3/13/2011

Essere italiano (risposte a un questionario)


Il nuovo numero monografico della rivista Nuovi Argomenti è dedicato a un questionario sull'essere e sentirsi italiani indirizzato a un gran numero di scrittori (italiani). Io sono uno di loro, e riporto qui di seguito le mie risposte alle loro domande, resistendo alla tentazione di ritoccarle. faccio però una piccola premessa.
All'epoca delle mie frettolose risposte (qualche mese fa) non si immaginava una performance come quella di Benigni sull'Inno di Mameli a Sanremo, o almeno non la immaginavo io, né avevo percepito che oggi la nuova destra in Italia non fosse nemmeno più portatrice dell'idea (del valore? della retorica?) di "patria" e "nazione". Come è potuto accadere? Una risposta ce l'ho (e l'ho capita proprio guardando Benigni a Sanremo). Che "nazione" è forse l'ultimo esempio o avatar rimasto di "cosa pubblica", o "comune", di valore o bene "collettivo", insomma come si dice lo spazio pubblico, la scuola pubblica, la Re-pubblica, il parco pubblico o le panchine. E nella volontà di scardinare, estirpare alle radici questi valori, questi beni comuni, la nuova destra ha perfino fatto piazza pulita di questa idea. Inimmaginabile fino a qualche tempo fa, soprattutto per le mie origini e la mia formazione, senz'altro più "anarchiche" e cosmopolite che non nazionali. Comunque sia, continuo a non sentirmi molto in pace con i miei connazionali. Come si evince dalle mie risposte alle seguenti domande, che presento senza nessuna correzione.

