10/29/2008
Gli studenti hanno vinto
Il decreto Gelmini, o come diavolo si chiama, è legge. Ma gli studenti non hanno perso. Gli studenti hanno vinto. Sono loro che hanno ridato aria e vita a un'opposizione sfiatata. L'idea di raccogliere firme per un referendum abrogativo è ottima. Immagino in tutte le scuole e facoltà banchetti per la raccolta delle firme. Forse tutto questo ci voleva. Anzi, ne sono sicuro. Sembra di essere tornati nei primi anni '60 (io ero neonato, eppure li conosco bene) quando tutto doveva essere, per così dire, liberato. E quando, come oggi, i fascisti aggredivano gli studenti. Ma se questa destra si fa nemica dei giovani, se i giovani si svegliano dal torpore neutrale e dall'agio, l'energia ricomincia a scorrere. (Penso che non si dirà più, almeno spero, che tutti i politici sono uguali: questi provvedimenti li sta facendo un governo di destra, votato alle elezioni). E forse Berlusconi e il suo governo non ne imbroccano una: è di adesso la notizia che si vogliono criminalizzare anche i graffitari. Scrivere e disegnare sui muri sarà reato penale. Bene. Forse una nuova stagione comincia adesso. Comunque sia, gli studenti hanno vinto.
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10/28/2008
"Pubblica. Università". "La forza della cultura contro la nuova dittatura". Un pomeriggio sotto la pioggia davanti al Senato.
Mi sono infradiciato di pioggia, ma non riuscivo a scollarmi da lì. Da Piazza Madama, davanti al Senato, al di qua delle transenne che impedivano l'accesso a ragazzi e ragazze che ostinatamente sono restati lì a cantare, gridare frasi, con una gran bella energia. Ho salutato la figlia di un'amica, ci siamo parlati a una distanza di pochi metri, ma come il muro d Berlino, attraverso i poliziotti in tenuta antisommossa con elmetti e manganelli (ma tutto sommato tranquilli). Molti di loro sono di mezz'età: non vedono i loro figli? e gli altri, non riconoscono se stessi, o i loro fratelli? Alla Gelmini e i suoi non penso: mi ricordano i soldati di piazza Tienammen che massacrarono giovani e studenti, soldati scelti - nell'immensità territoriale della Cina - proprio perché parlavano un'altra lingua, non capivano quella degli studenti, quindi non c'era rischio che si capissero, che comunicassero. Ecco, lei, e quelli del governo sono cieci e sordi senza rimedio, ma per loro scelta.
Sono i pensieri "banali" che mi affioravano oggi, dopo aver passato con una certa apprensione il varco di camionette, furgoni e jeep, e una marea di carabinieri, polizia, guardie di finanza, tutti schierati a presidiare la zona sotto un cielo di piombo. Ho esibito la tessera di giornalista, sono passato, e in cuor mio camminando mi sono sentito un impostore (loro non sanno, mi sono detto, che sono anche un docente, un insegnante, uno che fa ricerca, ciò che basta e avanza per fare di me un facinoroso nemico del governo). Comunque sia, fa impressione la sproporzione tra le strade militarizzate e l'inerme generosità degli studenti che manifestano per il diritto di studiare e continuare a farlo, nient'altro. Gli slogan si alternano a musica, ora quella degli Eurythmics. Bella, chissà cos'è per i iceali la voce di Annie Lennox, dico sorridendo a una giornalista francese. Solo quando il corteo degli universitari - dalla Sapienza e da Roma Tre - si stava avvicinando - sospinto a piazza Navona, praticamente chiuso nella piazza - i poliziotti si sono messi gli elmetti azzurri. A fronteggiarli, a fronteggiare il Senato, già molto prima della discussione che dietro i finestroni accesi di Palazzo Madama sarebbe cominciata alle 17, i ragazzi delle scuole: "Siamo noi, siamo noi / il futuro siamo noi". Noi non paghiamo la vostra crisi", e sopratutto: "Non siamo / facinorosi", scandito col battito delle mani, "Non siamo / disinformati", idem. Già: disinformati sembrano essere (ma non lo sono) quelli che ancora non riescono a commuoversi, se non a dare ragione ai ragazzi. "Se vogliono studiare perché non vanno nelle aule?", blatera una che dice di essere del giornale "Libero". Scoraggiante. Vicino a me, un gruppo di poliziotti col manganello appeso alla cintura parla di soldi, si lamenta degli stipendi, uno dice che non c'ha una lira, l'altro che "siamo gestiti male". Non ho potuto fare a meno di udirli.
Saluto un'amica senatrice dell'opposizione, una che si è occupata a lungo di scuola. Cattolica di sinistra. Parliamo di cinismo. Tutti i deputati e senatori pensano ai loro interessi, a omaggiare il capo. No, non ci sarà nessuno scrupolo di coscienza ad affondare la scuola, l'università, la ricerca (solo di questa parlano gli slogan degli studenti). Troppo sudditio, e preoccupati del loro stipendio e benefici. E forse, aggiunge l'amica senatrice, questa potebbe anche essere l'ultima manifestazione, se tanto ci dà tanto. Il regime. Cosa gli impedirà di varare una legge che sopprime la libertà di manifestare? Ma dice anche un'altra cosa: che questa protesta è straordinaria, perché gli studenti che protestano stanno difendendo il loro Paese e il loro futuro con le loro esistenze, e la loro lotta è un fondamento della democrazia, ma anche di una nuova politica.
Quando a Piazza Navona arriva il corteo degli universitari, troneggia uno striscione con su scritto, su fondo rosso. "La forza della cultura / contro la nuova dittatura". E' bello. E ancora sto lì a pensare, con amarezza, che le cose sono molto chiare. Gli studenti gridano con energia soprattutto due parole: PUBBLICA / UNIVERSITA'. Non è così difficile da capire, né da sottoscrivere.
Sono fradicio d'acqua, continua a piovere a dirotto. Loro continuano a manifestare, stretti nel varco che conduce a Piazza Navona a fianco dell'ex mitico Caffé di Columbia, come continua la luce dietro le finestre di Palazzo Madama. Là dentro i tempi sono burocratici, i senatori della maggioranza non hanno nemmeno il tempo di argomentare la loro opposizione. Occorre fare in fretta, chiudere e votare domani, e chi se frega, è un decreto legge, mica una riforma. Fuori dal palazzo invece la vita pulsa, e sarò anche sentimentale ma qui ci sono esistenze consapevoli di quello per cui si battono, di quello che perdono. Poco prima, spot di tre senatori dell'Italia dei Valori, scesi a solidarizzare con gli studenti, c'erano solo i liceali, quelli che gridavano al ministro Gelmini, brandendo il proprio portafogli: "Vuoi anche questo? / Gelmini vuoi anche questo?". Il dalla Sapienza e Roma Tre doveva ancora arrivare. Ora sono qui, vogliono restarci a oltranza, tempo permettendo. Stanno gridando: "Se non cambierà / lotta dura sarà", e "Siamo tutti antifascisti", e ancora: "Pubblica / Università". Ok, fatemi uscire, lascio questa zona algida e protetta, lascio il Senato, i giornalisti e i poliziotti alle spalle, voglio andare al di là delle transenne, dove pure piove ma c'è calore, in fondo non ho mai smesso di essere uno studente, né intendo farlo.
Sono i pensieri "banali" che mi affioravano oggi, dopo aver passato con una certa apprensione il varco di camionette, furgoni e jeep, e una marea di carabinieri, polizia, guardie di finanza, tutti schierati a presidiare la zona sotto un cielo di piombo. Ho esibito la tessera di giornalista, sono passato, e in cuor mio camminando mi sono sentito un impostore (loro non sanno, mi sono detto, che sono anche un docente, un insegnante, uno che fa ricerca, ciò che basta e avanza per fare di me un facinoroso nemico del governo). Comunque sia, fa impressione la sproporzione tra le strade militarizzate e l'inerme generosità degli studenti che manifestano per il diritto di studiare e continuare a farlo, nient'altro. Gli slogan si alternano a musica, ora quella degli Eurythmics. Bella, chissà cos'è per i iceali la voce di Annie Lennox, dico sorridendo a una giornalista francese. Solo quando il corteo degli universitari - dalla Sapienza e da Roma Tre - si stava avvicinando - sospinto a piazza Navona, praticamente chiuso nella piazza - i poliziotti si sono messi gli elmetti azzurri. A fronteggiarli, a fronteggiare il Senato, già molto prima della discussione che dietro i finestroni accesi di Palazzo Madama sarebbe cominciata alle 17, i ragazzi delle scuole: "Siamo noi, siamo noi / il futuro siamo noi". Noi non paghiamo la vostra crisi", e sopratutto: "Non siamo / facinorosi", scandito col battito delle mani, "Non siamo / disinformati", idem. Già: disinformati sembrano essere (ma non lo sono) quelli che ancora non riescono a commuoversi, se non a dare ragione ai ragazzi. "Se vogliono studiare perché non vanno nelle aule?", blatera una che dice di essere del giornale "Libero". Scoraggiante. Vicino a me, un gruppo di poliziotti col manganello appeso alla cintura parla di soldi, si lamenta degli stipendi, uno dice che non c'ha una lira, l'altro che "siamo gestiti male". Non ho potuto fare a meno di udirli.
Saluto un'amica senatrice dell'opposizione, una che si è occupata a lungo di scuola. Cattolica di sinistra. Parliamo di cinismo. Tutti i deputati e senatori pensano ai loro interessi, a omaggiare il capo. No, non ci sarà nessuno scrupolo di coscienza ad affondare la scuola, l'università, la ricerca (solo di questa parlano gli slogan degli studenti). Troppo sudditio, e preoccupati del loro stipendio e benefici. E forse, aggiunge l'amica senatrice, questa potebbe anche essere l'ultima manifestazione, se tanto ci dà tanto. Il regime. Cosa gli impedirà di varare una legge che sopprime la libertà di manifestare? Ma dice anche un'altra cosa: che questa protesta è straordinaria, perché gli studenti che protestano stanno difendendo il loro Paese e il loro futuro con le loro esistenze, e la loro lotta è un fondamento della democrazia, ma anche di una nuova politica.
Quando a Piazza Navona arriva il corteo degli universitari, troneggia uno striscione con su scritto, su fondo rosso. "La forza della cultura / contro la nuova dittatura". E' bello. E ancora sto lì a pensare, con amarezza, che le cose sono molto chiare. Gli studenti gridano con energia soprattutto due parole: PUBBLICA / UNIVERSITA'. Non è così difficile da capire, né da sottoscrivere.
