concetti come “natura” o “genere”, segue una precisazione, che è poi il movente dichiarato dell’articolo: “Ma, per noi, se non siamo bruti, donna significa molto di più”. A noi che creati non fummo per viver come bruti, come direbbe Dante-Ulisse, ovvero per usare parole come “femminicidio” (sul cui significato, ripeto, Ceronetti non si sofferma mai nella sua freddezza lessicografica), ma per nobilitare ed elevare ciò che è femmina, così prossima all’animale (“zoologico”), conviene appunto dire donna, dal latino domina (Ceronetti non dice che è il femminile di dominus, cioè la moglie intoccabile e desessualizzata del signore); o ancora meglio l’etimo greca giné-gynekòs, da cui vengono parole come gineceo o ginecologia. Ecco, invece che femminicidio, chiamiamolo ginecidio, annuncia Ceronetti, prima di perdersi definitivamente in un narcisismo monologante intessuto di citazioni da Schopenauer a Nikola Tesla. Massì, non diciamo neanche più “maschilismo”, è troppo volgare, meglio “virilità”; o, con etimo greca, “antropofilia” (filantropia essendo già occupato).
   Difficile abolire una parola senza annullare la realtà che ci mostra. Come ha detto qualcuno, la realtà è quella cosa che anche quando non ci credi più rimane lo stesso. Ma nella vertiginosa smania citatoria di Ceronetti manca evidentemente anche Emmanauel Levinas, che sull’alterità, la priorità dell’altro in quanto altro - di cui la differenza sessuale e la relazione erotica sono magnifiche occasioni di esperienza - ha fondato l’intera etica. Tutto il contrario del fare dell’altro l’oggetto e il bersaglio del nostro sguardo o del nostro discorso nobilitante ed elevato, modalità (come la metafora dello specchio) già usate nel tempo dal maschio bianco per assoggettare e annullare l’altro, eliminarne la persona o l’identità (la donna, l’ebreo...), magari assimilandola alla propria.
   Ecco come il fastidioso “femminicidio” fa emergere motivazioni arcaiche (non disgiunte da un ancestrale senso di colpo) a un gesto antico che dura anche oggi, l’umano maschile infierire sull’inerme – il profugo, il debole, il disabile, il senza casa, il bruto, l’animale. Meglio se femmina.

(articolo in uscita su l'Unità di sabato 28 dicembre 2013)

12/11/2013

L'anno 1963, Luigi Malerba e "La scoperta dell'alfabeto". Come giocare, molto seriamente, con le parole.



