6/25/2011

La verità (shame the devil)

   Un anno dopo eccomi di nuovo nella mia comunità elettiva, il festival blues di Piacenza “Dal Mississippi al Po”, organizzato e animato da Seba Pezzani, traduttore, scrittore e musicista. Ritrovo vecchi amici, Tim Willocks e Joe Lansdale, altri se ne aggiungono, lo scrittore Anthony Neil Smith, il musicista Andy J. Forest. E poi le band di Rick Estrin, Alvin Youngblood Hart, Sonny Landreth. C’è il fotografo e poeta Frank Lisciandro con la sua mostra su Jim Morrison, lui che ne ha condiviso la vita. Un crocevia di storie e suoni, avventure e ritmi.  “E’ bello essere qui”: è la stessa esclamazione dell’appena scomparso Peter Falk, quando nei panni dell’angelo incarnato, nel chioschetto della piazza deserta de Il cielo sopra Berlino di Wenders, dice la bellezza del fregarsi le mani al freddo, fumare, bere caffè, insomma la vita umana e mortale, la realtà, la verità, che è sempre un racconto. Ma la realtà fa paura al potere in carica. Proprio come un anno fa, esso tenta di nuovo di abolire la realtà (il suo racconto) con una legge-bavaglio che vieta di darne notizia; che vieta per esempio di raccontare le inchieste, definite gossip. Anche se fosse, perché abolire i gossip (che vorrebbe dire chiudere il Tg1)? A me le notizie piacciono tutte, anche quelle che non fanno notizia, anche quelle strampalate sugli extraterrestri o sulle nascite dei vitelli con due teste (le notizie più vere, direbbero i Men in black). E quelle, che coincidono con la letteratura, che “restano notizie anche dopo averle lette” (come diceva Ezra Pound). Che tutto questo c’entri e molto col blues me lo spiegò l’anno scorso il grande musicista nero Harrison Kennedy. Il senso del blues, disse, è quello che gli ripeteva sua madre: Say the true, and shame the devil, “di’ sempre la verità, e fai vergognare il diavolo”. E’ la giusta via per combattere ogni fascismo, dentro e fuori di noi.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 26 giugno)

6/11/2011

I poveri sono fantasmi

   Alcune notti fa, alla fermata dell’autobus, ho incontrato un pittore che conosco di vista. Alla luce del lampione mi ha mostrato, non so perché, un foglio: era l’avviso che gli avevano tagliato l’elettricità nello studio in cui vive. Per morosità, cioè per povertà. La serranda è elettrica, dunque non poteva più entrare, e nemmeno prendere il caricabatterie del telefonino che aveva urgenza di usare. Andava infatti in autobus da un’amica assai lontano che gli avrebbe prestato il suo. Casa mia era a due passi: gli ho proposto di darglielo io; se non avessi fatto in tempo o non fosse andato bene, avrebbe preso l’autobus (la notte sono pochi). Ho corso pensando alle mie fatture arretrate, non della luce ma del gas.
   Su queste pagine, in una serie sulle “eresie”, uscì un mio pezzo dal titolo “Chiedo scusa se parlo di povertà” (31.7.2003). L’eresia sarebbe – nel mondo del mangiare senza fame e del bere senza sete, dell’happy hour e della sbronza globalizzata al venerdì – parlare di vergogna e nudità sociale, della povertà di chi non vende un rene, non fa notizia, ma sopravvive nell’ombra con sforzi di dignità. Citavo Ladri di biciclette, La vita agra di Bianciardi, il silenzio dei mangiatori di arance di Conversazione in Sicilia di Vittorini, una lettera di Dylan Thomas all’editore in cui si scusava di non poterla affrancare (“non ho più un penny”), mentre la moglie “è giù alla spiaggia a cercare telline” per la cena. Parlavo dei poveri nascosti, la povertà non mondana, che nessun oliviero toscani mai fotograferà. Dopo, sì, i giornali hanno scritto della nuova povertà degli Italiani, fino agli anziani che rubano il cibo al supermercato, nonostante il glamour di regime a coprire il silenzio sulle condizioni reali della gente. Ma non ho fatto in tempo a chiedere al pittore, che mi aspettava in strada come un fantasma, su quale presa elettrica pensasse di collegare il caricabatterie del telefonino.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità 12 giugno 2011)

6/09/2011

Berlinguer e la questione morale


   Parlare oggi di morale, più ancora che di Enrico Berlinguer, appare desueto, quasi oscuro. E’ un po’, per osare un paragone, come parlare di economia e di valore d’uso in un mondo dominato (‘sussunto’, direbbero i filosofi) dalla finanza. Se il concetto di ‘valore’ è ormai tutt’uno col concetto di ‘virtuale’ (e forse è sempre stato così, insegna Marx) è inevitabile che la politica, invece di essere avvolta dall’etica, spesso vi si contrapponga, in nome di una tecnocratica ‘autonomia della politica’ che nel nostro Paese procede senza soluzioni di continuità da Togliatti a D’Alema (passando per Andreotti). Non è una battuta, per quanto la formula sia per ovvie ragioni molto sintetica. Ecco, la figura e lo stile di Enrico Berlinguer hanno indubbiamente segnato una discontinuità. Imbarazzante per molti, esemplare per altri, è stata impiegata per designarlo la formula “comunismo etico”. Io me lo ricordo, anche se ero un ragazzo.