1) Lei si sente italiano? E, se sì, in che modo?
   Quando si compilano i formulari alla frontiera (in un aeroporto americano, per esempio) alla casella “religione” c’è chi potrebbe sbandierare la propria confessione di ateismo e non appartenenza. Ma se si tratta di un italiano non ebreo, figlio e nipote di italiani e cresciuto in Italia, una risposta così è una risibile omissione. Rientra nel nostro Dna essere bianchi, europei, italiani, cristiani e cattolici. Da queste pre-determinazioni (o condizionamenti) si eredita lo sguardo con cui percepiamo il resto del mondo: meglio esserne consapevoli. Allo stesso modo so di essere italiano, e mi sento spesso italiano, anche se non sono i momenti di cui vado più orgoglioso: quando cerco di convincere il vigile o il poliziotto a non farmi la multa, il commerciante a tirar su la saracinesca o a riaprire il negozio, l’oste o il ristoratore a farmi fumare al tavolo nonostante i divieti, “visto che non c’è più nessuno”. Non ho mai parcheggiato sulle strisce pedonali e negli spazi per gli invalidi, ma ho citato fin troppo volentieri la petrarchesca caducità della vita, e “cosa siamo noi di fronte all’eternità”, per giustificare retoricamente i miei atti ed evitare sanzioni.
   D’istinto, non sapendo definire un’identità italiana, mi viene in mente così una serie di parole alla rinfusa, che rispondono in parte anche alla domanda 2: commedia, farsa, farla franca, darsi di gomito, presunzione, impunità, immunità, trasformismo, paura, attaccamento, senso di inferiorità, senso di superiorità, ipocrisia, esagerazione, superstizione, velleità, furbizia, ecc. Ricordo il ritratto che fece Rilke (ma con lui tutti o quasi i viaggiatori europei fin dal tempo del Grand Tour) dell’inopportuna e invadente teatralità degli Italiani. Per questo il primo ministro story-teller e pubblicitario di mestiere, che gli Italiani hanno eletto loro rappresentante per quasi quindici anni (quindici anni della mia vita adulta che avrei preferito trascorrere con altri argomenti di conversazione, altri sfondi, altre pubbliche interferenze), oltre che portatore di un triviale regime è campione e maschera dell’italianità, sintesi delle affinità elettive dominanti.
   Detto questo, c’è per fortuna un’altra galleria di parole positive, che hanno fatto sì che mi ostinassi a restare o a tornare in Italia: calore, umanità, cordialità, famigliarità, cantare (“volare”), gusto dello stare a tavola, lentezza (strano che si dica in inglese: slowfood), atavico ripudio della guerra... L’utopia è che restino questi i valori prevalenti.
2) Territorio, tradizione e identità sono concetti utilizzati con frequenza, a destra come a sinistra. È d'accordo con l'uso che se ne fa? E crede di poter parlare, secondo la sua esperienza, di territorio italiano, tradizione italiana e identità italiana?
   Quasi tutto di questo doveroso questionario tocca argomenti che sono per me in larga parte scabrosi e al tempo stesso formativi: la mia ripugnanza per l’italianità patriottica è tutt’uno infatti con la storia della mia bildung ed educazione sentimentale. Per esempio: facevo il ginnasio quando al “collettivo” culturale della mia scuola, che si riuniva un pomeriggio alla settimana per leggere libri fuori programma, affrontammo il saggio di Marcuse in Cultura e società che tratta dell’ideologia di “sangue e suolo” - tratti identitari comuni a ogni fascismo. Marcuse delineava, con parole semplici e folgoranti, la retorica del nazismo passato e del “leghismo” futuro: nulla di più italiano forse dell’antitalianità di Bossi e della Lega Nord.
   Ma la domanda richiede giustamente una risposta soggettiva ed esperienziale, per la quale rimando alla risposta 4, tranne questa breve osservazione: da qualunque frontiera europea si giunga in Italia, salta agli occhi appena oltrepassata la dogana la penosa bruttezza dell’urbanistica italiana: i condomini sono più simili a stabilimenti per la stagionatura dei prosciutti che a case abitate, e disposti in modo informe e casuale sul territorio, come le villette mono e bifamigliari, famose per i delitti, che costituiscono la nostra “italian beauty”. Perché è così? Non lo so. Anche se l’audace citazione di un cantiere abusivo, una specie di ecomostro che appare per un istante nel bel film di Mario Martone sul risorgimento italiano (Noi credevamo), suggerisce qualcosa di costitutivo nella formazione del nostro Paese. E non posso non vedere una continuità tra questa incuria e la devastazione tragica e quasi “finale” della terra foderata di rifiuti tossici, in Campania e nel casertano, laboratorio del resto d’Italia, descritta nel capitolo finale di Gomorra di Saviano; a riprova del fatto che la perdita del senso dello spazio, dell’appartenenza e cura di un territorio, procede parallelamente con quella del tempo, della memoria, ed entrambe colla perdita del senso dell’interdipendenza biologica e culturale dell’essere-umani-sulla-terra.