Sono fradicio d'acqua, continua a piovere a dirotto. Loro continuano a manifestare, stretti nel varco che conduce a Piazza Navona a fianco dell'ex mitico Caffé di Columbia, come continua la luce dietro le finestre di Palazzo Madama. Là dentro i tempi sono burocratici, i senatori della maggioranza non hanno nemmeno il tempo di argomentare la loro opposizione. Occorre fare in fretta, chiudere e votare domani, e chi se frega, è un decreto legge, mica una riforma. Fuori dal palazzo invece la vita pulsa, e sarò anche sentimentale ma qui ci sono esistenze consapevoli di quello per cui si battono, di quello che perdono. Poco prima, spot di tre senatori dell'Italia dei Valori, scesi a solidarizzare con gli studenti, c'erano solo i liceali, quelli che gridavano al ministro Gelmini, brandendo il proprio portafogli: "Vuoi anche questo? / Gelmini vuoi anche questo?". Il dalla Sapienza e Roma Tre doveva ancora arrivare. Ora sono qui, vogliono restarci a oltranza, tempo permettendo. Stanno gridando: "Se non cambierà / lotta dura sarà", e "Siamo tutti antifascisti", e ancora: "Pubblica / Università". Ok, fatemi uscire, lascio questa zona algida e protetta, lascio il Senato, i giornalisti e i poliziotti alle spalle, voglio andare al di là delle transenne, dove pure piove ma c'è calore, in fondo non ho mai smesso di essere uno studente, né intendo farlo.
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Giallo Parma e cielo azzurro
Oggi su l'Unità c'è una mia "memoria" delle Barricate di Parma (cronaca di una duplice esperienza, le testimonianze filmate di chi le Barricate le vide e le fece, e una "passeggiata" oggi negli stessi luoghi di quell'epica, dove le badanti e gli immigrati hanno oggi sostituito i proletari di un tempo). E, sempre su Parma, incollo qui una sorta di reportage gonzo, in realtà assa serio, uscito sull'ultimo Venerdì di Repubblica, la settimana scorsa. Quello che non avrei previsto era che il direttore del giornale locale intervistasse il prefetto di Parma sul mio pezzo (ne riporto alcune frasi nella mia replica). Buona lettura.
Giallo Parma
Cammino per Parma, la mia città in cui non abito più. Ho visitato la mostra del Correggio – la sua sensualità angelica e ammiccante - e contemplato da vicino, grazie alle impalcature, gli affreschi nelle cupole del Duomo e della chiesa di San Giovanni, quel giallo vorticoso che risucchia verso l’alto (che da bambino mi ricordava l’uovo all’occhio di bue). Poi sono andato nel parco periferico in cui è stato picchiato e sequestrato lo studente ghanese Emmanuel Bonsu da un gruppo di vigili in borghese: il giallo delle foglie, dei vialetti sabbiosi “stile Versailles”, dei muri dell’ex fabbrica Eridania, ora Auditorium firmato Renzo Piano. Giallo Parma, che confonde sacro e profano. Come la foto del cadavere del giovane Mario Lupo, accoltellato nel 1972 dai fascisti, pubblicata dalla Gazzetta di Parma per annunciare il libro del fotoreporter locale Giovanni Ferraguti. C’è poco spazio per la memoria dell’antifascismo, un tempo vivissimo, nella “città cantiere” dell’ex sindaco Ubaldi. Si respira ancora l’ideologia della modernizzazione, anche se la ristrutturazione permanente è nell’agenda dei costruttori. Una politica spettacolare e spregiudicata ha sfidato il buon senso nel progetto di una metropolitana (13 km, fermate ogni 700 metri, per una città di 170 mila abitanti che vanno tutti in bicicletta), e quello del ridicolo nei ponti faraonici alla Calatrava. All’inaugurazione di uno di essi, ha detto il rappresentante europeo: bel ponte, peccato manchi il fiume. A Parma c’è solo un omonimo torrente, quasi sempre in secca.
Seduto al caffé, sui giornali locali vedo rimbalzare gli stessi titoli. Processo Parmalat; condanne confermate per i complici del killer di Gianmario Roveraro, finanziere dell’Opus Dei (che salvò la Parmalat quotandola in borsa). Il killer, Filippo Botteri, giovane consulente finanziario, emblematico della Parma bene e del suo stile di vita, sembra uscito da un romanzo giallo del parmigiano Valerio Varesi, il più simenoniano degli scrittori italiani (il suo commissario ha il volto di Luca Barbareschi in tv). Leggo dell’operazione all’occhio di Emmanuel Bonsu (detto “negro”) dopo il pestaggio, e le testimonianze che inchiodano i vigili; leggo su "Polis Quotidiano" le dichiarazioni del comandante dei vigili urbani delle Terre Verdiane sul fattaccio di Parma: “da noi non sarebbe mai potuto accadere, è una questione di stile di comando”. Timida richiesta dell’opposizione di sinistra: dimissioni “temporanee” dell’assessore alla polizia municipale. Si mormora di una futura alleanza, o inciucio, tra il centrosinistra che governa ancora la Provincia e la “Civiltà parmigiana” di Ubaldi, sindaco di centrodestra per dieci anni e padrino un po’ deluso dell’attuale.
Leggo che la “Fiera del Lusso” (?) non si farà, se non in tribunale (guerra non chiarita di carte bollate) mentre apre la nota “Mercante in fiera”: era la mostra dell’antiquariato, ora si vende un po’ di tutto. Crisi del Parmigiano: i produttori incontrano il ministro leghista delle politiche agricole, ma il ministro non si fa vedere. L’universo concettual-pubblicitario dei parmigiani è a rischio implosione. I suoi simboli sono gadget onnipresenti, come l’icona di Verdi con barba e cilindro riproposta anche intorno al gazebo che oscura in parte la statua del Parmigianino, con totem di coppe e prosciutti hard core a sedurre i turisti, e gigantografie in polistirolo di Verdi a benedire. Quale il sacro, quale il profano? C’è il “Festival Verdi”, e sotto le volte del Municipio un’installazione apposita: due poltrone rosse simil Frau, brani registrati, grandi pannelli con fotografie de La Traviata e sibillini frammenti d’opera: “Tutto è follia nel mondo”, “Gioire di voluttà”, “Di quell’amor che è palpito”. Sembra di stare in una grande osteria all’aperto. Manca solo l’accento impastato, o l’ironia sublime della voce di Paolo Nori, altro scrittore esule parmigiano.
Alla manifestazione antirazzista, mentre in piazza parlavano i rappresentanti della comunità ghanese e il segretario della Cgil, gli altoparlanti coprivano le voci con la Traviata. Ma Parma non è razzista, lo scrive Alberto Bevilacqua, e tecnicamente forse è vero. Di certo è sazia e soddisfatta di sé, sprezzante verso i poveri e i diversi, incapace di guardarsi dal di fuori. Clinicamente si dice “narcisista”: un circuito chiuso e autoreferenziale che cerca conferma di sé, dunque insicura, come gli Italiani all’estero che cercano gli spaghetti ovunque. I parmigiani si sentono speciali, ma di speciale hanno solo questo sentimento, o presunzione, un darsi di gomito che racchiude chissà quale appartenenza. Simulacri e marketing, dall’austriaca Maria Luigia ad Arturo Toscanini che emigrò in America. Ne era spia il tic linguistico, “città dell’eccellenza”, sulle labbra dell’ex sindaco. Eccellenza di che? A Parma si allunga l’ombra della camorra, avvertiva Roberto Saviano su l’Espresso. Lo ha ripetuto il parmigiano di nascita Carlo Lucarelli a un incontro pubblico. Mi ha detto poi: “Parma è bellissima, ma deve riconoscere i suoi problemi: come altre città ricche del Nord è permeabile ai capitali della mafia. L’unico vero antidoto è la cultura, la socialità, la sua tradizione”. Tra i problemi, i fallimenti finanziari della Parmalat di Callisto Tanzi (“come una brutta storia di mafia”, ha detto il pubblico ministero Greco), della Guru di Matteo Cambi, cocainomane e bancarottiere, ditte che chiudono e casse integrazioni. Altri omicidi senza passione, che hanno riempito le cronache negli ultimi anni. Sullo sfondo, i tanti appalti della “città cantiere”, anche quelli che stravolgeranno il volto della storica piazza mercatale della Ghiaia, o del medievale Ospedale Vecchio, sede dell’Archivio di Stato, trasformato in albergo di lusso. Appalti spartiti dai soliti noti.
Molti ironizzano sulle ordinanze del sindaco Vignali, e la Carta sulla Sicurezza firmata proprio a Parma. Tolleranza zero contro chi va a puttane, chi butta le cicche per terra, chi mendica, bivacca, imbratta i muri, chi parla forte e disturba il quieto vivere, chi piscia per strada. C’entrano con la sicurezza e la paura della gente? Anche l’ex sindaco Ubaldi ha preso le distanze: “Abbiamo già tre polizie per la repressione del crimine. Metterci anche i vigili è sbagliato. Si sollecitano reazioni allarmate, si autorizzano isterie collettive”. Massimiliano Brunetti, cronista di "Polis Quotidiano", mi ricorda altri discussi comportamenti della polizia municipale, come lo sgombero di profughi sudanesi del Darfur da un’ex cartiera, gennaio 2005, tuttora ospitati da don Luciano Scaccaglia, parroco della Chiesa Santa Cristina, strenuo difensore dei non garantiti.
In tutto questo, Parma è un laboratorio italiano. Le trame opache del mondo finanziario, il consumismo estremo, l’infelicità inconsapevole tra ricchezze e luccichini, il senso di diffusa anestesia e indifferenza. Valerio Varesi, giornalista e romanziere, sospira: “Parma era un laboratorio sociale e libertario, ora lo è dei divieti. C’è stato un mutamento genetico? La sua storia è di una città da sempre contro le coercizioni, insofferente ai despoti - “popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli – dalle coltellate al Duca alle Barricate contro i fascisti di Balbo, e nei primi anni ’60 le lotte operaie”. Ricorda Mario Tommasini, l’assessore che con Basaglia aprì i manicomi e realizzò con Marco Bellocchio il film Matti da slegare, i brefotrofi svuotati, la creazione della fattoria di Vigheffio coi malati di mente. “La Parma di oggi è invece quella omertosa delle banche, questa sì un attentato alla sicurezza dei cittadini, della finanza virtuale, personaggi da Falò delle vanità di provincia, donne noleggiate e macchine sportive, la tv spazzatura che si fa carne. Quanto lontana da quelle solide basi contadine, i piedi ben piantati nelle zolle di terra, che costruì la ricchezza di Parma, quella delle industrie agroalimentari”. Come in Novecento di Bernardo Bertolucci, penso, dove il sacro e il profano potevano anche confondersi, ma non cancellarsi.
