6/09/2011

Berlinguer e la questione morale


   Parlare oggi di morale, più ancora che di Enrico Berlinguer, appare desueto, quasi oscuro. E’ un po’, per osare un paragone, come parlare di economia e di valore d’uso in un mondo dominato (‘sussunto’, direbbero i filosofi) dalla finanza. Se il concetto di ‘valore’ è ormai tutt’uno col concetto di ‘virtuale’ (e forse è sempre stato così, insegna Marx) è inevitabile che la politica, invece di essere avvolta dall’etica, spesso vi si contrapponga, in nome di una tecnocratica ‘autonomia della politica’ che nel nostro Paese procede senza soluzioni di continuità da Togliatti a D’Alema (passando per Andreotti). Non è una battuta, per quanto la formula sia per ovvie ragioni molto sintetica. Ecco, la figura e lo stile di Enrico Berlinguer hanno indubbiamente segnato una discontinuità. Imbarazzante per molti, esemplare per altri, è stata impiegata per designarlo la formula “comunismo etico”. Io me lo ricordo, anche se ero un ragazzo.

   Della sua importanza o, come si dice, “statura” internazionale, ebbi la prova ultima e commovente alla notizia della sua scomparsa nel 1984. Mi trovavo nella sala tv della Cité universitaire di Ginevra, dove ero studente, e giovani di varie etnie e Paesi, anche che non avevo mai visto, vennero a portarmi le loro condoglianze, poiché io ero italiano, e tutti conoscevano e stimavano Enrico Berlinguer, pur non essendo un uomo di governo.
   Quanto al suo indimenticabile carisma, una foto che lo ritrae è forse la migliore traduzione iconica della sua diversità: Enrico Berlinguer esile e quasi lieve, i capelli spettinati dal vento, di fianco a rappresentanti del Pcus tetragoni e massicci, da cui era già politicamente a distanze siderali. Ripeto, difficile spiegare oggi il suo comunismo etico. Per farlo si dovrebbe decostruire impietosamente e quasi per intero quanto la sinistra ha fatto negli ultimi vent’anni, fino a rinnegare esplicitamente la parola “sinistra”: la rincorsa a un profilo di governo a prezzo della rinuncia a essere vincente su fronti più ampi - la cultura, la società, il pensiero, il linguaggio - accogliendo acriticamente miti vuoti come la “modernizzazione”, fino a rivalorizzare Craxi contro Berlinguer. Quello stesso Craxi che parlava del nostro Paese come della “azienda Italia”, formula matrice dell’attuale trasformazione dei cittadini in clienti – il berlusconismo, come si dice oggi. E infatti l’uomo che verrà, che sarebbe venuto, che è arrivato puntualmente, fu allevato in quegli anni a esercitare il proprio monopolio, finché ha semplicemente messo il proprio cappello sull’azienda (Italia) ormai apprestata, realizzando una delle peggiori distopie della Storia: un fascismo nuovo e impropriamente detto soft, un regime di pubblicitari senza alcun senso dell’onore, della morale, del pudore.
   Dopo Berlinguer la critica delle ideologie (quelle di sinistra, mai quelle del mercato e del risorto darwinismo sociale) ci ha condotti all’imperio dell’ideologia più triste, quella della non-ideologia, cioè del mero presente, senza futuro e senza storia (tranne gli spot pubblicitari). Dissipata con la propria identità e differenza quell’egemonia culturale che a ragione la destra rimproverava alla sinistra, dopo Berlinguer il linguaggio dei politici (di sinistra) è diventato un “lessico famigliare”, separato dai cittadini ma condiviso dalla destra, fino alla ripetizione di quella parola d’ordine comune a tutti e vacua di senso: “riformismo”.
   Mi chiedo: perché anche chi della mia generazione ha avuto col Pci e con Berlinguer conflitti forti e aspri lo rimpiange come un padre o un maestro? Per la splendida intransigenza morale che emanava, per un’affinità, prima che elettorale, elettiva. Come nel piccolo apologo televisivo che ho già una volta raccontato, un apologo che parla del silenzio: quello di Enrico Berlinguer quando, in una trasmissione sulla Rai di allora, col moderatore Jacobelli, un esponente del Movimento sociale italiano (l’estrema destra), in deroga all’etichetta, gli rivolse una domanda diretta. Berlinguer restò in silenzio come se non avesse udito, e così a lungo che Jacobelli glielo fece notare imbarazzato (la tv, si sa, non sopporta i silenzi). A lui Berlinguer rispose fermo e serafico: “Coi fascisti non parlo”.
   Una volta lo scrittore Erri De Luca mi ha detto che i poeti, a differenza dei politici, non possono mai mentire, e che forse è questo l’unico vero tratto distintivo che fa di un poeta un poeta. Ecco, Enrico Berlinguer allora era un poeta. Ma, quando la sinistra era vincente senza essere di governo, fu votato da un terzo degli Italiani.

3 commenti:

Alligatore ha detto...

Bel pezzo che mi ha fatto pensare ad un altro comunista etico, tra l'altro anche poeta, Ingrao ...

Unknown ha detto...

Oltre che etico io lo definirei anche un pò eretico. ..di una eresia naturalmente straordinariamente profetica. ..

Beppe Sebaste ha detto...

micce64: sono d'accordo