3) Che significato ha per lei la parola patria?
   Si è capita la mia allergia a questa parola e ai suoi derivati. La uso il meno possibile, e quasi sempre in senso metaforico (come “la sua patria è la nostalgia”, scritto da Chiara Valerio a proposito di un mio libro di racconti). E’ come il peso di un’eredità imposta e non negoziabile (da ragazzo mi chiedevo perché non “matria”, così come si può opporre matrimonio a patrimonio, ma sono giochi di superficie). Provo insofferenza per la valorizzazione indotta e quasi obbligata di un’appartenenza astratta e casuale come la nazionalità (tutto il contrario di una gratitudine), e sono molto critico e sospettoso nei confronti di ogni identità rivendicata, sottolineata, acclamata, enfatizzata (un Noi che è contro Loro), germe e radice di ogni violenza e di ogni guerra. Trovo aberrante la formula americana right or wrong is my country (“giusto o sbagliato è il mio Paese”), che depone ogni etica a favore dell’identità, e altrove l’ho argomentato reiterandone la logica in altri esempi, da quello stalinista (giusto o sbagliato è il mio partito) a quello mafioso (giusta o sbagliata è la mia famiglia), e così via.
4) Sente più forte il suo legame con un'identità locale (cittadina, provinciale, regionale) o con l'identità nazionale?
   Questa, insieme alla 5, è la domanda più bella, nel senso che mi propone una via d’uscita finalmente affermativa. Il parmigiano e l’emiliano che sono dentro di me, per quanto discreti, sono anch’essi insopprimibili, ma per parlarne devo cambiare registro: dove si nasce, da cosa si nasce, che cosa lascia in noi un’insopprimibile, duratura impronta? Di cosa siamo fatti? Io ho un amico maestro Zen, Fausto Taiten Guareschi, che non esita a parlare della propria nascita in Giappone, nella tradizione del Soto Zen, dai suoi maestri-padri-patriarchi etc., allo stesso modo in cui sant’Agostino poteva “confessare” la propria vita a partire dalla propria conversione al Cristianesimo, ovvero morte e vita nuova. Ma nello stesso tempo, lui, Taiten, nato a Fidenza, in provincia di Parma, abate e manutentore di un monastero buddhista ricavato da un rurale su quelle colline, parla ininterrottamente del padre, del mondo contadino e locale (il “mondo piccolo” di Giovannino Guareschi) e ha scritto un libro molto bello, di prose-insegnamenti, dal titolo Fatti di terra (cui seguirà prossimamente un altro libro dal titolo Fatti di nebbia). Ecco, mi riconosco pienamente in questa formazione, nascita e tradizione, che è un misto di vari elementi, dalla parlata strascicata e cantilenante ai cappelletti fatti con lo stracotto, dal radicchio verde (ormai quasi introvabile) al melodramma, e soprattutto quell’immaginario del luogo (i luoghi sono anche ciò che ci fanno immaginare) che da Ariosto a Pascoli - o dal Paradiso di Dante immaginato nell’esilio a Ravenna, all’Amarcord di Fellini a Rimini - conosce le mille varietà del bianco come solo chi è fatto di nebbia, come il Battistero di Parma o il Duomo di Modena. E credo a una connessione diretta tra il mondo piccolo e locale della propria origine e la dimensione universale - che, tra parentesi, è il contrario del provincialismo. Non a caso la bellezza o il sapore o la cura di certi singoli aspetti del pianeta, che possono essere un lago, una foresta, un’architettura, un dipinto, un formaggio o un dialetto, vengono detti “patrimonio dell’umanità”.
   "Fatti di terra – ha detto il maestro Taiten Guareschi – non si può perdere né acquistare terreno [...] La nostra pratica, così come la nostra strada è inventare il senso della terra d’origine”, “sogno terragno in cui sognando si rivela il sogno”. Sento un’appartenenza chimica, fisica e poetica a una certa terra, di cui mi piace a volte essere guida e ospite per gli stranieri - gli stranieri essendo coloro che ci aiutano a vedere meglio casa nostra, facendoci uscire dall’assuefazione e dalla cecità.
5) Simmetricamente, sente più forte il suo legame con l'identità italiana o con l'identità europea?
