3/13/2014

Il vecchio col piccione (Conversazione con Laura Palmieri, in occasione della sua mostra "Obiqua")

OBIQUA di Laura Palmieri: mostre presso La Nube di OOrt e Interno 14

NOTIZIA: a Roma il 14 Marzo alle 18,30  la galleria La Nube di OOrt e lo spazio espositivo Interno 14_lo spazio dell'AIAC - Associazione Italiana di Architettura e Critica presentano in contemporanea Obiqua, una personale dell'artista Laura Palmieri (mia grande amica). La mostra è curata da Simonetta Lux, ed espone i lavori di ultima creazione di Laura Palmieri che intrecciano, come dice il, comunicato stampa, "immagini architettoniche di varie epoche, soprattutto architetture romane, con bestie che le sovrastano, in una associazione inquietante e imprevedibile che sta diventando la cifra (o almeno una delle cifre) dell'artista: il cambio di 'inquadratura' sulla realtà riesce sempre a sorprendere. Un moderno bestiarium. C'è un profondo senso d'inadeguatezza dell'operato dell'uomo che queste rappresentazioni suggeriscono, insieme a molti interrogativi che si insinuano provocati dalla vaga sensazione di innaturalezza di fronte alle strutture architettoniche con cui l'homo sapiens celebra i rituali collettivi o personali o più semplicemente riorganizza il mondo".
Nel libro catalogo, oltre alla dotta riflessione di Simonetta Lux, appare un mio pezzo-conversazione sgangherato con Laura, "IL vecchio col Piccione", che qui propongo in lettura:

Il Vecchio col Piccione. Conversazione con Laura Palmieri


   Mentre guardo i disegni (di) animali di Laura Palmieri, contemplando il fascino estetico che emanano insieme al disagio di stare appollaiati in cima a monumenti e palazzi di Roma, mi viene in mente chissà perché Zoo o lettere non d‘amore di Viktor Šklovskij. E’ un piccolo libro delizioso in forma di lettere a una donna di cui l’autore è innamorato come può esserlo un russo, ma che gli vieta di parlarle d’amore. Allora lui le scrive di Berlino, dove vive, dello zoo, di poesia, di arte, tutti sinonimi dell’amore. Ora capisco perché mi è venuto in mente. E’ per via della similitudine con cui esprime il ridicolo del sentirsi fuori posto: “come un cane lanoso ai tropici”. Poi mi accorgo che tutto il libro di Šklovskij è pertinente al lavoro di Laura, ai suoi disegni a(ni)mati e animali, perché l’interdizione da cui prende la sua forma deviata – scrivere lettere d’amore a qualcuno che non vuole in nessun modo sentir parlare d’amore – dice il disagio e il fuori luogo nella forma barocca di un’evasione impossibile, ma nello stesso tempo l’unica possibile, quella dell’arte (e della letteratura). Trovare un passaggio dove non c’è alcun passaggio, la via della metafora e della concatenazione, dove tutto c’entra con tutto. Credo sia per questo che Laura e io collaboriamo in amicizia da quasi vent’anni, da quando ci siamo incontrati la prima volta in casa di Gianfranco Baruchello (ma questa è un’altra storia).

