Per chi invece la sera di mercoledì 28 è a Milano: io sarò lì, alle ore 21, alla Casa della Cultura, via Borgogna 3, a parlare (soprattutto ascoltare, mi auguro), una serata nel quadro degli “Incontri sullo Zen in memoria di Taisen Deshimaru”, organizzati da Paolo Lagazzi. Il 28 sera si parlerà di “La porta senza porta: ripensate lo Zen”, col maestro Fausto Taiten Guareschi (il più noto maestro zen italiano, che di Taisen Deshimaru fu allievo a Parigi dal 1968), Anna Fabbrini, Paolo Lagazzi, e Beppe Sebaste “che si confronteranno sulla tradizione Zen ripensandola attraverso la lezione del grande Taisen Deshimaru Roshi, colui che più di tutti ha contribuito, a partire dall’anno del suo trasferimento dal Giappone a Parigi (il 1967), a diffondere il vero Zen in Europa” (come recita l’invito). Per saperne di più su questi temi, clicca qui, che è il sito del tempio-monastero di Soto Zen sulle colline di Fidenza, "Shobozan Fudenji", ricco di informazioni. (Tra parentesi: Porte senza porte. Incontri con maestri contemporanei - da Bruno Munari ai maestri zen, passando per sciamani, maestri di judo, musicisti come Terry Riley, danzatori come Steve Paxton, ecc. ecc. - è in effetti il titolo di un mio libro - un tascabile Feltrinelli - che questa primavera compie dieci anni. E' ormai introvabile, ma uscirà entro l'anno in ristampa c0n un altro editore).
2/27/2007
Neuroni specchio e zazen
Per chi invece la sera di mercoledì 28 è a Milano: io sarò lì, alle ore 21, alla Casa della Cultura, via Borgogna 3, a parlare (soprattutto ascoltare, mi auguro), una serata nel quadro degli “Incontri sullo Zen in memoria di Taisen Deshimaru”, organizzati da Paolo Lagazzi. Il 28 sera si parlerà di “La porta senza porta: ripensate lo Zen”, col maestro Fausto Taiten Guareschi (il più noto maestro zen italiano, che di Taisen Deshimaru fu allievo a Parigi dal 1968), Anna Fabbrini, Paolo Lagazzi, e Beppe Sebaste “che si confronteranno sulla tradizione Zen ripensandola attraverso la lezione del grande Taisen Deshimaru Roshi, colui che più di tutti ha contribuito, a partire dall’anno del suo trasferimento dal Giappone a Parigi (il 1967), a diffondere il vero Zen in Europa” (come recita l’invito). Per saperne di più su questi temi, clicca qui, che è il sito del tempio-monastero di Soto Zen sulle colline di Fidenza, "Shobozan Fudenji", ricco di informazioni. (Tra parentesi: Porte senza porte. Incontri con maestri contemporanei - da Bruno Munari ai maestri zen, passando per sciamani, maestri di judo, musicisti come Terry Riley, danzatori come Steve Paxton, ecc. ecc. - è in effetti il titolo di un mio libro - un tascabile Feltrinelli - che questa primavera compie dieci anni. E' ormai introvabile, ma uscirà entro l'anno in ristampa c0n un altro editore).
2/23/2007
L’altro giorno (21 febbraio), lo stesso delle dimissioni del governo, era uscita su l’Unità una mia lunga intervista a un vice-ministro, quello alla Pubblica Istruzione, Mariangela Bastico. Abbiamo parlato di tante cose, anche della necessità che la scuola insegni “cose inutili” (come per esempio la filosofia). Cioè la capacità di elaborare le esperienze, oltre alle informazioni, oltre al saper fare e al “sapere” tout court. In una società in cui tutto congiura per la perdita della nostra memoria, o perché ci appaia un solo perpetuo presente, come una televisione che non viene mai spenta, occorre, ricordava Edgar Morin (in Una testa ben fatta), non solo una riforma della scuola e una riforma dell’insegnamento, ma una “riforma del pensiero”. Mariangela Bastico per esempio ha letto Morin. Ma i suoi colleghi politici lo conoscono, sanno di cosa stiamo parlando? E quanto realmente si vuole investire sulla scuola, sulla cultura, sull’apparentemente inutile? Lei mi ha risposto, tra l’altro, così, e mi è piaciuto molto:
“Noi vogliamo investire sulla scuola, è una priorità. Ma perché alla fine la scuola diventa sempre accessoria, proprio come la cultura? Perché sono investimenti che non si vedono. Non è come costruire una strada, un edificio, poi tagliare il nastro. Sul sapere delle persone si investe su qualcosa di invisibile, oltre che distante nel tempo, e spesso investire sull’istruzione va oltre la vita e l’orizzonte di coloro che lo fanno. C’è una grande ricchezza etica in questo investimento. In una società del ‘tutto e subito’, un investimento così richiede politici lungimiranti, capaci di prescindere da sé, dalla visibilità e dal tornaconto immediato”. Capaci di immaginare un mondo al di là di se stessi…"
2/21/2007
Sul '77 e dintorni (e incontri)
Ecco comunque, in ritardo (oggi è venerdì 23), il pezzo sul '77, uscito nel febbraio 2002 (sembra una vita fa, ma in questi giorni si è fatto molto per ripiombare nel clima di quegli anni lontani e recentissimi).