(uscito su Venerdì di Repubblica del 25 ottobre 2008)
"Parma è sana troppo clamore". "I parmigiani sono sconcertati la città dipinta dai media non è quella che conoscono". Questo il titolo della sconcertante intervista del direttore della Gazzetta di Parma al Prefetto Paolo Scarpis in reazione al mio articolo. Per replicare si è delegato il prefetto (a quando la critica stilistica e di genere al Ministero dell'Interno, con tanto di timbro che autorizza la pubblicazione?). Per dire che "Parma è diventata protagonista sui media per episodi che hanno avuto un clamore sicuramente sovradimensionato rispetto all'entità degli stessi", ha attaccato il sottoscritto. Questa la mia replica inviata ieri per e-mail alla Gazzetta di Parma:
"Leggo con comprensibile ritardo (dove abito la Gazzetta di Parma ahimè non si trova) un'intervista del direttore della Gazzetta al Prefetto di Parma, in cui si commenta un articolo di un non nominato scrittore su un non nominato magazine de la Repubblica. Il magazine è Venerdì, l'autore è Beppe Sebaste, il sottoscritto. Osservo solo questo: è una strana cosa chiedere a un prefetto, cui di solito ci si rivolge per avere dati su crimini e sicurezza, di esprimere un giudizio su stile e opportunità di un articolo che contiene a sua volta giudizi etico-estetici sulla città, nonché una certa nostalgia. Altrettanto strano è accettare di rispondere, e commentare ("argomenti triti", "spirito fazioso"), fino all'illazione e all'insinuazione ("a quanto so, è un parmigiano pieno di livore verso la sua città e non capisco perché"). E' uno stile che si commenta da sé. (Da parte mia girerò la lettera ai colleghi che sulla città si sono espressi nell'articolo in questione)".
Detto questo, spero che oggi non piova, almeno a roma, e che il cielo resti azzurro sopra le teste degli studenti che affolleranno la strada davanti al Senato in cui si discute del decreto Gelmini.
Giallo Parma
Cammino per Parma, la mia città in cui non abito più. Ho visitato la mostra del Correggio – la sua sensualità angelica e ammiccante - e contemplato da vicino, grazie alle impalcature, gli affreschi nelle cupole del Duomo e della chiesa di San Giovanni, quel giallo vorticoso che risucchia verso l’alto (che da bambino mi ricordava l’uovo all’occhio di bue). Poi sono andato nel parco periferico in cui è stato picchiato e sequestrato lo studente ghanese Emmanuel Bonsu da un gruppo di vigili in borghese: il giallo delle foglie, dei vialetti sabbiosi “stile Versailles”, dei muri dell’ex fabbrica Eridania, ora Auditorium firmato Renzo Piano. Giallo Parma, che confonde sacro e profano. Come la foto del cadavere del giovane Mario Lupo, accoltellato nel 1972 dai fascisti, pubblicata dalla Gazzetta di Parma per annunciare il libro del fotoreporter locale Giovanni Ferraguti. C’è poco spazio per la memoria dell’antifascismo, un tempo vivissimo, nella “città cantiere” dell’ex sindaco Ubaldi. Si respira ancora l’ideologia della modernizzazione, anche se la ristrutturazione permanente è nell’agenda dei costruttori. Una politica spettacolare e spregiudicata ha sfidato il buon senso nel progetto di una metropolitana (13 km, fermate ogni 700 metri, per una città di 170 mila abitanti che vanno tutti in bicicletta), e quello del ridicolo nei ponti faraonici alla Calatrava. All’inaugurazione di uno di essi, ha detto il rappresentante europeo: bel ponte, peccato manchi il fiume. A Parma c’è solo un omonimo torrente, quasi sempre in secca.
Seduto al caffé, sui giornali locali vedo rimbalzare gli stessi titoli. Processo Parmalat; condanne confermate per i complici del killer di Gianmario Roveraro, finanziere dell’Opus Dei (che salvò la Parmalat quotandola in borsa). Il killer, Filippo Botteri, giovane consulente finanziario, emblematico della Parma bene e del suo stile di vita, sembra uscito da un romanzo giallo del parmigiano Valerio Varesi, il più simenoniano degli scrittori italiani (il suo commissario ha il volto di Luca Barbareschi in tv). Leggo dell’operazione all’occhio di Emmanuel Bonsu (detto “negro”) dopo il pestaggio, e le testimonianze che inchiodano i vigili; leggo su "Polis Quotidiano" le dichiarazioni del comandante dei vigili urbani delle Terre Verdiane sul fattaccio di Parma: “da noi non sarebbe mai potuto accadere, è una questione di stile di comando”. Timida richiesta dell’opposizione di sinistra: dimissioni “temporanee” dell’assessore alla polizia municipale. Si mormora di una futura alleanza, o inciucio, tra il centrosinistra che governa ancora la Provincia e la “Civiltà parmigiana” di Ubaldi, sindaco di centrodestra per dieci anni e padrino un po’ deluso dell’attuale.
Leggo che la “Fiera del Lusso” (?) non si farà, se non in tribunale (guerra non chiarita di carte bollate) mentre apre la nota “Mercante in fiera”: era la mostra dell’antiquariato, ora si vende un po’ di tutto. Crisi del Parmigiano: i produttori incontrano il ministro leghista delle politiche agricole, ma il ministro non si fa vedere. L’universo concettual-pubblicitario dei parmigiani è a rischio implosione. I suoi simboli sono gadget onnipresenti, come l’icona di Verdi con barba e cilindro riproposta anche intorno al gazebo che oscura in parte la statua del Parmigianino, con totem di coppe e prosciutti hard core a sedurre i turisti, e gigantografie in polistirolo di Verdi a benedire. Quale il sacro, quale il profano? C’è il “Festival Verdi”, e sotto le volte del Municipio un’installazione apposita: due poltrone rosse simil Frau, brani registrati, grandi pannelli con fotografie de La Traviata e sibillini frammenti d’opera: “Tutto è follia nel mondo”, “Gioire di voluttà”, “Di quell’amor che è palpito”. Sembra di stare in una grande osteria all’aperto. Manca solo l’accento impastato, o l’ironia sublime della voce di Paolo Nori, altro scrittore esule parmigiano.
Alla manifestazione antirazzista, mentre in piazza parlavano i rappresentanti della comunità ghanese e il segretario della Cgil, gli altoparlanti coprivano le voci con la Traviata. Ma Parma non è razzista, lo scrive Alberto Bevilacqua, e tecnicamente forse è vero. Di certo è sazia e soddisfatta di sé, sprezzante verso i poveri e i diversi, incapace di guardarsi dal di fuori. Clinicamente si dice “narcisista”: un circuito chiuso e autoreferenziale che cerca conferma di sé, dunque insicura, come gli Italiani all’estero che cercano gli spaghetti ovunque. I parmigiani si sentono speciali, ma di speciale hanno solo questo sentimento, o presunzione, un darsi di gomito che racchiude chissà quale appartenenza. Simulacri e marketing, dall’austriaca Maria Luigia ad Arturo Toscanini che emigrò in America. Ne era spia il tic linguistico, “città dell’eccellenza”, sulle labbra dell’ex sindaco. Eccellenza di che? A Parma si allunga l’ombra della camorra, avvertiva Roberto Saviano su l’Espresso. Lo ha ripetuto il parmigiano di nascita Carlo Lucarelli a un incontro pubblico. Mi ha detto poi: “Parma è bellissima, ma deve riconoscere i suoi problemi: come altre città ricche del Nord è permeabile ai capitali della mafia. L’unico vero antidoto è la cultura, la socialità, la sua tradizione”. Tra i problemi, i fallimenti finanziari della Parmalat di Callisto Tanzi (“come una brutta storia di mafia”, ha detto il pubblico ministero Greco), della Guru di Matteo Cambi, cocainomane e bancarottiere, ditte che chiudono e casse integrazioni. Altri omicidi senza passione, che hanno riempito le cronache negli ultimi anni. Sullo sfondo, i tanti appalti della “città cantiere”, anche quelli che stravolgeranno il volto della storica piazza mercatale della Ghiaia, o del medievale Ospedale Vecchio, sede dell’Archivio di Stato, trasformato in albergo di lusso. Appalti spartiti dai soliti noti.
Molti ironizzano sulle ordinanze del sindaco Vignali, e la Carta sulla Sicurezza firmata proprio a Parma. Tolleranza zero contro chi va a puttane, chi butta le cicche per terra, chi mendica, bivacca, imbratta i muri, chi parla forte e disturba il quieto vivere, chi piscia per strada. C’entrano con la sicurezza e la paura della gente? Anche l’ex sindaco Ubaldi ha preso le distanze: “Abbiamo già tre polizie per la repressione del crimine. Metterci anche i vigili è sbagliato. Si sollecitano reazioni allarmate, si autorizzano isterie collettive”. Massimiliano Brunetti, cronista di "Polis Quotidiano", mi ricorda altri discussi comportamenti della polizia municipale, come lo sgombero di profughi sudanesi del Darfur da un’ex cartiera, gennaio 2005, tuttora ospitati da don Luciano Scaccaglia, parroco della Chiesa Santa Cristina, strenuo difensore dei non garantiti.
In tutto questo, Parma è un laboratorio italiano. Le trame opache del mondo finanziario, il consumismo estremo, l’infelicità inconsapevole tra ricchezze e luccichini, il senso di diffusa anestesia e indifferenza. Valerio Varesi, giornalista e romanziere, sospira: “Parma era un laboratorio sociale e libertario, ora lo è dei divieti. C’è stato un mutamento genetico? La sua storia è di una città da sempre contro le coercizioni, insofferente ai despoti - “popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli – dalle coltellate al Duca alle Barricate contro i fascisti di Balbo, e nei primi anni ’60 le lotte operaie”. Ricorda Mario Tommasini, l’assessore che con Basaglia aprì i manicomi e realizzò con Marco Bellocchio il film Matti da slegare, i brefotrofi svuotati, la creazione della fattoria di Vigheffio coi malati di mente. “La Parma di oggi è invece quella omertosa delle banche, questa sì un attentato alla sicurezza dei cittadini, della finanza virtuale, personaggi da Falò delle vanità di provincia, donne noleggiate e macchine sportive, la tv spazzatura che si fa carne. Quanto lontana da quelle solide basi contadine, i piedi ben piantati nelle zolle di terra, che costruì la ricchezza di Parma, quella delle industrie agroalimentari”. Come in Novecento di Bernardo Bertolucci, penso, dove il sacro e il profano potevano anche confondersi, ma non cancellarsi.