   Facendo interagire il tema della città con quello dell’animalità, Laura tocca la frontiera biopolitica tra umano e animale, molto attraente oggi per scrittori e artisti consapevoli, con Gilles Deleuze, che scrivere o fare arte non significa diventare scrittori o artisti, ma diventare altro, “diventare animali”. Non è un caso se il sublime libro di Šklovskij da cui ho preso le mosse si intitola Zoo. O “Lettere non d’amore”, certo. E’ quando si è innamorati che più ci si sente disadattati, fuori luogo come un’orsa bianca sul tetto della Stazione Termini, o una zebra sospesa su una chiesa romanica.
   “Che cosa ne pensi, Laura?”
   “Penso che non sappiamo di preciso se e quando gli animali sono innamorati, però sappiamo che se hanno voglia di fare l’amore sono incontenibili, fanno qualunque cosa per farlo, mentre noi no, non possiamo. Poi penso che all’orso polare, anche qui a Roma, col caldo viene ancora più voglia di fare l’amore, ma se porti qui invece degli animali africani soffrono il freddo, e forse per questo li puoi addomesticare. Facci caso: al circo non ci sono mai gli orsi polari. E perché poi hanno abbattuto le giraffe in Danimarca? Io le ho messe nei bagni pubblici di Ostia antica…”
   Anche se è tutto vero, ascoltando e trascrivendo queste parole ho riso a lungo, e altrettanto Laura quando gliele ho rilette. “A Roma - ha aggiunto - gli animali acquistano una realtà e una fisicità particolari”. Quindi mi ha raccontato un buffo aneddoto scatologico su un cammello che a Roma aveva partecipato a una grande manifestazione in piazza contro Berlusconi. Quanto alla bellezza delle giraffe nella Roma archeologica, Laura le disegna da anni sullo sfondo dell’opus reticolatum, prima che si vedessero al cinema o che venissero abbattute pubblicamente a Copenaghen (vedi il suo lavoro “Perché possiamo dirci africani”). Le ha fatte poi sedere nei bagni coi mosaici di Ostia antica, mentre le sue zebre levitano sopra un’antica chiesa pisana della campagna sassarese, con quella decorazione da coperta marocchina simile al Duomo di Firenze. Gli altri animali di Laura sono quasi tutti a Roma, la maggior parte su monumenti in travertino bianco a forma di cubo o di altri parallelepipedi (ma anche sul Palazzo delle Poste di Ostia dell’architetto Angiolo Mazzoni, su cui campeggia un animale marino).
   “Della vicinanza al travertino in questa città ci si accorge anche solo aspettando l’autobus”, dice Laura. “Roma è piena di monumentalità in travertino bianco, che ha un calore e una fisicità propri, e soprattutto segna una curiosa continuità nel tempo, dai resti archeologici all’architettura razionalista anni ’30, passando per quella risorgimentale. Non è un caso che ne stiamo parlando qui da te al Gianicolo, dove ho fatto sdraiare un ippopotamo sul mausoleo che ha l’iscrizione ‘Roma o morte’”.
   Agli antipodi del concetto horror detto “arredo urbano”, gli animali di Laura sono più disadattati di King Kong proprio perché più “umani” (come direbbe Vittorini: una creatura che soffre è sempre più umana), esseri alieni che esprimono un’inadeguatezza assoluta, uno status di ontologica clandestinità. E se fossimo noi a specchiarci in loro? Cosa fanno un lupo accovacciato sul tetto del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur, e due orse sull’iceberg della Stazione Termini, o su un mauseoleo di Porta Maggiore?
   “Non c’è un simbolismo, sono associazioni. All’iscrizione memorabile di un ossario risorgimentale preferisco magari un pachiderma addormentato. Un lupo, che è l’animale puro e selvatico per antonomasia, irriducibile alla vita dell’uomo, come appunto la “civiltà del lavoro”, sta lì ad osservare la nostra parte animalesca. Non è un richiamo all’homo homini lupus, né ad altri bestiari più o meno allegorici di scrittori e filosofi, Machiavelli compreso, ma a qualcosa di interiore: ognuno di noi vorrebbe forse scappare dalla macchina e dalla gabbia sociali, soprattutto in questo Paese. I miei animali sono esotici, quindi inadeguati al luogo in cui sono situati, ma guardano la nostra natura profonda e ci rivelano l’insensatezza dei nostri atteggiamenti e delle forme in cui abitiamo, da vivi come da morti - cubi, monumenti, marmi, loculi o garages per umani - come l’antica tomba al fornaio di Porta Maggiore, più sontuosa di quella di un imperatore”.
    Come se fosse necessario il punto di vista degli animali, oggi, per dire la verità sulla condizione umana… E le tartarughe o lo stupendo elefante di Bernini? Non mi pare che esprimano disagio, s’inseriscono beatamente nella meraviglia estetica del loro tempo…
   “C’è da riflettere su come la nostra cultura si sia rapportata alla natura, anche quella più selvaggia: tra le modalità di addomesticamento dell’animale c’è quella decorativa, incastonata nella nostra cultura in un percorso che arriva, attraverso gli animali del circo, fino a Picasso e oltre. Ma parlando di Roma è anche vero che se il razionalismo italiano è così originale rispetto agli altri (per esempio quello tedesco) è anche perché ha guardato al Barocco: l’ex Gil a Trastevere di Moretti, o Piacentini che ha fatto il rettorato alla Sapienza con riferimento alla forma ellittica di Sant’Ivo. Nel barocco, è perfino banale dirlo, c’era questo spirito capriccioso, come una forma di civile disobbedienza. E poi l’animale, in Bernini, rende luogo un luogo, crea intimità…”
   Anche gli animali di Laura paradossalmente creano intimità: la loro grandezza sproporzionata riporta le architetture a una scala e a una proporzione umane, abitabili. Una sorta di poetic justice, “giustizia poetica”, come in inglese si traduce la legge del contrappasso di Dante. Ora torno a darle del tu.
   Laura, anche in questo lavoro è presente il tema del vuoto che definisce molti tuoi lavori precedenti, come gli “svuotamenti” (che disegnavi anche nel nostro lavoro sulle periferie), una cancellazione della cancellazione, ben più grave, iscritta nel nostro sguardo, il non essere più capaci di vedere niente, come diceva Luigi Ghirri. O come il bambino di cui mi hai parlato, che in un tema ha descritto così un’opera che rappresenta Dio e lo Spirito Santo: “un vecchio barbuto con un piccione” (ma la cecità degli adulti è meno divertente).
   “La nostra inadeguatezza si esprime anche qui in un vuoto, nella relazione tra cubi vuoti e animali astratti, che non sono più architetture e non sono nemmeno un bestiario. Tutto è cangiante, come unire la fisicità del marmo alla morbidezza dell’animale. Poi c’è il fatto che a Roma, per sua natura, un monumento equestre che normalmente basterebbe a riempire una piazza, diventa un circo equestre. E’ una città in cui si vive molto all’aperto, e per questo oltre alla bellezza è impossibile non notare la bruttezza degli abusi e della superfetazione edilizie. (Vedi quel parallelepipedo bianco della chiesa di Santa Maria della Salette? Ci starebbe bene un polpo gigante appiccicato: poetic justice).
   “Le architetture romane nei miei disegni risultano alla fine per gli animali (forse non solo per loro), come le Panchine nel tuo libro: ci si siedono sopra a contemplare lo spettacolo del mondo senza essere visti, perché è troppo rischioso guardarli - come hai scritto degli umani seduti sulle panchine, così loschi per lo sguardo borghese da acquistare il privilegio di diventare invisibili”.
   Come lo Spirito Santo nel vecchio col piccione.





