I disegni sono di M. Tom Dieck, tratti da Levinas/Dieck, Le visage de l'autre, Seuil 2001
Non è molto agevole parlare in un giornale dell’opera di Emmanuel Levinas - “maestro travestito da filosofo”, scrissi, “ebreo travestito da greco”, scrisse Jacques Derrida. Fondazione di un’etica che ha aperto e ecceduto la filosofia verso l’esperienza dell’altro, degli altri, in una tensione trascendentale che ne fa in realtà un immenso trattato dell’ospitalità, inanellando sinonimi vertiginosi come Dio, l'Infinito e il Volto del prossimo. Se è auspicabile che chi si occupa di cose pubbliche e di beni comuni ne facesse l'esperienza, sappiamo quanto oggi il pensiero, perfino il linguaggio non orientato a uno scopo immediato, non godano di buona fama, o siano addirittura visti con sospetto. Forse per questo, paradossalmente, un buon viatico all’opera di Levinas è proprio la raccolta dei suoi scritti di prigionia fino a oggi inediti, l’umile laboratorio delle idee di uno dei più grandi maestri del Novecento. In questi cahiers de captivité, “quaderni di prigionia”, scritti a partire dalla fine degli anni ’30 in uno stalag, campo di prigionieri militari (ma gli appunti continuano fino al 1961), si trovano le basi dell’opera futura di Levinas che culminerà in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974).
Il lettore e il discepolo di Levinas vi trova l'emozione di autentiche scoperte. Prima di tutto il fatto che, dieci anni dopo il suo primo libro dedicato alla fenomenologia di Husserl e Heidegger, Levinas desse pari dignità nei suoi appunti alla critica letteraria e alla filosofia. Nel campo di prigionia legge Dante, Ariosto, Proust, Edgar Allan Poe, Leon Bloy, e addirittura si progetta romanziere. Triste opulenza, poi ribattezzato Eros, è uno dei romanzi abbozzati in quel periodo, suscettibile di illuminare le sue idee filosofiche: come la descrizione del “mondo infranto”, che prima ancora della prigionia dice la disfatta di fronte all’hitlerismo della Francia e dell’Europa; mondo della “caduta dei drappi”, delle istituzioni, che è la caduta stessa della realtà. Ma è anche la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger: “Le cose si decompongono, perdono il loro senso: le foreste divengono alberi - tutto ciò che nella letteratura francese voleva dire foresta scompare (...) Ma non voglio parlare della fine delle illusioni; piuttosto della fine del senso (il senso stesso come illusione)”. L’avversione per Heidegger, detto per inciso, precede l’adesione al nazismo di quest’ultimo.
Altra scoperta di questi appunti, forse la più emozionante per chi scrive, è quella della fecondità del linguaggio, del suo potere di significare al di là di quanto dice, e del miracolo della “metafora”, che Levinas preferisce al “concetto”: meraviglia per la potenza della parola ordinaria che per suo tramite si innalza fino a lambire - tendere, indicare, significare - il Divino, l’Infinito, che per Levinas è (anche) sempre metafora dell’altro, del prossimo, della relazione sociale. Meraviglia che condividiamo, leggendolo, per il potere rivelativo del linguaggio, assistendo alla genesi dell'inconfondibile e iperbolico stile della sua opera, che nasce nella scrittura. L’esaltazione della potenza polifonica delle parole ordinarie (“il più abita il meno”), della loro trascendenza (trans, attraversamento, e scando, risalita), salda in una sorta di etica del sublime-umile il piano del linguaggio e quello della relazione e della condizione umana.
Infine, è nella prigionia che Levinas scopre l’ebraismo, come condizione elettiva (pur essendo un prigioniero militare francese, Levinas era raggruppato con altri israeliti). Paradosso di un uomo che combatté in difesa della lingua francese e scoprì la lingua ebraica, cui si dedicherà all’indomani della Liberazione seguendo i corsi di Chouchani, base dei suoi celebri “scritti talmudici”. Vorrei illustrare l'ultimo punto, che in realtà sarebbe il primo: la scoperta, grazie alla prigionia, di quella nuova soggettività che trova l’infinito nel finito.
E' la prigionia (certo non paragonabile a quella dei campi di sterminio, ma pur sempre un’esperienza della sospensione del senso) che permette a Levinas una singolare evasione, simile a quella affermata qualche anno prima in un'opera filosofica anti-heideggeriana dal titolo appunto Dell’evasione: “si tratta di uscire dall'essere per una nuova via al rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti”. Ed ecco allora la più scandalosa e commovente delle “scoperte”.
Nel 1945 Levinas scrive retrospettivamente della miseria della prigionia, della “monotonia delle recinzioni di filo spinato”, delle “mattinate piene di bruma in cui ci si muove per andare a lavorare”. Eppure, continua, i prigionieri, “per paradossale che possa sembrare, nella recintata distesa dei campi hanno conosciuto un’estensione di vita più ampia e, sotto l’occhio delle sentinelle, una libertà insospettata. Non sono stati dei borghesi, ed è qui la loro vera avventura, il loro vero romanticismo”. “Il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita”, “Si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze”, “mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno”. Scandalosamente, Levinas descrive “una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale”: “La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà”.
Recensione a Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura di Rodolphe Calin e Catherine Chalier - Edizione italiana a cura di Silvano Facioni, Bompiani, pp. 510, euro 25,00 - uscita su l'Unità del 20 settembre 2011.