(uscito su Venerdì di Repubblica del 25 ottobre 2008)
"Parma è sana troppo clamore". "I parmigiani sono sconcertati la città dipinta dai media non è quella che conoscono". Questo il titolo della sconcertante intervista del direttore della Gazzetta di Parma al Prefetto Paolo Scarpis in reazione al mio articolo. Per replicare si è delegato il prefetto (a quando la critica stilistica e di genere al Ministero dell'Interno, con tanto di timbro che autorizza la pubblicazione?). Per dire che "Parma è diventata protagonista sui media per episodi che hanno avuto un clamore sicuramente sovradimensionato rispetto all'entità degli stessi", ha attaccato il sottoscritto. Questa la mia replica inviata ieri per e-mail alla Gazzetta di Parma:
"Leggo con comprensibile ritardo (dove abito la Gazzetta di Parma ahimè non si trova) un'intervista del direttore della Gazzetta al Prefetto di Parma, in cui si commenta un articolo di un non nominato scrittore su un non nominato magazine de la Repubblica. Il magazine è Venerdì, l'autore è Beppe Sebaste, il sottoscritto. Osservo solo questo: è una strana cosa chiedere a un prefetto, cui di solito ci si rivolge per avere dati su crimini e sicurezza, di esprimere un giudizio su stile e opportunità di un articolo che contiene a sua volta giudizi etico-estetici sulla città, nonché una certa nostalgia. Altrettanto strano è accettare di rispondere, e commentare ("argomenti triti", "spirito fazioso"), fino all'illazione e all'insinuazione ("a quanto so, è un parmigiano pieno di livore verso la sua città e non capisco perché"). E' uno stile che si commenta da sé. (Da parte mia girerò la lettera ai colleghi che sulla città si sono espressi nell'articolo in questione)".
Detto questo, spero che oggi non piova, almeno a roma, e che il cielo resti azzurro sopra le teste degli studenti che affolleranno la strada davanti al Senato in cui si discute del decreto Gelmini.
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10/26/2008
Einstein oggi sarebbe un precario o un fannullone (per Gelmini, Tremonti e Brunetta)
Incollo qui un mio breve pezzo uscito oggi (26 ottobre) su Repubblica:
Girare per Roma è una sorpresa continua, un percorso non a ostacoli, ma a eventi. Attraverso la bellissima Piazza di San Pietro in Vincoli, e noto uno striscione nuovo: "Fondazione privata? Ingegneria occupata!". Che si aggiunge al lungo elenco di università occupate. Ma non si pens che nel moltiplicarsi delle occupazioni, la didattica delle università sia bloccata. Al contrario si è trasferita nella città, fuori dagli steccati accademici. E’ pubblica, come il sapere che si vuole difendere. A Roma, come in molte altre città d’Italia, è in corso un grande democratico festival culturale, e le piazze sono teatro di lezioni en plen air. Una delle più emozionanti è stata sicuramente quella dei fisici della Sapienza, svoltasi a Piazza Montecitorio: un migliaio di studenti che ascoltano attenti la bella lezione del prof. Giovanni Jona-Lasinio, studioso di fisica delle particelle, che con l’altro grande fisico italiano Nicola Cabibbo, pioniere nello studio dei quark, è uno dei Nobel dimenticati e ‘scippati’. Segue la lezione di un altro grande fisico, Giorgio Parisi, docente di Calcolo delle Probabilità alla Sapienza. Parisi affascina percorrendo la maturazione delle idee di Einstein tra quantistica e relatività, ma entusiasma dichiarando che oggi, da questo governo, “Einstein sarebbe un precario, magari un fannullone che si sollazza nell’elaborare teorie invece di lavorare”. E invita gli studenti a “resistere a questo governo di barbari che sta distruggendo la nazione, e misconosce la Costituzione sulla promozione della ricerca scientifica, la libertà d’insegnamento e il diritto al lavoro”. La protesta è contro un economicismo miope che non sa valutare gli investimenti a lunga scadenza, e con essi l’educazione e la ricerca, una politica ispirata dal misconoscimento verso ciò che a torto è giudicato improduttivo, come l’educazione e la cultura. “Costringere i giovani che studiano con passione a cercare lavoro all’estero significa per l’Italia negarsi il futuro”, mi dice Parisi.
La facoltà di Fisica della Sapienza è un osservatorio privilegiato. Durante l’occupazione si è svolto il convegno internazionale su Edoardo Amaldi nel centenario della nascita. Amaldi, già del gruppo di via Panisperna, fondatore della fisica del dopoguerra e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), iniziatore dell’Agenzia Spaziale Europea e tra i primi direttori del CERN di Ginevra, è un po’ il maestro di tutti. All’apertura della conferenza gli studenti hanno letto un documento in inglese dove si ricorda come Edoardo Amaldi avesse sempre insistito nel considerare la ricerca un investimento pubblico necessario, non un onere; poiché senza ricerca non vi sarebbe sviluppo alcuno. Me lo racconta Carlo Bernardini, ex direttore del Dipartimento di Fisica del CNR, che con gli altri colleghi è stato commosso dalla pacatezza di quel testo. “E’ evidente – dice – che tagliare i fondi, aumentare le tasse, annientare l’università pubblica vuol dire uccidere la civiltà. Gli economisti che hanno ispirato il governo non capiscono che per un’università di qualità serve investire sulla ricerca. L’India e la Cina lo fanno, in futuro la scienza sarà cinese e indiana”.
Mi dice Nicola Cabibbo, già presidente dell’Istituto di Fisica Nucleare, ora dell’Accademia Pontificia: “Siamo molto preoccupati di fronte a questi tagli indiscriminati. Forse alcuni rami degli studi universitari si potrebbero ridimensionare, ma non è questo il criterio che vedo in essere. Ma tutti gli istituti di fisica sono minacciati, pur producendo eccellenze a livello mondiale. Il dipartimento della Sapienza è di altissimo valore, gli studenti lo sanno, e da questa consapevolezza nasce la protesta, totalmente condivisibile”. Studenti e docenti hanno in cantiere altre lezioni esterne e domenica un incontro con le scuole primarie, una sorta di didattica ludica della fisica con esperimenti sull’elettromagnetismo e sul pendolo, seguita da una discussione sul decreto Gelmini.
“La cultura è una sola”, mi dice Gianluca Trentadue, docente di Fisica teorica all’università di Parma, da molti anni collaboratore coi colleghi romani al CERN di Ginevra, alla realizzazione dell’HLC (“Large Hadron Collider”), il nuovo grande acceleratore appena inaugurato alla presenza di tutti i ministri i cui governi partecipano alla ricerca, tranne il ministro Gelmini. “Colpire con tagli e disprezzo una parte di essa, vuol dire colpire tutta la cultura”. “Già oggi – aggiunge - spendiamo in ricerca meno della metà di altri paesi europei. Tagliare ancora i fondi significa azzerare la presenza italiana in tanti laboratori internazionali”. Mi parla della straordinaria impresa culturale e tecnologica rappresentata dal nuovo acceleratore LHC, a cui partecipano centinaia di ricercatori italiani, giovani e precari: un’avventura che ci porterà al di là dei confini del mondo conosciuto, come se a un astronomo dessero un telescopio dieci o cento volte più potente. Se si considera che perfino il CERN, nell’era della cosiddetta economia della conoscenza, è considerato “inutile” da ambenti governativi, si ha la misura della distanza.
Girare per Roma è una sorpresa continua, un percorso non a ostacoli, ma a eventi. Attraverso la bellissima Piazza di San Pietro in Vincoli, e noto uno striscione nuovo: "Fondazione privata? Ingegneria occupata!". Che si aggiunge al lungo elenco di università occupate. Ma non si pens che nel moltiplicarsi delle occupazioni, la didattica delle università sia bloccata. Al contrario si è trasferita nella città, fuori dagli steccati accademici. E’ pubblica, come il sapere che si vuole difendere. A Roma, come in molte altre città d’Italia, è in corso un grande democratico festival culturale, e le piazze sono teatro di lezioni en plen air. Una delle più emozionanti è stata sicuramente quella dei fisici della Sapienza, svoltasi a Piazza Montecitorio: un migliaio di studenti che ascoltano attenti la bella lezione del prof. Giovanni Jona-Lasinio, studioso di fisica delle particelle, che con l’altro grande fisico italiano Nicola Cabibbo, pioniere nello studio dei quark, è uno dei Nobel dimenticati e ‘scippati’. Segue la lezione di un altro grande fisico, Giorgio Parisi, docente di Calcolo delle Probabilità alla Sapienza. Parisi affascina percorrendo la maturazione delle idee di Einstein tra quantistica e relatività, ma entusiasma dichiarando che oggi, da questo governo, “Einstein sarebbe un precario, magari un fannullone che si sollazza nell’elaborare teorie invece di lavorare”. E invita gli studenti a “resistere a questo governo di barbari che sta distruggendo la nazione, e misconosce la Costituzione sulla promozione della ricerca scientifica, la libertà d’insegnamento e il diritto al lavoro”. La protesta è contro un economicismo miope che non sa valutare gli investimenti a lunga scadenza, e con essi l’educazione e la ricerca, una politica ispirata dal misconoscimento verso ciò che a torto è giudicato improduttivo, come l’educazione e la cultura. “Costringere i giovani che studiano con passione a cercare lavoro all’estero significa per l’Italia negarsi il futuro”, mi dice Parisi.
La facoltà di Fisica della Sapienza è un osservatorio privilegiato. Durante l’occupazione si è svolto il convegno internazionale su Edoardo Amaldi nel centenario della nascita. Amaldi, già del gruppo di via Panisperna, fondatore della fisica del dopoguerra e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), iniziatore dell’Agenzia Spaziale Europea e tra i primi direttori del CERN di Ginevra, è un po’ il maestro di tutti. All’apertura della conferenza gli studenti hanno letto un documento in inglese dove si ricorda come Edoardo Amaldi avesse sempre insistito nel considerare la ricerca un investimento pubblico necessario, non un onere; poiché senza ricerca non vi sarebbe sviluppo alcuno. Me lo racconta Carlo Bernardini, ex direttore del Dipartimento di Fisica del CNR, che con gli altri colleghi è stato commosso dalla pacatezza di quel testo. “E’ evidente – dice – che tagliare i fondi, aumentare le tasse, annientare l’università pubblica vuol dire uccidere la civiltà. Gli economisti che hanno ispirato il governo non capiscono che per un’università di qualità serve investire sulla ricerca. L’India e la Cina lo fanno, in futuro la scienza sarà cinese e indiana”.