   La seconda, sicuramente. La mia identità è quella dei luoghi elettivi, e mai casuali, in cui ho intensamente abitato: dopo Parma, Lerici, Bologna, Roma, la Versilia, Parigi. E il Salento (dove ha origine mia madre) e perfino Ginevra, il lago Lemano e le Svizzere. O di quelli sognati: la Germania dei tanti scrittori di lingua tedesca che ho amato, la Zurigo di Max Frisch, la California da Chandler a Brautigan, la New York di Allen Ginsberg, l’Amsterdam e la Tashkent del mio amico Giorgio Messori, perfino l’America e l’Oklahoma sognati da Kafka, che ri-conobbi esattamente leggendolo e contemporaneamente guardando dal finestrino durante un volo New York-Los Angeles.
   Ma le mie abitudini, i miei valori, i miei riferimenti sono radicatamente europei; la mia “nostalgia” è dell’Europa, della sua lentezza, della sua memoria, del suo senso della Storia, della sua nostalgia appunto; della sua complessità e tragica saggezza, senza la quale non conoscerei la comicità, l’ironia e il riso.
6) Ci sono personaggi, periodi o eventi storici che accendono in lei qualcosa di simile a un orgoglio patrio?
   Qualcosa di simile me lo hanno comunicato solo i partigiani che hanno combattuto, per esempio sugli Appennini, contro i nazifascisti.
7) Uno dei rari momenti in cui il popolo italiano pare ritrovare un'unità di intenti e sentimenti è la visione di eventi sportivi. Si è mai trovato a guardare la gara di un atleta o di una squadra nazionale augurandosi che vincesse solo perché rappresentante l'Italia? E, se sì, per quale motivo?
   No, con la sola eccezione dei Mondiali di Calcio del 1982 (ero giovanissimo), quando Pertini era Presidente della Repubblica e si trovava in Spagna a fare il tifo per l’Italia. Era una squadra strana e interessante la formazione italiana, con Zoff e Bruno Conti, forse il ritratto più benevolo della nazione. L’Italia superò l’atavica paura di vincere (che secondo un mio amico risale almeno alla “disfida di Barletta”), Paolo Rossi rubava goal come un folletto, e l’entusiasmo di vincere contro dei giganti, come il Brasile e la Germania, si propagò. Soprattutto, quel mondiale è legato per me all’immagine di Roma in festa (ero a Roma in vacanza, dove avevo legami di amicizia con un gruppo di giovani poeti). Ricordo camion con le bandiere tricolori, e per la prima e unica volta nella vita non ne provai fastidio. Era una festa di poveri, non di ricchi, e dissi all’epoca che mi sembrava di vedere la festa della Liberazione, però a colori.
8) Pensa che il senso di appartenenza linguistica sia un elemento costitutivo del sentimento di identità nazionale?
   Non lo so, sinceramente. Anche perché, nonostante il nobile intento di Alessandro Manzoni, l’italiano inteso come lingua l’ha fatto di più Mike Bongiorno, ovvero la tv. Ma perfino quando leggo Dante non sento di leggere in lingua esclusivamente italiana, ma in una lingua europea, se non in un “patrimonio dell’umanità”; e soprattutto in una lingua che crea, che letteralmente dà forma e luogo, a ciò che chiamiamo “poesia”, “letteratura”, che è per me una lingua sovra-nazionale. Mi sono chiesto spesso in che lingua abbiamo letto i romanzi europei, americani etc. quando li abbiamo letti tradotti, quale sia insomma la nostra lingua d’uso, in cui scriviamo e parliamo. Prendo molto sul serio questa domanda, ovvero non intendo una “appartenenza linguistica” come il gergo di un clan più o meno allargato, come le cento o anche solo cinquanta parole in cui, da anni, i linguisti hanno dimostrato che si può vivere una vita in una città. “Lingua” è per me inscindibilmente legata alla letteratura, ovvero non è uno strumento che serve a comunicare qualcosa, ma l’organo di un Dire per mantenere (aperta) la parola, una forma alta di gratuità e di grazia, ma anche di rivelazione, senz’altro più vicina alla mistica che alla politica e agli affari; o al cosiddetto management che richiede una fluidità linguistica che avversa ogni elemento poetico come “rumore”, sabbia negli ingranaggi...
   C’è da chiedersi quindi quale sia il panorama attuale della lingua praticata in Italia; se e dove esista una pratica della lingua che non sia degradata o fagocitata dallo slogan politico-pubblicitario.
9) Quale è, se ritiene che esista, il carattere nazionale italiano? Crede che tale carattere sia costitutivo dell'identità o possa mutare nel tempo?
   Vedi risposta 1. Spero che possa mutare, grazie al meticciamento, o come si dice.
10) Italiani si nasce o si diventa?
   Tutt’e due, mi auguro, almeno per quanto la cittadinanza e i diritti civili che essa comporta. Penso naturalmente agli immigrati, di prima, seconda, terza ecc. generazione. In opposizione a ogni retorica del suolo, o peggio del sangue, che esclude gli altri, gli stranieri, in un’extra-comunità.