   Della sua importanza o, come si dice, “statura” internazionale, ebbi la prova ultima e commovente alla notizia della sua scomparsa nel 1984. Mi trovavo nella sala tv della Cité universitaire di Ginevra, dove ero studente, e giovani di varie etnie e Paesi, anche che non avevo mai visto, vennero a portarmi le loro condoglianze, poiché io ero italiano, e tutti conoscevano e stimavano Enrico Berlinguer, pur non essendo un uomo di governo.
   Quanto al suo indimenticabile carisma, una foto che lo ritrae è forse la migliore traduzione iconica della sua diversità: Enrico Berlinguer esile e quasi lieve, i capelli spettinati dal vento, di fianco a rappresentanti del Pcus tetragoni e massicci, da cui era già politicamente a distanze siderali. Ripeto, difficile spiegare oggi il suo comunismo etico. Per farlo si dovrebbe decostruire impietosamente e quasi per intero quanto la sinistra ha fatto negli ultimi vent’anni, fino a rinnegare esplicitamente la parola “sinistra”: la rincorsa a un profilo di governo a prezzo della rinuncia a essere vincente su fronti più ampi - la cultura, la società, il pensiero, il linguaggio - accogliendo acriticamente miti vuoti come la “modernizzazione”, fino a rivalorizzare Craxi contro Berlinguer. Quello stesso Craxi che parlava del nostro Paese come della “azienda Italia”, formula matrice dell’attuale trasformazione dei cittadini in clienti – il berlusconismo, come si dice oggi. E infatti l’uomo che verrà, che sarebbe venuto, che è arrivato puntualmente, fu allevato in quegli anni a esercitare il proprio monopolio, finché ha semplicemente messo il proprio cappello sull’azienda (Italia) ormai apprestata, realizzando una delle peggiori distopie della Storia: un fascismo nuovo e impropriamente detto soft, un regime di pubblicitari senza alcun senso dell’onore, della morale, del pudore.
   Dopo Berlinguer la critica delle ideologie (quelle di sinistra, mai quelle del mercato e del risorto darwinismo sociale) ci ha condotti all’imperio dell’ideologia più triste, quella della non-ideologia, cioè del mero presente, senza futuro e senza storia (tranne gli spot pubblicitari). Dissipata con la propria identità e differenza quell’egemonia culturale che a ragione la destra rimproverava alla sinistra, dopo Berlinguer il linguaggio dei politici (di sinistra) è diventato un “lessico famigliare”, separato dai cittadini ma condiviso dalla destra, fino alla ripetizione di quella parola d’ordine comune a tutti e vacua di senso: “riformismo”.
   Mi chiedo: perché anche chi della mia generazione ha avuto col Pci e con Berlinguer conflitti forti e aspri lo rimpiange come un padre o un maestro? Per la splendida intransigenza morale che emanava, per un’affinità, prima che elettorale, elettiva. Come nel piccolo apologo televisivo che ho già una volta raccontato, un apologo che parla del silenzio: quello di Enrico Berlinguer quando, in una trasmissione sulla Rai di allora, col moderatore Jacobelli, un esponente del Movimento sociale italiano (l’estrema destra), in deroga all’etichetta, gli rivolse una domanda diretta. Berlinguer restò in silenzio come se non avesse udito, e così a lungo che Jacobelli glielo fece notare imbarazzato (la tv, si sa, non sopporta i silenzi). A lui Berlinguer rispose fermo e serafico: “Coi fascisti non parlo”.
   Una volta lo scrittore Erri De Luca mi ha detto che i poeti, a differenza dei politici, non possono mai mentire, e che forse è questo l’unico vero tratto distintivo che fa di un poeta un poeta. Ecco, Enrico Berlinguer allora era un poeta. Ma, quando la sinistra era vincente senza essere di governo, fu votato da un terzo degli Italiani.