2/20/2007
i lunedì al sole di martedì
“Diversamente buon anno” (uscito su “l’Unità”, 2 gennaio 2006)
Nel suo libro autobiografico On writing, lo scrittore Stephen King ha dedicato parole critiche verso la sua generazione che, scrive, “ha avuto un’occasione per cambiare il mondo, e ha scelto invece il Supermercato on-line”. È il commento più lieve tra quelli possibili sull’ultimo intreccio tra politica e business. King parla della generazione del 68, che è grosso modo la generazione di Consorte e sodali (a parte i più giovani “furbetti”): l’immaginazione al potere era in realtà un’immaginazione per il potere. Ma come insegna il metodo del politicamente corretto, sono i nostri modi di dire e di pensare criticamente ad essere obsoleti e condannati dalla Storia.Sulla scia del “non si dice disabile, ma diversamente abile”, è ormai acquisito che non si dice “disonesto”, ma “diversamente onesto”, come chi ci governa attualmente, modello di una diversità mal giudicata. Le nuove leggi insegnano che i bilanci non sono “falsi” ma “diversamente veri” e certi guadagni non sono “illeciti”, ma “diversamente leciti”, così come non si dirà “corrotto”, ma “diversamente retribuito”. Quanto al prevalere del business e degli interessi privati sull’etica pubblica, tanto per cominciare non si dice “affari”, ma “diversamente politica”, e la parola “privato” va sostituita con “diversamente pubblico” (vedi le scuole). Inversamente, non si dirà “pubblico” (parola triviale per indicare una minoranza), ma “diversamente privato”. Colgo l’occasione, essendo stato tra i primi a farlo, a scusarmi della parola “regime” impropriamente usata in questi anni: il nostro governo [il governo Berlusconi, N.d.R.] è “diversamente democratico”, ha condotto il Paese in una “diversamente pace” in Iraq e ha svolto un lavoro legislativo “diversamente equo” e “diversamente liberale”. Non è, e non è mai stato un governo “di destra”, ma “diversamente di sinistra”, prova ne sia che la nostra sinistra (di governo) non si dirà più “sinistra” (che non è bello), ma “diversamente destra”.Con ciò non si intende ovviamente che non siano diversi, ma “diversamente uguali”.
Quanto a questo giornale [l’Unità, N.d.R.], sarebbe ora che si aggiornasse. Già il suo nome è scorretto: non si dice “l’Unità”, ma “diversamente isolati” (o, in altri contesti discorsivi, “diversamente Il Foglio”), e invece che “di opposizione” sarà meglio dirsi “diversamente a favore”. Quanto a noi disoccupati (“diversamente occupati”) del Lunedì al sole, che altro possiamo sperare se non una politica “diversamente riformista”? Tanti auguri per un anno diversamente nuovo.
2/17/2007
Memoria, Storia e Letteratura
Siamo entrati da tempo nell’Era del testimone, come titolava Annette Wievorka un suo libro sugli effetti della Shoah sulla Storia. L’epoca cioè in cui l’avvento dei “sopravvissuti” (cioè testimoni), della memoria viva e della storia orale, e il dilatarsi della nozione di “archivio”, hanno introdotto una storia al presente e del presente. Spesso la memoria si pone anzi in conflitto con la storia, nell’ambizione di sostituirla con una versione meno arida e più soggettiva dei fatti. E sui rischi di una “ossessione commemorativa”, di un’estetizzazione e una reificazione del passato sul modello consumistico, ci avverte lo storico Enzo Traverso nell’introduzione al suo bel saggio che agli usi della memoria è dedicato: Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica.