 Ai tanti cinquantenari di cui si è parlato, rievocazioni e attualizzazioni di un anno intenso come il 1963 – dalla morte di J. F. Kennedy a quella di Aldous Huxley e di Giovanni XXIII, dalla fondazione della casa editrice Adelphi a quella del Gruppo ’63, l’unica avanguardia letteraria del dopoguerra in Italia – vorrei suggerirne un altro: la pubblicazione de La scoperta dell’alfabeto, opera prima di Luigi Malerba, uno dei grandi autori italiani del Novecento, e che un legame col Gruppo ’63 lo ebbe eccome.
 L’appartenenza, per quanto disorganica, alla neoavanguardia gli accentuò fortemente un senso di libertà e disinvoltura nello scrivere, perché sperimentale Malerba lo era ‘naturalmente’, e lo restò tutta la vita - uno scrittore cioè che faceva di ogni sua nuova opera un’opera nuova. Ma quella formidabile raccolta di racconti che prende il titolo dal primo di essi, “La scoperta dell’alfabeto” - l’esilarante storia delle lezioni di scrittura che il contadino Ambanelli prende da un ragazzino, forse lo stesso Malerba da giovane, narratore della storia - conteneva o prometteva gran parte della sua poetica futura. Se l’opera complessiva di Malerba è tra le più vive e attuali, un ruolo di primo piano spetta a questo libro che non cessiamo di rileggere con meraviglia: un libro dedicato alla stralunata epica contadina di un paese dell’appennino di Parma (Malerba nacque a Berceto), ma più fecondo di un corso di scrittura creativa.
  Non c’è dubbio che questo libro abbia ispirato gli stuporosi Narratori delle pianure con cui iniziò vent’anni dopo una seconda vita letteraria Gianni Celati, a loro volta stimolo alle stravaganti e cantilenanti storie di Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia e altri narratori emiliani. Ma la grandezza di Malerba era anche, appunto, nel non accontentarsi di un genere e nel non chiudersi in una maniera. I suoi racconti sull’appennino, su modi di vita già allora in via di sparizione, non hanno nulla a che fare con alcune attuali mitologie di paesi e mondi scomparsi, tra compiacimento nostalgico ed estetica delle rovine. Non c’era già allora in Luigi Malerba (ironico pseudonimo di Luigi Bonardi) alcun rimpianto pasoliniano né diversamente ideologico, ma uno sguardo sulla commedia umana che, se è prossimo a quello di Celati, lo è soprattutto per la comune ammirazione per lo sguardo di Buster Keaton e il suo ostinato silenzio, indecidibile tra stupore e malinconica saggezza, e che è in realtà elemento essenziale di una briosa macchina narrativa.
  Una volta Malerba disse a una platea di studenti che  scriveva “per sapere che cosa penso”, e cercare così di dare un senso alla realtà. Il cosiddetto realismo però era per lui un equivoco secolare, “una truffa ordita dalla critica ai danni dei lettori”, perché la letteratura non traduce mai la realtà così com’è (ammesso che esista una realtà così com’è), ma “inventa una realtà anche quando parla delle nostre cose più vicine”, di sentimenti o persone a noi note e familiari. Anche quando descrive, lo scrittore inventa, e a differenza della cronaca fatta dai giornalisti, diceva Malerba, gli scrittori non raccontano la realtà, ma il senso, anzi il sentimento della realtà. (Non stupisce che Malerba abbia anche confessato che il romanzo che avrebbe voluto riscrivere fosse il Don Chisciotte: non c’è nulla di più malerbiano della deliberata confusione testuale e narrativa di Cervantes tra il mondo e la scrittura - descrivere la realtà come se fosse un libro, scrivere (e leggere) un libro come se fosse la realtà).
   Oggi possiamo vedere come ne La scoperta dell’alfabeto ci fosse già tutto questo, e come la sua innovazione letteraria fosse connessa con quanto di meglio si stava elaborando in altre avanguardie europee (penso in particolare alla Francia). Era un periodo molto eccitante se paragonato alla miseria del tempo presente, in cui la sperimentazione è quasi bandita e la banalità premiata. Così, mentre Malerba scriveva questi primi racconti sul linguaggio, e che pure facevano vedere la realtà e la sua epica meglio di qualsiasi tentativo realista, Roland Barthes scriveva e pubblicava i suoi Essais critiques, in particolare quelli dedicati ai romanzi coevi di Alain Robbe-Grillet, al cui sguardo iperrealista rimproverava un unico errore: “credere che si dia un esserci delle cose antecedente e esterno al linguaggio, e che la letteratura abbia il compito di ritrovarlo in un estremo slancio di realismo”. Che è poi quello che oggi in Italia, anche nella filosofia, passa per una riscoperta di avanguardia, non per l’involuzione che di fatto è rispetto alle formulazioni letterarie e filosofiche degli anni ’60, fino alla Lezione di Barthes e a L’ordine del discorso di Michel Foucault; fino a a quel bizzarro, malizioso inciso di Derrida, a mio avviso magnifico, secondo cui “non c’è nulla fuori dal testo”. Forse non ci si accorse abbastanza che la filosofia viveva allora una nostalgia attiva, e tutt’oggi inascoltata, verso la letteratura, ma per fortuna quello che si pretende contraddire nei filosofi non ci si sogna ancora di obbiettarlo agli scrittori, altrimenti non avrebbe più da tempo diritto di cittadinanza l’intera opera di Samuel Beckett, la stella più luminosa (come si dice delle stelle spente) dell’epoca. Fu infatti Beckett il grande ispiratore di una ricerca letteraria tesa a esplorare i limiti del linguaggio e le scaturigini stesse della parola. Le opere successive di Malerba, come i “romanzi” Il serpente, Salto mortale ecc. - acrobazie sintattiche le cui forme più prossime, anche nella musicalità, sono forse le poesie del reggiano Corrado Costa - confermarono questa direzione.
   A distanza di anni dunque possiamo riconoscere ulteriori valenze all’opera di Malerba, la cui messa in discussione del senso della realtà lo accomuna ai grandi scrittori e artisti di ogni tempo, quelli che pongono domande scomode e creative che hanno conseguenze anche pratiche (politiche) sul senso della realtà. Non solo le domande perturbanti di Philip K. Dick sulla realtà della realtà (lui che ispirò storie come Matrix o The Truman Show), o le poesie di Allen Ginsberg, che conobbe il manicomio a causa del suo diverso senso della realtà; ma anche quelle del grande Gregory Bateson, autore di Verso un’ecologia della mente. Dove si legge, nel “metalogo” con la figlia “Dei giochi e della serietà”, forse il testo più prossimo a “La scoperta dell’alfabeto”, che per pensare idee nuove bisogna disfarsi di quelle già pronte e mescolarne i pezzi (come si faceva nelle tipografie coi cliché per fare parole nuove), anche a costo di apparire insensati: “se parlassimo sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso; non faremmo che ripetere come pappagalli i vecchi cliché che tutti hanno ripetuto per secoli”. Ne “La scoperta dell’alfabeto”, primo racconto dell’omonima raccolta, si parla di scrittura: “prima c’è A, poi c’è B”, insegna il ragazzino al vecchio Ambanelli. “Perché prima e dopo?”, chiede quest’ultimo producendo brividi metafisici oltre che comici. Chi ha deciso l’ordine dell’alfabeto, e perché? Ambanelli vuole imparare a scrivere il proprio nome. Il ragazzino allora riprende: “prima c’è A, poi c’è M…” “Hai visto? Ora cominciano a ragionare”, esclama Ambanelli mettendo il ragazzino nei pasticci. Scriveva Bateson: “Se non ci cacciassimo nei pasticci i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza mescolare le carte”.
   Le parole sono importanti, e tutto, o quasi tutto, avviene in esse. Malerba ne inventò parecchie, come I Neologissimi (deliziosa plaquette appena ripubblicata dai Quaderni dell’Oplepo). Come avvertiva infatti Malerba ne Il serpente, “stai attento perché molte parole sono sdrucciole, viscide come anguille, salterine come cavallette, sono di un’astuzia diabolica e non cadono in trappola tanto facilmente. Alcune parole sono invisibili”.