6/04/2011

Il referendum e la rifondazione della politica

   I cittadini disgustati dalla politica anche nella variante “beppe grillo”, sono un po’ come i gialli italiani: la realtà li supera malgrado la loro affannosa rincorsa al disincanto. Nel suo ultimo romanzo detto giustamente “noir”, quasi una parafrasi della cronaca nera che a sua volta coincide con l’attuale politica italiana, Massimo Carlotto stila il catalogo delle attività criminose di imprenditori e politici: alle ordinarie corruzioni si aggiunge il business dell’importazione di componenti difettose o obsolete di centrali nucleari approvate dal governo: forse non si faranno mai, ma è sui tempi lunghi della realizzazione che si incassano somme favolose di denaro pubblico, già intercettato dalla criminalità organizzata. Come già collaudato dalla “protezione civile” (le commissioni “grandi rischi” e “grandi opere”, tutti inquisiti), il loro cinismo radicale non ha scrupoli nemmeno di fronte al futuro dell’umanità e dell’ambente. Basterebbe questo per presentarsi in massa, senza distinzioni di orientamento politico, al referendum sul nucleare, sull’acqua pubblica e gratuita, sulla giustizia uguale per tutti (contro l’impunità di chi governa). Se la politica nel suo complesso sembra tutt’uno col campionario di attività criminali (con la conseguenza minore per giallisti o noiristi di non saper più stupire il lettore ed emanciparsi dalla cronaca quotidiana), coi referendum di domenica prossima il cittadino deluso sarà protagonista di un cambio di rotta. Sappia il cittadino tentato dal qualunquismo, dal “sono tutti uguali”, “la politica fa schifo” e via dicendo, che domenica prossima potrà addirittura rifondarla, la politica, in una  bio-politica. Non solo i temi saranno come mai in passato così vicini al cuore (e quorum) della sua vita (nel senso di ciò che si oppone alla morte); ma il suo apporto non sarà mai stato come questa volta così decisivo.

(rubrica "acchiappafantasmi" per l'Unità di domenica 5 giugno)

6/03/2011

Il tono di Max Frisch


  [Oggi, mio compleanno, esce su Venerdì di Repubblica questo mio corsivo-recensione sul mio scrittore preferito]

   Come può un semplice quaderno di appunti, uno zibaldone, catturare il lettore con effetto quasi di suspense, o almeno di fascinazione? E' uno dei talenti di Max Frisch - tra i massimi scrittori del Novecento non solo di lingua tedesca, autore di romanzi come Homo faber, Stiller, Il mio nome sia Gantenbein - aver fatto del diario un genere di altissima intensità etica e letteraria. Eppure, in un'epoca in cui la pensosità sembra ai più sinonimo di tristezza, anche l’eretico Frisch, sperimentatore di forme e coscienza civile avversa a ogni ideologia, pare a sua volta dimenticato. Per chi invece lo conosce, leggerlo è un po’ come ascoltare Bob Dylan: la grana della voce, il suo tono inconfondibile, è ciò che riconosciamo prima ancora dei contenuti: notizie da un mondo vero che smascherano il nostro come un mondo finto.

   Ora Frammenti di un terzo diario (Casagrande) si aggiunge ai Diari della coscienza degli anni '60 e’70 pubblicati allora da Feltrinelli (è un segno dei tempi che questo editore non abbia siglato anche questo libro?). Risale ai primi anni '80, quelli dell'Urss, di Ronald Reagan e dell’incubo atomico, ma anticipa le nostre incrinature individuali e collettive con vertiginosa attualità. Parla dell’abitare (il suo nomadismo tra New York, che odia e ama, Zurigo e la casa nella campagna ticinese “dove fioriscono le magnolie”), dei dilaganti valori americani (la parola d’ordine è “Power”, ovvero “Liberty”, di cui “Money è il sinonimo con minori pretese” e “la guerra è continuazione degli affari con altri mezzi”); degli amori, come sempre (“Mi aggrappo alla vita? Mi aggrappo a una donna”); della sua narrativa così legata alla vita (“mi lascio guidare dalle esperienze che faccio. Però non riesco a risolverle in concetti, e per questo mi servo della narrazione”). C’è tutta la sua meravigliosa vulnerabilità, e quella sincerità assoluta che avvolge la sua avventura di scrivere di un pudico eroismo: “La vita come oasi – la morte come il deserto tutt’intorno – Cos’è che mi spinge a vederci chiaro?”
   Gli ultimi interventi “civili” di Frisch furono sulle leggi per il diritto d’asilo, la fuga e l'espatrio dei più giovani e creativi per esprimersi, e il corso politico del mondo che definì “rivolta dei ricchi contro i poveri”, denunciando il fallimento dell’Illuminismo e la riduzione della democrazia a folklore. Questo diario che ha la stessa età dei giovani scrittori che da noi scalpitano per ottenere visibilità, come se scrivere fosse una professione qualsiasi, risponde che il compito dello scrittore è viceversa essere opachi, irriducibili al commercio e alla banalizzazione del linguaggio come “comunicazione”. “Esiste oggi uno scrittore che creda che le sue opere verranno lette, che so, tra cent'anni? Scrivere è diventato una cosa diversa: un dialogo con i propri contemporanei. Niente di più. Il compito dello scrittore – comunicare ai propri nipoti qualcosa del proprio tempo – assomiglia sempre più a una mera illusione. Solo quarant’anni fa Brecht si rivolgeva ancora alle generazioni postume”.
(su Venerdì di Repubblica, pag. 126, 3 giugno 2011)