Mi dice Nicola Cabibbo, già presidente dell’Istituto di Fisica Nucleare, ora dell’Accademia Pontificia: “Siamo molto preoccupati di fronte a questi tagli indiscriminati. Forse alcuni rami degli studi universitari si potrebbero ridimensionare, ma non è questo il criterio che vedo in essere. Ma tutti gli istituti di fisica sono minacciati, pur producendo eccellenze a livello mondiale. Il dipartimento della Sapienza è di altissimo valore, gli studenti lo sanno, e da questa consapevolezza nasce la protesta, totalmente condivisibile”. Studenti e docenti hanno in cantiere altre lezioni esterne e domenica un incontro con le scuole primarie, una sorta di didattica ludica della fisica con esperimenti sull’elettromagnetismo e sul pendolo, seguita da una discussione sul decreto Gelmini.
“La cultura è una sola”, mi dice Gianluca Trentadue, docente di Fisica teorica all’università di Parma, da molti anni collaboratore coi colleghi romani al CERN di Ginevra, alla realizzazione dell’HLC (“Large Hadron Collider”), il nuovo grande acceleratore appena inaugurato alla presenza di tutti i ministri i cui governi partecipano alla ricerca, tranne il ministro Gelmini. “Colpire con tagli e disprezzo una parte di essa, vuol dire colpire tutta la cultura”. “Già oggi – aggiunge - spendiamo in ricerca meno della metà di altri paesi europei. Tagliare ancora i fondi significa azzerare la presenza italiana in tanti laboratori internazionali”. Mi parla della straordinaria impresa culturale e tecnologica rappresentata dal nuovo acceleratore LHC, a cui partecipano centinaia di ricercatori italiani, giovani e precari: un’avventura che ci porterà al di là dei confini del mondo conosciuto, come se a un astronomo dessero un telescopio dieci o cento volte più potente. Se si considera che perfino il CERN, nell’era della cosiddetta economia della conoscenza, è considerato “inutile” da ambenti governativi, si ha la misura della distanza.
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10/24/2008
Appello contro la guerra all'intelligenza (o: La lezione degli studenti)
Volentieri offro in lettura questo mio articolo che vuole essere un appello, uscito oggi 24 ottobre su l'Unità col titolo "La lezione degli studenti".
Chi si trovasse in questi giorni nelle scuole e nelle università, occupate e variamente animate dalle proteste di studenti e docenti, incontrerebbe persone che incarnano, in spirito e lettera, la vocazione dello studio e del sapere. Studenti e docenti difendono la dignità e l’autonomia della conoscenza dalla semplificazione, leggi distruzione, di una politica finanziaria cieca al futuro. Lezioni all’aperto, apertura delle cittadelle accademiche alla città di tutti: chi protesta non ha nulla da nascondere, anzi. Sono privi di ideologia, ma molto consapevoli: “E’ la politica che si è allontanata da noi. Noi facciamo la vera politica”, mi hanno detto. Ma alla notizia che il primo ministro ha minacciato di sgomberare con la polizia, cioè introducendo violenza, le scuole e le università teatro di questa civile protesta e sperimentazione, una studentessa della Sapienza di Roma è allibita: “Vogliono trattarci coma la spazzatura di Napoli”. Pare di sì: cioè non solo non dialogare, non riconoscere i contenuti di una protesta che è difesa dell’istruzione e del diritto allo studio, ma rimuovere il problema, eventualmente nasconderlo, come la famosa spazzatura di Napoli. E non importa che fermenti chissà cosa e chissà quando. Il disprezzo verso la conoscenza e l’istruzione, verso scuole e università, è del tutto congruente a quello verso il clima, l’ambiente, il protocollo di Kyoto, l’ecologia e la salute pubblica. Il nostro primo ministro è un vero punk: a lui del futuro – dei giovani come del pianeta – non importa nulla. Ma scopo primario di questo mio intervento è richiamare una solidarietà attiva e ampia di quanti – soprattutto nel mondo della cultura - hanno a cuore la posta in gioco di questa protesta che riguarda tutti.
Molti studenti di oggi dichiarano che il loro modello di lotta è la protesta che dilagò in Francia del 2006 contro un disegno di legge che autorizzava per i primi due anni il licenziamento senza motivo dei giovani neo-assunti. Gli studenti vinsero (la legge fu ritirata) grazie all’appoggio del mondo del lavoro e della maggioranza dell’opinione pubblica. A parte che i contenuti della legge 133 (la finanziaria) e della “riforma Gelmini” (che non è altro che un taglio massiccio di fondi) sono molto più gravi (oltre ad aumentare a dismisura disoccupazione e precarizzazione, fanno tabula rasa degli orizzonti e del senso stesso dello studio), chiamo la protesta degli studenti una risposta alla “guerra contro l’intelligenza”, ricordando un appello nato anch’esso in Francia, ma nel 2004. All’epoca, un progetto legislativo del governo Raffarin, dal sapore vagamente berlusconiano, umiliava quelle professioni non valutabili secondo i criteri e gli utili (peraltro errati e miopi) di un’azienda – dalle scuole e università ai laboratori scientifici, dai centri di ricerca alle biblioteche, ma anche gli ospedali psichiatrici, i teatri ecc. Tutti i settori del sapere, della scienza, del legame sociale, produttivi di conoscenza, di coscienza e di dibattito pubblico, insorgevano contro l’anti-intellettualismo di Stato, una politica di impoverimento e precarizzazione di tutti gli spazi considerati come improduttivi a breve termine, inutili o dissidenti. L’appello “contro la guerra all’intelligenza” in pochi giorni fu firmato da migliaia e migliaia di cittadini, compresi i più alti rappresentanti in Francia della cultura e dell’arte.
Nelle parole del filosofo Jacques Derrida, che fu tra i primi ad aderire, per “guerra contro l’intelligenza” si intende “una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, perfino dal risentimento, verso tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope; quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, a società civile, lo Stato e anche l’economia”. C’è bisogno di dire che l’Italia di oggi è ben più minacciata della Francia di quattro anni fa?
Contro il presunto neutrale “buon senso” economico, la protesta degli studenti è una lotta per la salvaguardia di tutti quei luoghi in cui la società si pensa, si elabora, si sogna, si inventa, si cura, si giudica, si protegge, e tra i quali non c’è (solo) il Bagaglino, o le discoteche in cui il settantenne primo ministro italiano si mostra in camicia nera e parla di sesso e insonnia con giovani bramosi di successo e intossicati di ricchezza. Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione – che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria più volte in questi anni denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce, svuotando di senso il concetto e la realtà di una Re-pubblica. Il costo umano, sociale e culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere irreversibili.
Chi si trovasse in questi giorni nelle scuole e nelle università, occupate e variamente animate dalle proteste di studenti e docenti, incontrerebbe persone che incarnano, in spirito e lettera, la vocazione dello studio e del sapere. Studenti e docenti difendono la dignità e l’autonomia della conoscenza dalla semplificazione, leggi distruzione, di una politica finanziaria cieca al futuro. Lezioni all’aperto, apertura delle cittadelle accademiche alla città di tutti: chi protesta non ha nulla da nascondere, anzi. Sono privi di ideologia, ma molto consapevoli: “E’ la politica che si è allontanata da noi. Noi facciamo la vera politica”, mi hanno detto. Ma alla notizia che il primo ministro ha minacciato di sgomberare con la polizia, cioè introducendo violenza, le scuole e le università teatro di questa civile protesta e sperimentazione, una studentessa della Sapienza di Roma è allibita: “Vogliono trattarci coma la spazzatura di Napoli”. Pare di sì: cioè non solo non dialogare, non riconoscere i contenuti di una protesta che è difesa dell’istruzione e del diritto allo studio, ma rimuovere il problema, eventualmente nasconderlo, come la famosa spazzatura di Napoli. E non importa che fermenti chissà cosa e chissà quando. Il disprezzo verso la conoscenza e l’istruzione, verso scuole e università, è del tutto congruente a quello verso il clima, l’ambiente, il protocollo di Kyoto, l’ecologia e la salute pubblica. Il nostro primo ministro è un vero punk: a lui del futuro – dei giovani come del pianeta – non importa nulla. Ma scopo primario di questo mio intervento è richiamare una solidarietà attiva e ampia di quanti – soprattutto nel mondo della cultura - hanno a cuore la posta in gioco di questa protesta che riguarda tutti.
Molti studenti di oggi dichiarano che il loro modello di lotta è la protesta che dilagò in Francia del 2006 contro un disegno di legge che autorizzava per i primi due anni il licenziamento senza motivo dei giovani neo-assunti. Gli studenti vinsero (la legge fu ritirata) grazie all’appoggio del mondo del lavoro e della maggioranza dell’opinione pubblica. A parte che i contenuti della legge 133 (la finanziaria) e della “riforma Gelmini” (che non è altro che un taglio massiccio di fondi) sono molto più gravi (oltre ad aumentare a dismisura disoccupazione e precarizzazione, fanno tabula rasa degli orizzonti e del senso stesso dello studio), chiamo la protesta degli studenti una risposta alla “guerra contro l’intelligenza”, ricordando un appello nato anch’esso in Francia, ma nel 2004. All’epoca, un progetto legislativo del governo Raffarin, dal sapore vagamente berlusconiano, umiliava quelle professioni non valutabili secondo i criteri e gli utili (peraltro errati e miopi) di un’azienda – dalle scuole e università ai laboratori scientifici, dai centri di ricerca alle biblioteche, ma anche gli ospedali psichiatrici, i teatri ecc. Tutti i settori del sapere, della scienza, del legame sociale, produttivi di conoscenza, di coscienza e di dibattito pubblico, insorgevano contro l’anti-intellettualismo di Stato, una politica di impoverimento e precarizzazione di tutti gli spazi considerati come improduttivi a breve termine, inutili o dissidenti. L’appello “contro la guerra all’intelligenza” in pochi giorni fu firmato da migliaia e migliaia di cittadini, compresi i più alti rappresentanti in Francia della cultura e dell’arte.
Nelle parole del filosofo Jacques Derrida, che fu tra i primi ad aderire, per “guerra contro l’intelligenza” si intende “una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, perfino dal risentimento, verso tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope; quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, a società civile, lo Stato e anche l’economia”. C’è bisogno di dire che l’Italia di oggi è ben più minacciata della Francia di quattro anni fa?
Contro il presunto neutrale “buon senso” economico, la protesta degli studenti è una lotta per la salvaguardia di tutti quei luoghi in cui la società si pensa, si elabora, si sogna, si inventa, si cura, si giudica, si protegge, e tra i quali non c’è (solo) il Bagaglino, o le discoteche in cui il settantenne primo ministro italiano si mostra in camicia nera e parla di sesso e insonnia con giovani bramosi di successo e intossicati di ricchezza. Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione – che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria più volte in questi anni denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce, svuotando di senso il concetto e la realtà di una Re-pubblica. Il costo umano, sociale e culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere irreversibili.