12 commenti:

Anonimo ha detto...

caro beppe
avrei voluto commentare con la solita battuta di flaiano "essere italiani è una fatica inutile" ma la contingenza del momento e la pregnanza delle tue risposte non lasciano spazio all'ironia. Patria, come è e come dici tu, è un fatto assai serio, un concetto extra-comunitario, si proprio extra.
un abbraccio
sergio

Pierre Sebaste ha detto...

Bellissime risposte!

Beppe Sebaste ha detto...

Mon Pierrot, grazie!... Bello che le hai lette (tu che appartieni a diverse identità :-))...
caro Sergio, grazie, che poi alla fine quella famosa battuta di Flaiano l'ho scritta solo io, finora...:-)

rossana ha detto...

Leggendo queste tue bellissime risposte mi sono sentita "a casa". E' questa l'"italianità" in cui mi riconosco.
Posso dire che ho provato un senso di "patria"?
Se ce n'è una di cui sento la necessità, è questa.

Beppe Sebaste ha detto...

(cara rossana, il tuo commento mi è comodo e gradito come un abbraccio. che io ricambio, cioè assecondo)

Anonimo ha detto...

Caro Beppe, sono italiana? Sono nata in Italia da genitori italiani. Da giovane ho abitato varie città italiane nelle quali non ho messo mai radici, sì, prendevo l'accento, ma non ho mai imparato un dialetto. A Parigi, dove ho soggiornato per qualche anno intorno al 1970, mi chiamevano "L'Italienne", ma non credo fosse un complimento. Quando vedo il tricolore non provo nulla, a volte mi dico che è una bandiera poco elegante, che ce ne sono di più belle. Alle partite (che in genere non guardo) mi infastidisco quando i calciatori cantano l'inno di Mameli, magari con la mano sul cuore. Innopportuno.
E' capitato invece, che abitando a Roma, un pò alla volta, mi sia sentita romana, tanto da dire :"Voglio che le mie ceneri restino qua." E' grave?
Un bacio Lucilla

Beppe Sebaste ha detto...

cara Lucilla, un sorriso... :-) (mi hai fatto pensare a Gregory Corso: lui lo voleva e c'è riuscito, a stare qui, a Roma, con le sue ceneri). Un saluto caro, beppe

Anonimo ha detto...

Molto bene Beppe, ci vediamo oggi alle 4. Antonio

Beppe Sebaste ha detto...

antonio d.v.? comunque sia, io non ci sarò, hélas...

Anonimo ha detto...

Proprio al Cimitero inglese pensavo, senza riferimenti a Gramsci e neppure a Corso. Sto rileggendo delle cose sul Garnd Tour, loro (i viaggiatori) ci avevano già dato un'identità nazionale, molto prima che noi ce ne accorgessimo. Certo che ce la farò a lasciare qui le mie ceneri... e dove altrimenti? Non ho più così tanto tempo per cambiare idea. Corna facendo.
Lucilla

Anonimo ha detto...

Molto letteraria, nel senso bello, cioè di verità. Mi piace e la con sentiamo insieme, visto che su fb si con divide tutto(Ma il consenso per amore non c'entri nulla coi *miconsenta* da trivio)
C'è sempre la tua storia, accidenti, che è vita-vita, racconto, storia ( e dopo un pò si chiama fiction..)
Maria Pia Q.

Beppe Sebaste ha detto...

grazie Maria Pia, che belle le tue parole... vita-vita che si chiama, "dopo", fiction... è perfetto :-)