8/30/2010

Appunti per Luciano Anceschi

Questi sono alcuni appunti ricostruiti a memoria dell'intervento che ho fatto a braccio ieri a Vetto d'Enza al mini-convegno Luciano Anceschi, manca la mia digressione sul concetto di "maestro", e le tre definizioni ("formatore di autodidatti" è quella che meglio lo riguarda). Ma il punto era sotttolineare come Anceschi non fosse (stato) un "critico", ma un filosofo.

Luciano Anceschi (1911-1995), già allievo di Antonio Banfi a Milano, fu professore di Estetica all’Università di Bologna, critico e studioso militante, promotore di tendenze, poetiche, studi e autori dal dopoguerra ad oggi. Fondatore della rivista il verri, scrisse studi importanti sul Barocco, sull’estetica di Kant, sulla poesia dell’Ottocento e del Novecento, e patrocinò i “novissimi” e l’avanguardia della poesia italiana dagli anni ’60. Anceschi, fu anche mio professore e maestro, relatore della mia tesi in Filosofia quando egli già era, come si dice, professore “emerito”, cioè fuori ruolo. E mi ha onorato del suo ascolto e attenzione anche dopo il mio ciclo di studi (l’ultimo ricordo che ho di lui è il suo sorriso mentre mi applaude con la moglie Maria, seduto in prima fila, a una lettura di “Ricercare” a Reggio Emilia). So d’altra parte di avere cominciato a scrivere e a voler scrivere leggendo avidamente il verri nella mia tarda adolescenza, ma questa è un’altra storia.

   Ciò che caratterizza la biografia filosofica di Anceschi, quasi la sua “missione”, è che il suo studio paziente, minuzioso, stimolante e ispirativo delle poetiche e delle opere (della poesia e dell’arte) si è sempre collocato all’interno di una sua riflessione sul nostro modo di vedere e percepire le opere della poesia e dell’arte, cioè all’interno di un’interrogazione incessante su che cosa significhi per noi “comprendere”, sul “nostro modo di servirci dell’idea di comprensione”. Da qui la sua proverbiale insistenza su un termine al tempo stesso operativo e paradigmatico come “metodo”, quasi sinonimo umile e artigianale di ciò che la parola “via” assume in contesti messianici e spirituali. “Metodo” fu per Anceschi non solo una nozione specifica all’indagine estetica, ma “via” ad una conoscenza che non separi saggezza e scienza, e che gli permetteva di soffermarsi sul “saggista” Montaigne come sull’anti-filosofo Feyerabend; o, come nel suo più celebre modo di dire, di fondere “un certo modo di leggere Valery con un certo modo di leggere Kant”.
   In un pubblico discorso in occasione del ricevimento a Bologna dell'Archiginnasio d’oro (1983), Anceschi spiegò come fu che in un’epoca drammatica della storia segnata da totalitarismi e barbarie, proprio partendo dalle strutture della poesia e dell’arte, si delineò per lui una via “per attraversare la rugosa realtà, un metodo flessibile (...) pronto a cogliere, sotto il caos, la disgregazione, le rovine, i primi segni del progetto di una ragione che vien rinascendo, con nuove e più aperte possibilità di aggregazione”, fino a “suggerire la possibilità di una fiducia in una umanità risarcita”. A parte questa intuizione importante su come la poesia possa vivere e proliferare di fronte all’orrore, egli sottolineò il concetto, centrale nella sua opera, di relazione, ovvero “una rete infinita e mobile di rapporti e di significati per cui le cose si fanno o si trasformano continuamente”. Privilegiare l’idea di relazione nel considerare i fenomeni estetici implica che “alla forma chiusa del sistema si sostituisce la forma aperta della sistematicità, al centro unico, definitivo, e assoluto si contrappone una centralità varia e mobilissima, uno spostarsi continuo del centro”. Questa è l’assoluta contemporaneità di Anceschi: ben prima della retorica della globalizzazione, egli sapeva che non esiste un centro, o meglio, qualsiasi punto può essere il centro.
   Si prenda l’ultima delle sue opere più ampie, Gli specchi della poesia (Einaudi 1989), dedicata ancora una volta all’articolare ogni singola visione parziale, ogni poetica, in un orizzonte ampio, elastico e ospitale.
   Nell’apparente e a tratti rassicurante semplicità delle formulazioni anceschiane (così nota ai suoi allievi), là dove la ricerca si apre autoriflessivamente su di sé, sulla propria “in-finità”, c’è un aspetto esoterico di cui sono spia certe locuzioni sul “modo arduo di pensare (e vivere) nel partecipare a una condizione instabile, oscura, piena di ostacoli, che pone alcune radicali difficoltà a cui la ricerca (se è veramente ricerca) non può sottrarsi, e non vuol sottrarsi”. E “non sarà certo il timore della follia a impedirci di proseguire in una indagine che riguarda aspetti meno frequentati o meno sollecitati, ma non meno profondi del campo oscuro e incantevole, difficile e sfuggente che diciamo l'immaginario”. C’è anche un’innegabile solitudine in questa “fenomenologia critica” (così venne chiamata), la stessa solitudine costitutiva del discorso di Montaigne. Rifiutarsi, come ha fatto Anceschi, alle teorie parziali, significa anche sottrarsi all’elaborazione di un lettore ideale, cioè medio, a quella figura ideologica di interlocutore con cui condividere a priori codici e valori, sempre parziali. Ogni volontà di comprensione, ha scritto Anceschi a proposito di Dewey, giunge a irrigidirsi, e lo mostra nel suo tono assertorio, definitivo e didattico, “spia evidente di una condizione limitante, il segno di un limite accettato”. Ma anche questo, il limite, non è solo un connotato negativo: “è il segno che indica il messaggio, il significato di un messaggio”. “Non conosco nessun punto di vista, in arte, che sia inferiore a un altro”, ripeteva con Mallarmé - “metodo” che travalica i confini della poesia per esemplificare la condizione umana.
   Accettare ogni significato come limite, e ogni limite come significato. Non è un insegnamento di poco conto.

3 commenti:

manginobrioches ha detto...

Bellissimo. Ogni tuo pezzo è una rete dove restano sempre pesci scintillanti, di cui possiamo nutrirci.
Il "formatore di autodidatti" ha lasciato bellissime cose in te, per noi.

Anonimo ha detto...

grazie, io invece sorrido sempre di beatitudine quando ti leggo. oggi, poi, con quel paradigma politico della passata di pomodoro (mi riferisco, per chi ci legge, a l'Unità di oggi, blog-rubrica di mangino brioches).
ciao, un abbraccio, beppe (da un treno)

Anonimo ha detto...

imparato molto