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10/22/2008
"Io non ho paura" (una notte alla Sapienza occupata)
Sì, ho passato un pezzo di notte, ieri, alla Sapienza, università di Roma 1. Oggi leggo le frasi agghiaccianti del primo ministro, che invocano sgomberi e polizia. Domani esce questo mio prudente resoconto su la Repubblica (edizione romana, che mi ha chiesto ieri, appunto, di andarci). Ma sulla questione vorrei esprimermi ancora, spero molto presto su l'Unità. Invito tutti a farlo. C'è bisogno di una grandissima solidarietà attiva. A me viene in mente come precedente un appello, "Contro la guerra all'intelligenza", a cui qualche anno fa in Francia aderirono in una settimana centomila persone, tra cui i nomi più noti della cultura. Lottare contro la Legge 133 (la legge Gelmini-Tremonti che affossa scuole e università) è una lotta di civiltà. Intanto, vi anticipo questa piccola cronaca.
“Esplode l’indignazione / Noi la crisi non la paghiamo / Non fermerete i nostri desideri”, è scritto su un cartello all’ingresso della facoltà di Lettere della Sapienza. L’ho visto martedì, prima notte di occupazione. Guardo i bei volti di tante ragazze e ragazzi, l’eccitazione avvolta in una coltre di compostezza che mi colpisce, così come colpisce l’assenza di richiami ideologici. Ma “è la politica che si è allontanata da noi. Noi facciamo politica vera, i politici no”, mi dice Andrea, studente di Filosofia. E’ un “caos calmo”, bella formula dell’amico Sandro Veronesi. Che vuol dire intensità, e un misto di sentimenti: la consapevolezza della gravità storica, del rischio di insensatezza degli studi (e quindi della vita), e una speranza comunque di cambiamento, di incidere sulle cose, insomma sulla vita. E’ un occupazione costruttiva, che cerca la solidarietà dei docenti. Delusa invece dal neo rettore, di cui si ricordano le promesse a salvaguardia dell’università fatte in campagna elettorale.
“Siamo il contrario dei fannulloni”, dice Luca, terzo anno di Lettere. “Vogliamo studiare, vogliamo fare lezioni nelle piazze, all’aperto, anche notturne”. Un’università fuori orario. Alcuni professori hanno già dato la loro disponibilità. “Ma come si può continuare a studiare senza prospettive?”– si chiede Sabrina che studia Antropologia. “Già paghiamo di tasca nostra le ricerche sul campo per la Tesi. Io volevo fare ricerca. Ma che senso può avere per me ora, se i ricercatori stessi saranno di fatto aboliti?” “Tra poco mi laureo”, continua Luca, “non lotto per me, ma per la collettività, anche se l’assenza di futuro mi riguarda. Studio e lavoro in un centro commerciale come precario”. Spiegano che dall’aziendalizzazione di scuole e università, contro cui si protestava in passato (“Non siamo in vendita” era lo slogan), si passa alla privatizzazione vera e propria dei corsi di studio, o alla loro sparizione. La legge 133, cioè la finanziaria, contiene tre punti contro cui si incentra la protesta. Me li riepiloga un dottorando di ricerca: uno, il radicale taglio ai finanziamenti ordinari alle università - agli antipodi della retorica degli investimenti sulla formazione, i giovani, il sapere; due, l’interruzione del turn over, che permetteva ad esempio di assumere un precario per ogni due pensionamenti (ora ce ne vorranno cinque); tre, la trasformazione delle università in Fondazioni, che si suppone saranno in grado di aumentare e tasse e raccogliere al tempo stesso finanziamenti privati, che ovviamente orienteranno nella sostanza gli studi. Per questo, anche se le facoltà occupate sono quattro - Fisica, Chimica, Scienze politiche, Lettere - è in queste ultime che scelgo di fermarmi. Non solo perché mi identifico nella scelta degli studi umanistici, ma per sondare gli orizzonti dei coraggiosi o scriteriati che li scelgono oggi. Sono il maggior bersaglio di una politica finanziaria così miope da giudicare inutile il sapere.
Un’ultima assemblea per fare il punto, prima del riposo. Nell’aula-anfiteatro passa qualche birra. Quelli seduti alla cattedra sono i più stanchi. Parlano di “una grande situazione”, di “mobilitazione permanente”. “Siamo in tanti”. Ma occorre comunicare bene la protesta agli studenti che verranno al mattino: li accoglieranno con volantini e cornetti. Un’aula al pianoterra sarà l’info-point. Vogliono “far dilagare la mobilitazione”, trasformare le lezioni in assemblee”. Il taglio a scuole e università, dicono, è parte dello smantellamento di tutto ciò che è pubblico.
Il modello è la protesta che dilagò in Francia nel 2006 contro un progetto di legge del governo de Villepin. Determinante per la vittoria degli studenti fu la solidarietà del mondo del lavoro e dell’opinione pubblica. “Occorre dialogare con la città, coinvolgerla, uscire dalla cittadella accademica”, insiste Sara, mia guida tra le aule di Scienze politiche. E’ piena di energia. “Noi non difendiamo lo status quo, sia chiaro, volevamo una ristrutturazione, un rinnovamento dell’università, non la sua demolizione. Altro che investire, ora non vogliono neanche più farci esistere. Non so se l’anno prossimo saprò pagare le tasse, o se i miei studi saranno pilotati da un’azienda farmaceutica o un istituto privato che mi dirà cosa studiare”. L’università che si vorrebbe è uno spazio con maggiore socialità e più ore di apertura. Con l’occupazione è aperta 24 ore su 24, dicono con orgoglio. Quello che è certo, pensavo l’altra notte seduto su un muretto di fronte allo scalone e alle colonne bianche del Rettorato, quasi metafisiche nell’illuminazione notturna, è che un’università aperta la notte, abitata dagli studenti, è molto più bella di un’università disabitata e chiusa.
Guardavo gli studenti parlare, camminare, animare questo luogo che per una volta era un campus, e per una volta meritava il suo nome, “la Sapienza”. Da qualche parte sullo scalone trillava perfino un grillo superstite in questa fine d’ottobre, come rallegrato dall’atmosfera. Dalle aule di Lettere veniva ancora luce e musica. Sarà per il grillo festoso, sarà perché molti sono studenti di Lettere, mi veniva in mente Il gelsomino notturno, la sensuale poesia sulla fecondità di Pascoli. Da tanta calma eccitazione qualcosa ha da nascere, pensavo. Certo non prevedevo il brusco risveglio delle dichiarazioni l’indomani del primo ministro: “Manderemo la polizia”. Ho parlato con alcuni degli studenti allibiti: “Vogliono spazzarci via come la spazzatura di Napoli?”, ha detto una. “Noi non siamo violenti, violenta è la legge Gelmini-Tremonti”. Ma la risposta collettiva, la parola d’ordine, è come il titolo del libro di un altro noto scrittore. “Io non ho paura”. Mentre scrivo, la protesta non si ferma. Dilaga.
“Esplode l’indignazione / Noi la crisi non la paghiamo / Non fermerete i nostri desideri”, è scritto su un cartello all’ingresso della facoltà di Lettere della Sapienza. L’ho visto martedì, prima notte di occupazione. Guardo i bei volti di tante ragazze e ragazzi, l’eccitazione avvolta in una coltre di compostezza che mi colpisce, così come colpisce l’assenza di richiami ideologici. Ma “è la politica che si è allontanata da noi. Noi facciamo politica vera, i politici no”, mi dice Andrea, studente di Filosofia. E’ un “caos calmo”, bella formula dell’amico Sandro Veronesi. Che vuol dire intensità, e un misto di sentimenti: la consapevolezza della gravità storica, del rischio di insensatezza degli studi (e quindi della vita), e una speranza comunque di cambiamento, di incidere sulle cose, insomma sulla vita. E’ un occupazione costruttiva, che cerca la solidarietà dei docenti. Delusa invece dal neo rettore, di cui si ricordano le promesse a salvaguardia dell’università fatte in campagna elettorale.
“Siamo il contrario dei fannulloni”, dice Luca, terzo anno di Lettere. “Vogliamo studiare, vogliamo fare lezioni nelle piazze, all’aperto, anche notturne”. Un’università fuori orario. Alcuni professori hanno già dato la loro disponibilità. “Ma come si può continuare a studiare senza prospettive?”– si chiede Sabrina che studia Antropologia. “Già paghiamo di tasca nostra le ricerche sul campo per la Tesi. Io volevo fare ricerca. Ma che senso può avere per me ora, se i ricercatori stessi saranno di fatto aboliti?” “Tra poco mi laureo”, continua Luca, “non lotto per me, ma per la collettività, anche se l’assenza di futuro mi riguarda. Studio e lavoro in un centro commerciale come precario”. Spiegano che dall’aziendalizzazione di scuole e università, contro cui si protestava in passato (“Non siamo in vendita” era lo slogan), si passa alla privatizzazione vera e propria dei corsi di studio, o alla loro sparizione. La legge 133, cioè la finanziaria, contiene tre punti contro cui si incentra la protesta. Me li riepiloga un dottorando di ricerca: uno, il radicale taglio ai finanziamenti ordinari alle università - agli antipodi della retorica degli investimenti sulla formazione, i giovani, il sapere; due, l’interruzione del turn over, che permetteva ad esempio di assumere un precario per ogni due pensionamenti (ora ce ne vorranno cinque); tre, la trasformazione delle università in Fondazioni, che si suppone saranno in grado di aumentare e tasse e raccogliere al tempo stesso finanziamenti privati, che ovviamente orienteranno nella sostanza gli studi. Per questo, anche se le facoltà occupate sono quattro - Fisica, Chimica, Scienze politiche, Lettere - è in queste ultime che scelgo di fermarmi. Non solo perché mi identifico nella scelta degli studi umanistici, ma per sondare gli orizzonti dei coraggiosi o scriteriati che li scelgono oggi. Sono il maggior bersaglio di una politica finanziaria così miope da giudicare inutile il sapere.
Un’ultima assemblea per fare il punto, prima del riposo. Nell’aula-anfiteatro passa qualche birra. Quelli seduti alla cattedra sono i più stanchi. Parlano di “una grande situazione”, di “mobilitazione permanente”. “Siamo in tanti”. Ma occorre comunicare bene la protesta agli studenti che verranno al mattino: li accoglieranno con volantini e cornetti. Un’aula al pianoterra sarà l’info-point. Vogliono “far dilagare la mobilitazione”, trasformare le lezioni in assemblee”. Il taglio a scuole e università, dicono, è parte dello smantellamento di tutto ciò che è pubblico.