E’ un libro ricco e denso, anche di riferimenti bibliografici. Il confronto tra storia e memoria, col peso e il valore che rispettivamente assumono la soggettività empatica dell’una, e l’oggettività distaccata e livellatrice della seconda, permette all’autore agili zoomate teoriche sui concetti di esperienza, empatia, identità, revisione e revisionismo della storia. Vi sono inoltre pagine attualissime sulla differenza tra storico, testimone, giudice e scrittore. Il confronto che Traverso compie tra il mestiere dello storico e quello dello scrittore, che negli ultimi anni si sono a volte scambiati i ruoli fino a confondersi, illumina poi da storico questioni importanti per chi si occupa di letteratura e di forme narrative.
E’ un fatto che da anni la letteratura trovi i suoi effetti più romanzeschi proprio lasciando da parte i modi e le strutture narrative della fiction, a favore di una sorta di “documentario”. Non solo cioè con un “effetto di realtà”, ma con l’uso, non illustrativo ma strutturale, di documenti veri e propri: lettere, fotografie, ritagli di giornali, ecc., inseriti nel tessuto della narrazione. Trame che si confondono con la nozione stessa di archivio e/o di inchiesta, storie costruite stilisticamente col montaggio di documenti. Aveva cominciato, se non sbaglio, il grande narratore tedesco (ma residente in Inghilterra) W. G. Sebald, di cui non a caso Traverso cita la Storia naturale della distruzione (Adelphi). Sebald, che tra i suoi imitatori annovera l’Umberto Eco di La misteriosa fiamma della regina Loana (che pure ha a che fare con la memoria), ha insegnato che la soggettività non solo non si perde né si nega nel perseguire un romanzo che assume i tratti dell’indagine più oggettiva e referenziale, ma si potenzia fino all’ossessione. E la più grande oggettività, il reale più estremo e vincolante, non impedisce il completo dispiegarsi della libertà espressiva dell’autore. E’ il caso, analogamente, di quei libri che nascono reportages ma sfociano nel romanzo, come il bellissimo e tremendo Ossa nel deserto di Sergio Gonzalez Rodriguez (Adelphi), dedicato ai massacri irrisolti di donne a Ciudad Juarez, alla frontiera tra Usa e Messico (tema ripreso da altri libri recenti, alcuni dei quali tradotti in italiano, di Charles Bowden, Rohry Benitez e Victor Ronquillo). Ed è soprattutto il caso del “gonzo journalism” di Hunter Thompson (di cui la casa editrice Shake ristampa uno dei suoi racconti-reportage, Hell’s Angels), cioè una contaminazione tra cronaca e narrativa rigorosamente in prima persona, il cui motore è dato dalla consapevolezza che la vita è ciò che ti succede mentre stai facendo qualcosa d’altro.
Non sono tanto le storie straordinarie a nutrire questo genere - come nell’appassionante album di famiglia di Antonio Moresco, Zio Demostene. Vita di randagi (Effigie, 2005) - ma vicende private e ordinarie. L’approdo letterario dei racconti orali di Ascanio Celestini (l’ultimo, Pecora nera, dà voce all’universo dei malati di mente) è sulla scia delle testimonianze che hanno rinnovato la Storia, e di cui Alessandro Portelli in Italia è stato pioniere e maestro (si veda il suo ultimo libro, Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Donzelli). Sono libri che raccontano delle vite e, nel farlo, usano anche i mezzi espressivi e il punto di vista, o addirittura i documenti, di chi quella vita ha vissuto, memoria compresa. A monte di tutto questo vi è una scoperta estetica che l’arte contemporanea ha per prima fatto propria: la qualità elegiaca e universale di frammenti e oggetti della vita ordinaria degli individui, o i loro volti anonimi, come quelli sgranati e ingranditi che popolano come fantasmi le esposizioni di Christian Boltanski, ma sono poi gli stessi che i giornali di provincia pubblicano nella pagina dei morti. Se nell’arte opera da tempo una nozione attiva di “archivio”, che ne ha deterritorializzato e riterritorializzato gli orizzonti, la letteratura è appena agli inizi. Eccone alcuni esempi recentissimi.