(articolo uscito su l'Unità dell'11 dicembre 2013)

12/09/2013

Grazie a Maria Novella Oppo


Vorrei dire grazie, con tutto il cuore, a Maria Novella Oppo per queste sue parole che giungono da una tale altezza - rispetto alla rozzezza dei grillini che l'hanno insultata - che, mentre mi commuovono, mi viene anche da ridere.
Ma sono anche insulti che, come ricorda Michele Serra oggi su Repubblica, dovrebbero ricordare al caro Dario Fo, oggi così confuso, che sono molto, troppo simili a quelli francamente fascisti che riceveva Franca Rame.
IL DIRITTO DI DIRE LA MIA | DI MARIA NOVELLA OPPO
"Ho ascoltato con indignazione (dalla tv!) quello che Beppe Grillo aveva scritto contro una collega giornalista de l’Unità, ma quando ho scoperto che la giornalista in questione ero io, un po’ mi è venuto da ridere". SEGUE A PAG.16, clicca qui

La 'maggioranza silenziosa' dei non lettori. Fenomenologia di Bruno Vespa


          

  Ho incontrato Bruno Vespa nei freddi giorni della “decadenza” di Silvio Berlusconi, attratto dal sottotitolo del suo ultimo libro, L’Italia che ho vissuto: da nonna Aida alla Terza Repubblica, un’idea di memoria. Non erano stati poi Berlusconi e Vespa una coppia mediatica, se non  teatrale, a partire dalla gag del contratto con gli Italiani, il siparietto allestito a “Porta a porta”? Il giornale che leggevo al bar riportava i lamenti del futuro ex senatore - una sera ospiti a cena l’uomo più potente del mondo (Putin), quella dopo servi alla mensa dei poveri. Ma invece di rallegrarsi del miracolo non dormiva più, quand’ecco dall’altoparlante parte la canzone di Vasco Rossi: “Voglio una vita spericolata”, “una vita che chi se ne frega, di quelle che non dormi mai”. Fu un’illuminazione: era perfetta per Berlusconi. Se, grazie al cielo, lui e io non ci incontreremo mai, nemmeno al Roxy Bar (“ognuno a rincorrere i suoi guai, ognuno in fondo perso dentro i cazzi suoi”) già incontrare Vespa era una cosa strana.