Il modello è la protesta che dilagò in Francia nel 2006 contro un progetto di legge del governo de Villepin. Determinante per la vittoria degli studenti fu la solidarietà del mondo del lavoro e dell’opinione pubblica. “Occorre dialogare con la città, coinvolgerla, uscire dalla cittadella accademica”, insiste Sara, mia guida tra le aule di Scienze politiche. E’ piena di energia. “Noi non difendiamo lo status quo, sia chiaro, volevamo una ristrutturazione, un rinnovamento dell’università, non la sua demolizione. Altro che investire, ora non vogliono neanche più farci esistere. Non so se l’anno prossimo saprò pagare le tasse, o se i miei studi saranno pilotati da un’azienda farmaceutica o un istituto privato che mi dirà cosa studiare”. L’università che si vorrebbe è uno spazio con maggiore socialità e più ore di apertura. Con l’occupazione è aperta 24 ore su 24, dicono con orgoglio. Quello che è certo, pensavo l’altra notte seduto su un muretto di fronte allo scalone e alle colonne bianche del Rettorato, quasi metafisiche nell’illuminazione notturna, è che un’università aperta la notte, abitata dagli studenti, è molto più bella di un’università disabitata e chiusa.
Guardavo gli studenti parlare, camminare, animare questo luogo che per una volta era un campus, e per una volta meritava il suo nome, “la Sapienza”. Da qualche parte sullo scalone trillava perfino un grillo superstite in questa fine d’ottobre, come rallegrato dall’atmosfera. Dalle aule di Lettere veniva ancora luce e musica. Sarà per il grillo festoso, sarà perché molti sono studenti di Lettere, mi veniva in mente Il gelsomino notturno, la sensuale poesia sulla fecondità di Pascoli. Da tanta calma eccitazione qualcosa ha da nascere, pensavo. Certo non prevedevo il brusco risveglio delle dichiarazioni l’indomani del primo ministro: “Manderemo la polizia”. Ho parlato con alcuni degli studenti allibiti: “Vogliono spazzarci via come la spazzatura di Napoli?”, ha detto una. “Noi non siamo violenti, violenta è la legge Gelmini-Tremonti”. Ma la risposta collettiva, la parola d’ordine, è come il titolo del libro di un altro noto scrittore. “Io non ho paura”. Mentre scrivo, la protesta non si ferma. Dilaga.
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10/17/2008
Spettri e denaro
Si parla e si è parlato molto di soldi, di valore, di crisi economico-finanziaria. Perfino il Papa, che non paga l'Ici sugli immobili, che percepisce l'otto per mille degli Italiani, ecc. I soldi non sono solidi, ha detto. Anch'io sto pensando, non da oggi, al fantasma dei soldi. Ma è un fantasma su cui un altro vecchio fantasma, che degli spettri ha sempre avuto - dal suo primo apparire - la facoltà di tornare e di aggirarsi, ha ancora da dire. Per esempio questo, per cominciare:
"Il denaro, che possiede la proprietà di comprare tutto, la proprietà di appropriarsi di tutti gli oggetti, è l'oggetto in senso eminente, il cui possesso è il possesso più eminente. L'universaltà della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere; esso è considerato l'ente onnipotente. Il denaro è il mediatore - il mezzano - tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi serve come mediatore della mia vita, mi fa mediare di conseguenza anche l'esistenza degli altri uomini. Il mio prossimo, è il denaro.
Scrive Shakespeare, in Timone di Atene:
'Dell'oro! Dell'oro giallo, prezioso, scintillante! No, Dei del cielo, non è la mia una frivola supplica. Un tanto di oro fa nero il bianco, bello il brutto, buono il cattivo, giovane il vecchio, valoroso il vile, e nobile l'ignobile... Questo oro fa allontanare i vostri preti dai vostri altari; fa strappare il cuscino sotto il capo dei moribondi; questo giallo schiavo scioglie e annoda i legami più sacri e i sermenti, benedice i maledetti, rende amabile la lebbra, onora i ladri e dà loro il titolo, gli omaggi e le lodi del banco dei senatori; conduce i pretendenti alla vedova avvizzita. Questo oro ringiovanisce come balsamo e trasforma in un fresco giorno d'aprile colei che ripugnerebbe con nausea in un ospedale per le sue piaghe purulente. Maledetto metallo, comune puttana dell'umanità, che metti la discordia tra i popoli..."
Shakespeare dipinge magistralmente il denaro e la sua natura [...] Ciò che è mio, ciò di cui posso appropriarmi mediante il denaro, ciò che posso - cioè può il denaro - comprare, ciò sono io, il possessore del denaro. Le proprietà, qualità del denario sono le mie qualità e forze essenziali. Ciò che io sono e posso non è affatto determinato dalla mia individualità. [...] Sono cattivo, disonesto, senza scrupoli senza ingegno, ma il denaro è onorato e così lo sono anch'io, suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono. Il denaro mi dispenda inoltre dalla pena di essere disonesto, e mi si presume onesto. Io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa, come potrebbe dunque il suo possessore essere senza spirito? Inoltre può comprarsi gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è più ricco di spirito dell'uomo ricco di spirito? Io che posso avere, grazie al denaro, tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo allora tutti i poteri e le facoltà umane? Il mio denaro non trasforma tutte le mie impotenze nel loro contrario?
Se il denaro è il legame che mi connette alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è il legame di tutti i legami? Non è anche ciò che può separare e spezzare ogni legame? [...]
Shakespeare fa risaltare soprattutto due proprietà del denaro: è la divinità visibile, la metamorfosi di tutte le qualità umane e naturali nel loro contrario, la confusione e perversione generale delle cose, la conciliazione delle incompatibilità. E' la prostituta universale, l'universale mezzana di uomini e popoli".
(Karl Marx, "Il denaro", appunti contenuti nei Manoscritti economico-filosofici del 1844), responsabilità della traduzione mia, b.s.)
P.S. "Oh Lord, want you bay me a Mercedes Benz..." (Janis Joplin)
"Il denaro, che possiede la proprietà di comprare tutto, la proprietà di appropriarsi di tutti gli oggetti, è l'oggetto in senso eminente, il cui possesso è il possesso più eminente. L'universaltà della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere; esso è considerato l'ente onnipotente. Il denaro è il mediatore - il mezzano - tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi serve come mediatore della mia vita, mi fa mediare di conseguenza anche l'esistenza degli altri uomini. Il mio prossimo, è il denaro.
Scrive Shakespeare, in Timone di Atene:
'Dell'oro! Dell'oro giallo, prezioso, scintillante! No, Dei del cielo, non è la mia una frivola supplica. Un tanto di oro fa nero il bianco, bello il brutto, buono il cattivo, giovane il vecchio, valoroso il vile, e nobile l'ignobile... Questo oro fa allontanare i vostri preti dai vostri altari; fa strappare il cuscino sotto il capo dei moribondi; questo giallo schiavo scioglie e annoda i legami più sacri e i sermenti, benedice i maledetti, rende amabile la lebbra, onora i ladri e dà loro il titolo, gli omaggi e le lodi del banco dei senatori; conduce i pretendenti alla vedova avvizzita. Questo oro ringiovanisce come balsamo e trasforma in un fresco giorno d'aprile colei che ripugnerebbe con nausea in un ospedale per le sue piaghe purulente. Maledetto metallo, comune puttana dell'umanità, che metti la discordia tra i popoli..."
Shakespeare dipinge magistralmente il denaro e la sua natura [...] Ciò che è mio, ciò di cui posso appropriarmi mediante il denaro, ciò che posso - cioè può il denaro - comprare, ciò sono io, il possessore del denaro. Le proprietà, qualità del denario sono le mie qualità e forze essenziali. Ciò che io sono e posso non è affatto determinato dalla mia individualità. [...] Sono cattivo, disonesto, senza scrupoli senza ingegno, ma il denaro è onorato e così lo sono anch'io, suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono. Il denaro mi dispenda inoltre dalla pena di essere disonesto, e mi si presume onesto. Io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa, come potrebbe dunque il suo possessore essere senza spirito? Inoltre può comprarsi gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è più ricco di spirito dell'uomo ricco di spirito? Io che posso avere, grazie al denaro, tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo allora tutti i poteri e le facoltà umane? Il mio denaro non trasforma tutte le mie impotenze nel loro contrario?
Se il denaro è il legame che mi connette alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è il legame di tutti i legami? Non è anche ciò che può separare e spezzare ogni legame? [...]
Shakespeare fa risaltare soprattutto due proprietà del denaro: è la divinità visibile, la metamorfosi di tutte le qualità umane e naturali nel loro contrario, la confusione e perversione generale delle cose, la conciliazione delle incompatibilità. E' la prostituta universale, l'universale mezzana di uomini e popoli".
(Karl Marx, "Il denaro", appunti contenuti nei Manoscritti economico-filosofici del 1844), responsabilità della traduzione mia, b.s.)
P.S. "Oh Lord, want you bay me a Mercedes Benz..." (Janis Joplin)
10/06/2008
"A me mi ha salvato Mussolini" (una sosta a Torbellamonaca, banlieue italiana)
L'altro giorno la Repubblica (edizione di Roma) mi ha chiesto di andare a Torbellamonica e guardarmi in giro. E' una vera banlieue, la più simile a quelle, per capirci, che si vedono nel film La haine (L'odio) di M. Kassowitz. Quello che ho visto e sentito, molto scremato, è uscito il giorno dopo (venerdì scorso) sul giornale. E' questo:
Vite senza futuro al Dream's bar
Dice uno, sui vent’anni, tuta Adidas come le scarpe nere, basette lunghe e capelli corti: “A me mi ha salvato Mussolini. Se non mi drogo, e non mi faccio neanche le canne, è perché ho un credo che mi dà dei valori, un ordine. Ho fatto solo le medie, sono uno che lavora. Ora non ce l’ho, lo sto cercando. Andarmene non ci penso neanche. Appena mi allontano mi viene l’ansia. Tutto il mondo viene a vivere a Roma, perché dovrei andarmene io? Il centro è bello, è un po’ che non ci vado, qualche mese. Non c’è lavoro, ma c’è anche gente che non vuole lavorare, e invece di mille euro al mese preferisce guadagnarne duemila al giorno spacciando. Io no. Quelli come me non si drogano”. E’ simpatico, è molto gentile, e in modo non formale. Eppure: “Quando ho saputo che hanno picchiato uno straniero ho provato un sentimento d’orgoglio. Forse non ha fatto niente, mi dispiace per lui, però c’ha un significato. Ce l’ho con quelli che vengono qui a fare i crimini: ne abbiamo fin troppi di criminali”.