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3/07/2014

Il tavolo d'angolo di Giulia Niccolai

Riprendo dalla rivista on line Doppiozero diretta da Marco Belpoliti, per cui l'ho scritto e che l'ha gentilmente ospitato nella sua bella serie sui "Tavoli", il mio testo sul tavolo di Giulia Niccolai, meravigliosa poetessa e monaca tibetana, amica e maestra da una vita. L'ho leggermente accorciato, e fatto qualche piccolo cambiamento qui e là. La fotografia è di Giovanna Silva.


   Conosco Giulia Niccolai da quando ragazzo mentivo sulla mia età perché volevo essere un poeta beat. Vidi (ascoltai) nascere a Venezia la sua Harry’s Bar Ballad, e forse per questo di Giulia visualizzo solo tavoli luminosi e “da gioco”, en plein air, volatili come il suo giocare a palla con le parole, la deliziosa anarchia della conversazione. Come possono vivere i “frisbees” di Giulia se non all’aperto? Oppure la visualizzo a un grande tavolo da cucina dove si fa tutto, dove tutto cioè si fa cucina – visioni, parole, associazioni di idee, tutte le possibili uscite ed entrate dal e nel material world (direbbe Georges Harrison), eroiche comiche illusioni e sogni di risveglio, cioè poesie – come nella cucina/atelier della casa di Corrado Costa a Mulino di Bazzano dove Giulia Niccolai abitò con Adriano Spatola.
   Sono visioni viziate dal ricordo, negatrici della solitudine intesa come assenza di testimoni. Sono cioè tavoli extratestuali, come se le poesie nascessero sempre altrove, fuori-testo. Ma non c’è nulla, diceva un famoso Tale, fuori dal testo. E quindi? Quindi non mi stupisce che il “vero” tavolo da “lavoro” di Giulia, il tavolo testuale, sia in una nicchia riparata e modesta. Come il Sutra del Cuore concilia il vuoto col pieno, riconosco il vuoto nelle forme degli oggetti tecnologici posti sopra (e delle scarpe poste sotto) il tavolo.
   E’ un tavolo d’angolo senza testimoni né sguardi, senza luce diretta. A malapena c’è posto per i gomiti, forse per un gomito soltanto. La superficie è ingombra di oggetti operativi, omogenei a un fare - scrivere, stampare, trasmettere testi - il campo semantico del lanciare frisbees (antenati degli e-mails). Il computer, come un tempo la macchina da scrivere col foglio nel rullo, è aperto su parole deliziosamente illeggibili (un “Satellite” Toshiba, la cui tastiera credo sia in assoluta la più comoda), e collegato via cavo al modem della Telecom (non wifi, quindi). Una risma di carta, una stampante a getto d’inchiostro collegata al pc con un cavetto arancione, così come sono collegati un telefono portatile e il mouse esterno, che evidentemente Giulia preferisce a quello incorporato nel pc. Resta lo spazio per una ciotola di oggetti, multiple e adattatori soprattutto, una piletta di carte, un nastro adesivo, due boccette d’inchiostro, una cartolina (unico fuori campo) col cielo azzurro tra le guglie della Pedrera di Gaudì a Barcellona. Gli altri utensili, come il dizionario Zingarelli della lingua italiana e un altro strausato, sono su una sedia rossa laterale (gemella di quella su cui si siede Giulia) sul cui schienale è posata la bandiera tibetana, con gli stessi colori dei quadri di Mirò. C’è tutto, credo. Anche il silenzio, o il non-rumore.