  E’ gentile e accogliente. Come giornalista sono un impostore, gli dico. “Benvenuto”, ride Vespa. No, sul serio, sono solo uno scrittore, e darmi del tu come si fa coi colleghi è quasi abusivo. Poi gli chiedo se è consapevole di essere ormai in Italia un paradigna, modello di uno stile retorico a metà tra il cortigiano e il Segretario del Principe, colui che dice e non dice all’ombra di chi comanda, ne amministra i segreti, li divulga - quasi fosse il mittente, non solo il cancelliere, delle parole del Potere.
  Vespa riporta questo stile all’identità “moderata”, quella della cosiddetta maggioranza silenziosa. Perché si chiama così?
  “I moderati hanno in genere più difficoltà ad esprimersi, non so perché, è una domanda interessante. La maggioranza silenziosa è quella della vittoria di Berlusconi nel 1994, del suo pareggio nel 2013, avvenimenti che nessuno aveva previsto. E’ una fascia ampia e indistinta che sfugge perfino ai sondaggi. Un altro aspetto è la resistenza da parte dei moderati a fare giornalismo militante. Non è una forma di ipocrisia, ma forse di educazione, di carattere. Un moderato è sempre un po’ reticente a esprimersi. Nel giornalismo militante si parte da delle premesse, mentre il moderato non ha una tesi da dimostrare. Ha le sue idee, certo, ma invita tutti alle trasmissioni, fa in modo che ogni ascoltatore si faccia la propria idea. A volte poi i moderati si arrabbiano moltissimo – vedi la marcia dei ‘quarantamila’ nel 1980, o i ‘due milioni’ della manifestazione berlusconiana del ’96, dopo la vittoria di Prodi…”
  Diciamo, credo, la stessa cosa, ma dandole un valore diverso. Il pluralismo aritmetico di Vespa (dare la parola a tutti) non gli impedisce di trasmettere come dominanti il messaggio e il codice del potere, e la sua ‘moderazione’ ricorda un po’ il giornalista ne La ricotta di Pasolini che intervista Orson Welles, il regista-genio che lo stigmatizza con asprezza. Ma il suo autoritratto si completa un attimo dopo. Berlusconi non è un moderato, lo interrompo, lo sono Renzi, Cuperlo, lo sono tutti meno Grillo, ma di sicuro non lui. “Lo è di carattere - dice Vespa -  non per le cose che dice. In un certo senso è togliattiano, si adatta alle circostanze e alle contingenze, negli affari come nella politica, si fa concavo e convesso, come dice di sé”.
  E’ quindi di Berlusconi la migliore definizione dello stile di Vespa: concavo e convesso. Con una camaleontica vocazione a stare dalla parte del potere, sempre per definizione “moderato”. Moderato significa: che dà sicurezza - come la voce suadente di Vespa. C’era un’altra parola in Italia per dire questo stile, un sostantivo divenuto da tempo aggettivo: “democristiano”.
  “Parola rivalutata”, sorride Vespa. “Togliatti non avrebbe cacciato Berlusconi così, avrebbe risolto la faccenda con maggior finezza e pragmatismo”. Vero: anche Togliatti era democristiano.
  Parliamo del suo libro. Certe pagine sono addirittura belle: l’odore di Palmolive e di speranza sugli autobus negli anni ‘60, quando anche l’Italia andava verso il proprio futuro; la tenerezza del commiato con l’amico di giovinezza Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi. Ma c’è quella reticenza che mi turba, l’uso smodato di litoti, eufemismi, understatement e altri stratagemmi retorici per alludere senza dire, per non prendere posizioni politicamente e moralmente chiare. Tra gli esempi buffi, la frase sulla convivente di Ruby, che “non è proprio una Maria Goretti” (“c’è il rischio di essere querelati a dire che qualcuno è una prostituta senza avere le prove”, mi dice), o sul non sapere che Ruby fosse minorenne (“non credo che dopo Noemi potesse rischiare di frequentare una minorenne, anche se c’è della follia nell’aver portato in casa sua tutte quelle donne”). Di Berlusconi parla a volte come di un tale che conosciamo e che ogni tanto ne combina una delle sue, non un primo ministro accusato di nefandezze e già condannato. Gli eufemismi di Vespa possono essere ironici, e sono parte integrante della fluidità e del successo del libro presso la sua maggioranza silenziosa di lettori. Anzi non-lettori, come mi spiega lui stesso.