Due vite vengono riesumate dallo scrittore indiano Vikram Seth nel suo nuovo romanzo (Due vite, Longanesi), quelle dello zio Shanti e della moglie Henny Caro. Lui indiano, lei ebrea tedesca, entrambi emigrati a Londra. Dapprima le lettere trovate dal nipote compongono il ritratto dello zio, la sua giovinezza a Berlino dove conosce la famiglia Caro, la partecipazione alla seconda guerra mondiale come medico dentista, la perdita di un braccio – e già questo è un romanzo, una parabola di destino. Ma vi si narra anche l’arrivo a Londra, dove lo zio Shanti incontrerà di nuovo Henny, anch’essa esule (ebrea). E a questo punto è la storia di Henny a prendere il sopravvento, dopo la scoperta da parte dell’autore di un baule di documenti, lettere e fotografie, che rivelano a poco a poco il passato di quella zia rimasta sempre un po’ ai limiti del grande cerchio della famiglia Seth. E’ così che, da adulto, Vikram Seth “scopre” l’Olocausto, e il libro, attraverso la riesumazione di un archivio di famiglia trovato in soffitta, si affaccia sugli orrori del Novecento europeo, scopre la Storia attraverso la microstoria, fino all’ossessione, la visita al museo dell’Olocausto e i pellegrinaggi a Berlino e in Israele, che è come dire alla fonte monumentalizzata della memoria contemporanea.
La soffitta è anche all’origine di quel piccolo capolavoro cinematografico, e del libro che ora lo accompagna, che la milanese Alina Marazzi ci consegna in Un’ora sola ti vorrei. E’ la storia della madre, morta suicida quando l’autrice era bambina, narrata esclusivamente attraverso fotografie, lettere, reperti medici, diari, filmini di famiglia, in un archivio femminile che attraversa le generazioni e in cui ogni donna può ritrovare qualcosa della propria identità e genealogia: “Il fatto che ci fosse in solaio un baule con dentro tutto quello che rimaneva di mia madre era al tempo stesso magico e macabro” – scrive Alina Marazzi. E ancora: “le immagini di Un’ora sola ti vorrei sono private non solo nel senso che appartengono a una famiglia, ma perché riguardano la quotidianità: immagini apparentemente insignificanti che ritraggono momenti di vita di una ragazza e di una madre”, immagini che “mostrano i gesti di sempre, ripetuti da ogni donna di ogni epoca e generazione”.
Ma il genere letterario che il saggio di Traverso aiuta a identificare non è il mero ritratto di famiglia, non è il romanzo genealogico, che in fondo è sempre esistito (e tra i più recenti cito Mille anni che sto qui di Mariolina Venezia, edito da Einaudi), né tantomeno un ritorno del positivismo o del verismo. Il romanzo (se di romanzo ancora si tratta) cui qui si allude, comporta un uso non decorativo della memoria, e un uso non intimistico del proprio privato. La spietatezza dello storico e l’empatia del testimone sembrano guidare un’ossessione intensamente documentaria che tratta la realtà come un fantasma, mostrando la scaturigine e la formazione del proprio dire presente. Che è autobiografico, certo. Ma in fondo la Vita nuova di Dante (che in prosa raccontava come e dove erano nate le sue poesie) non è anch’esso un documentario, oltre a un canzoniere, una memoria e un monumento all’ossessione?
I libri di cui si parla:
Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, ombre corte, 2006, p. 143, euro 12,50
Vikram Seth, Due vite, Longanesi, 2006 (trad. di Stefano Beretta), p. 529, euro 18,60
Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei (libro + dvd), Rizzoli 2006, euro 19,50
Ascanio Celestini, La pecora nera, Einaudi 2006, p. 97, euro 11,50
Alessandro Portelli, con B. Bonomo, A. Sotgia, U. Vaccaro, Città di parole. Storia orale di une periferia romana, Donzelli 2006, p. 245, euro 21,90
2/16/2007
Buona lettura e visione (sono ancora molto timido nell'uso pubblico delle parole, voglio dire di un blog, ringrazio i quattro amici che mi hanno visitato finora, il sito è ancora in costruzione e tutto è in prova...).
2/13/2007
A proposito, il webmaster è un amico artista che vive a Roma, David Pesarin, ho molta stima e affetto per lui (fare siti è una sua attività secondaria). Ci siamo conosciuti all'Accademia di Belle Arti di via Ripetta, a Roma. Sulla homepage per un certo periodo ci sarà sempre una mia frase, o comunque una frase che mi interessa. Per ora è un brano tratto dal mio ultimo libro, "HP", una frase che ho visto che piace molto ai lettori e alla gente (quando la pittrice Laura Palmieri l'ha riportata su un manifesto che lei ha creato, con lo sfondo di una sua immagine, per una mostra al Rialto occupato, a Roma, è andato a ruba; su Internet alcuni gruppi lo commentavano...). E quindi. Mi pare inoltre che presenti bene l'ambiguità di un sito. A cosa serve, in effetti? Una risposta ce l'avrei, da tempo: se non posso avere una casa (home), datemi almeno una homepage. A presto, beppe s.