Il suo amico, rasato, felpa nera con la scritta Superstar, ha lo sguardo acuto e riflessivo, e dosa le parole. “Quando cercavamo lavoro in città, se dicevamo che eravamo di Torbellamonaca non ce lo davano più. E poi non è che abbiamo proprio la faccia da bravi ragazzi. Sì, qui c’è molta violenza, criminalità a ogni livello. Perché? Per fame. Ma c’è anche gente che non ha lo stimolo di lavorare”. Lui ce l’ha, lo stimolo. Ha studiato come perito industriale, senza finire. “Ho lavorato con mio padre, ora faccio il magazziniere. La maggior parte degli altri ragazzi qui vive alla giornata. Senza futuro. Ma anche quelli che fanno soldi sporchi sono angustiati, per la scontentezza se li bruciano in una giornata”.
Siamo seduti a un tavolino del Dream’s Bar, la mia amica regista Angela Landini e io. Sono loro ad essersi avvicinati a noi. Il “bar del sogno” è in uno dei corridoi sotterranei della struttura di cemento armato nota come il Centro Commerciale Le Torri di Torbellamonaca. “E’ l’unico luogo di incontro”, ci confermano, insieme al parcheggio. In un’area aperta e immensa, vuota, spopolata e senza forma, costeggiata di parallelepipedi grigiastri (“le Torri”) dove la gente abita, la socializzazione avviene qui, nascosta, sotto il livello della strada. La claustrofilia è forse un riflesso del deserto intorno, come per ripararsi dall’horror vacui di questa periferia nata nel 1982. E’ sul camminamento tra lo stradone e questa struttura in cemento – via Duilio Cambellotti – che a una fermata d’autobus è stato picchiato senza motivo un ignaro cinese da un gruppo di adolescenti. Ma non riesco più a pensare a questo orrendo fatto di cronaca. E’ un’altra violenza che mi coinvolge, quella delle forme architettoniche: un festival degli spigoli, delle forme squadrate, della disarmonia, dell’aggressività geometrica. L’unica cosa rotonda sono certi graffiti sui muri grigi. Al centro del parcheggio del supermercato Sma, c’è un monumento che ne sintetizza l’insensatezza: una specie di altissima siringa spaziale, composta di lastre taglienti di acciaio. Anche la chiesa dall’altra parte della strada ha qualcosa di terribile, con quelle specie di scalini marroni che svettano spigolosi verso il cielo, per terminare in un’inutile doppia punta.
La conversazione coi ragazzi viene interrotta da una coppia di giornalisti. Anche io e Angela siamo stati presi all’inizio per indigeni. Alcuni operatori televisivi hanno messo in posa un cinese alla fermata del bus. I giovani sono inseguiti come in uno zoo safari. Resta in sospeso coi ragazzi la visita alla strada peggiore, dicono, Via dell’Archeologia, dove la polizia per fare un arresto manda dieci pattuglie. Quello che ama Mussolini aggiunge: “Se volessero davvero risolvere i problemi, ci riuscirebbero, visto che hanno catturato Provenzano. Ma non gliene frega niente”. Ci siamo andati da soli: un labirinto di contenitori cubici biancastri, finestre piccole, un simulacro di campagna intorno.
La struttura del centro commerciale, con due o tre bar, due pizzerie al taglio, un’edicola e varie scalinate per risalire ai parcheggi, continua in realtà fino al Teatro Torbellamonaca. Ma quando finiscono i negozi – per lo più di abiti sportivi e di scarpe (con le Nike in vetrina), ma anche di abiti da sposa, un Solarium, negozio Vodafone di fianco al posto di polizia – diventa una specie di balena morta e alla deriva. Mancano anche quelle tettoie di plastica su cui è rimbalzata una pioggia improvvisa (il suo rumore era l’unica natura). Scritte sui muri, e cancelli di ferro di là dai quali c’è l’Asl. Sembra una prigione dismessa. Nel piano di sotto, saracinesche chiuse di fronte a un campo abbandonato in cui passeggia un cane (abbandonato?). Vi sono un centro diabetico e locali di assistenti sociali. Ma come si può accogliere qualcuno in una tale ostilità architettonica? E’ un luogo, dice Angela, fatto per non essere guardato. E’ la definizione del brutto, penso: ciò che viene sottratto allo sguardo.
Il Teatro Torbellamonaca, fino a poco tempo fa diretto da Michele Placido, è all’estremo della struttura di cemento. Leggo, sulle sue vetrate: “T’invita. T’emoziona. T’appassiona. T’appartiene”. Nessuno dei giovani di qui ci va mai, dicevano i due amici. Accanto al teatro, un trave di cemento annerito e consumato, dall’aspetto pericolante, sembra più antico del Colosseo. Sembra morto. Sullo sfondo, le “Torri” bianche.
Vite senza futuro al Dream's bar
Dice uno, sui vent’anni, tuta Adidas come le scarpe nere, basette lunghe e capelli corti: “A me mi ha salvato Mussolini. Se non mi drogo, e non mi faccio neanche le canne, è perché ho un credo che mi dà dei valori, un ordine. Ho fatto solo le medie, sono uno che lavora. Ora non ce l’ho, lo sto cercando. Andarmene non ci penso neanche. Appena mi allontano mi viene l’ansia. Tutto il mondo viene a vivere a Roma, perché dovrei andarmene io? Il centro è bello, è un po’ che non ci vado, qualche mese. Non c’è lavoro, ma c’è anche gente che non vuole lavorare, e invece di mille euro al mese preferisce guadagnarne duemila al giorno spacciando. Io no. Quelli come me non si drogano”. E’ simpatico, è molto gentile, e in modo non formale. Eppure: “Quando ho saputo che hanno picchiato uno straniero ho provato un sentimento d’orgoglio. Forse non ha fatto niente, mi dispiace per lui, però c’ha un significato. Ce l’ho con quelli che vengono qui a fare i crimini: ne abbiamo fin troppi di criminali”.
Il suo amico, rasato, felpa nera con la scritta Superstar, ha lo sguardo acuto e riflessivo, e dosa le parole. “Quando cercavamo lavoro in città, se dicevamo che eravamo di Torbellamonaca non ce lo davano più. E poi non è che abbiamo proprio la faccia da bravi ragazzi. Sì, qui c’è molta violenza, criminalità a ogni livello. Perché? Per fame. Ma c’è anche gente che non ha lo stimolo di lavorare”. Lui ce l’ha, lo stimolo. Ha studiato come perito industriale, senza finire. “Ho lavorato con mio padre, ora faccio il magazziniere. La maggior parte degli altri ragazzi qui vive alla giornata. Senza futuro. Ma anche quelli che fanno soldi sporchi sono angustiati, per la scontentezza se li bruciano in una giornata”.
Siamo seduti a un tavolino del Dream’s Bar, la mia amica regista Angela Landini e io. Sono loro ad essersi avvicinati a noi. Il “bar del sogno” è in uno dei corridoi sotterranei della struttura di cemento armato nota come il Centro Commerciale Le Torri di Torbellamonaca. “E’ l’unico luogo di incontro”, ci confermano, insieme al parcheggio. In un’area aperta e immensa, vuota, spopolata e senza forma, costeggiata di parallelepipedi grigiastri (“le Torri”) dove la gente abita, la socializzazione avviene qui, nascosta, sotto il livello della strada. La claustrofilia è forse un riflesso del deserto intorno, come per ripararsi dall’horror vacui di questa periferia nata nel 1982. E’ sul camminamento tra lo stradone e questa struttura in cemento – via Duilio Cambellotti – che a una fermata d’autobus è stato picchiato senza motivo un ignaro cinese da un gruppo di adolescenti. Ma non riesco più a pensare a questo orrendo fatto di cronaca. E’ un’altra violenza che mi coinvolge, quella delle forme architettoniche: un festival degli spigoli, delle forme squadrate, della disarmonia, dell’aggressività geometrica. L’unica cosa rotonda sono certi graffiti sui muri grigi. Al centro del parcheggio del supermercato Sma, c’è un monumento che ne sintetizza l’insensatezza: una specie di altissima siringa spaziale, composta di lastre taglienti di acciaio. Anche la chiesa dall’altra parte della strada ha qualcosa di terribile, con quelle specie di scalini marroni che svettano spigolosi verso il cielo, per terminare in un’inutile doppia punta.
La conversazione coi ragazzi viene interrotta da una coppia di giornalisti. Anche io e Angela siamo stati presi all’inizio per indigeni. Alcuni operatori televisivi hanno messo in posa un cinese alla fermata del bus. I giovani sono inseguiti come in uno zoo safari. Resta in sospeso coi ragazzi la visita alla strada peggiore, dicono, Via dell’Archeologia, dove la polizia per fare un arresto manda dieci pattuglie. Quello che ama Mussolini aggiunge: “Se volessero davvero risolvere i problemi, ci riuscirebbero, visto che hanno catturato Provenzano. Ma non gliene frega niente”. Ci siamo andati da soli: un labirinto di contenitori cubici biancastri, finestre piccole, un simulacro di campagna intorno.
La struttura del centro commerciale, con due o tre bar, due pizzerie al taglio, un’edicola e varie scalinate per risalire ai parcheggi, continua in realtà fino al Teatro Torbellamonaca. Ma quando finiscono i negozi – per lo più di abiti sportivi e di scarpe (con le Nike in vetrina), ma anche di abiti da sposa, un Solarium, negozio Vodafone di fianco al posto di polizia – diventa una specie di balena morta e alla deriva. Mancano anche quelle tettoie di plastica su cui è rimbalzata una pioggia improvvisa (il suo rumore era l’unica natura). Scritte sui muri, e cancelli di ferro di là dai quali c’è l’Asl. Sembra una prigione dismessa. Nel piano di sotto, saracinesche chiuse di fronte a un campo abbandonato in cui passeggia un cane (abbandonato?). Vi sono un centro diabetico e locali di assistenti sociali. Ma come si può accogliere qualcuno in una tale ostilità architettonica? E’ un luogo, dice Angela, fatto per non essere guardato. E’ la definizione del brutto, penso: ciò che viene sottratto allo sguardo.
Il Teatro Torbellamonaca, fino a poco tempo fa diretto da Michele Placido, è all’estremo della struttura di cemento. Leggo, sulle sue vetrate: “T’invita. T’emoziona. T’appassiona. T’appartiene”. Nessuno dei giovani di qui ci va mai, dicevano i due amici. Accanto al teatro, un trave di cemento annerito e consumato, dall’aspetto pericolante, sembra più antico del Colosseo. Sembra morto. Sullo sfondo, le “Torri” bianche.
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