  “Scrivere mi piace molto, mi diverte, mi rilassa, non mi affatica, ma pubblicare il primo libro non fu facile. L’opinione diffusa era che quelli della televisione non sapessero scrivere, e Mondadori mi chiese una prova di scrittura. Mandai le prime cartelle del libro Telecamera con vista e dissero di sì. Dal secondo libro cominciai a vendere centomila copie e fui rivalutato. La televisione aiuta il successo di libri come i miei solo se si attrae il pubblico dei non lettori. Non come da Fazio. Lui ha un pubblico di lettori e invita un certo tipo di scrittori. Eravamo amici, cominciò facendo la mia imitazione, ma nella sua trasmissione non mi ha mai invitato. Se lo fossi avrei un boom di vendite pazzesco. Per me vendere è faticoso. Se il pubblico dei lettori mi è precluso (non credo che anche tu sia un mio lettore abituale: hai perfino tolto la sovracoperta del mio libro, come quelli che leggono di nascosto Cinquanta sfumature di grigio), devo andare da quello dei non lettori”. I suoi libri vendono dalle cento alle trecentomila copie, ma sono i temi, non la qualità letteraria a fare la differenza”.
  “Non troverai mai un mio libro in una vetrina della Feltrinelli. A Genova fu strappato un mio libro in pubblico, e nessuno disse niente. Se fosse accaduto ad altri scrittori o giornalisti, a Saviano, si sarebbe fermata l’Italia. Prima di scrivere libri, quando ero ritenuto solo un giornalista democristiano, mi sentivo rispettato. Negli anni del compromesso storico, tra il 1976 e il 1979, ero portato in palmo di mano. Sono sempre uguale, dico le stesse cose, ma vengo etichettato per il potere o l’aria che tira. A Berlinguer e Amendola facevo le stesse domande fatte più tardi a  Berlusconi. Nessuno ricorda che le prime domande sul conflitto di interessi gliele feci io dopo la sua prima vittoria…”
  Non si accorge Vespa che il suo mimetismo col potere di turno attrae le critiche e l’indignazione rivolte al potere politico? A parte che dare pari dignità a Berlinguer e a Berlusconi è per molti inaccettabile.
  “Io sono un cronista che ancora si entusiasma per i fatti, e secondo me il dovere di un cronista è quello di raccontare cose che non possono essere smentite (in vent’anni non ne ho mai avute). E’ la base del mio lavoro, e porta fatalmente a un understatement, un tono necessariamente basso. Ma se Berlusconi non avesse vinto le elezioni non avrei più lavorato. Fui epurato dalla Rai come un impresentabile pur avendo fatto un telegiornale stravincente su quello di Canale 5. Nel ‘94, la sera della vittoria di Berlusconi, il direttore della Rai Locatelli mi propose di improvvisare un programma, e lo realizzai portando in studio i più importanti segretari politici. Fu così che ricominciai a lavorare, devo essere grato a Berlusconi, che io non conoscevo, per il fatto di esistere, se no chissà che fine avrei fatto”.
   Perché tanta amarezza e vittimismo? Anche nel libro Vespa ce l’ha cogli snob di sinistra, i colti, gli intellettuali…
  “C’è una tendenza all’esclusione da parte di un certo mondo della sinistra (che non è quello più intelligente) che poi porta gli esclusi a dire: ma perché? Ma questi miei dispiaceri non mi hanno portato a essere rancoroso, non ho scritto un libro alla Pansa, tipo Il sangue dei vinti, non sono uno spretato”.
   Al contrario, sei piuttosto un consacrato…
  “Il libro non ha rancori, ho solo il dispiacere di venire escluso, io che sono una persona così ‘inclusiva’ - a Porta a porta ho invitato tutti, anche Renato Curcio, anche Adriano Sofri”.
   Tutti i tuoi sogni, scrivi, sono di mascherarti, come mai?
  “Ho un aspetto serioso, ma sono istintivamente molto giocoso. Sono molto represso, e quindi vorrei fare quello che non ho mai fatto. Sarei una discreta spalla comica, come quando intervisto Fiorello”.

(articolo pubblicato su l'Unità di sabato 7 dicembre 2013)