Riprendo dalla rivista on line Doppiozero diretta da Marco Belpoliti, per cui l'ho scritto e che l'ha gentilmente ospitato nella sua bella serie sui "Tavoli", il mio testo sul tavolo di Giulia Niccolai, meravigliosa poetessa e monaca tibetana, amica e maestra da una vita. L'ho leggermente accorciato, e fatto qualche piccolo cambiamento qui e là. La fotografia è di Giovanna Silva.
Conosco Giulia Niccolai da quando ragazzo mentivo
sulla mia età perché volevo essere un poeta beat. Vidi (ascoltai) nascere a
Venezia la sua Harry’s Bar Ballad, e forse
per questo di Giulia visualizzo solo tavoli luminosi e “da gioco”, en plein air, volatili come il suo giocare
a palla con le parole, la deliziosa anarchia della conversazione. Come possono
vivere i “frisbees” di Giulia se non
all’aperto? Oppure la visualizzo a un grande tavolo da cucina dove si fa tutto,
dove tutto cioè si fa cucina – visioni, parole, associazioni di idee, tutte le
possibili uscite ed entrate dal e nel material
world (direbbe Georges Harrison), eroiche
comiche illusioni e sogni di risveglio, cioè poesie – come nella cucina/atelier
della casa di Corrado Costa a Mulino di Bazzano dove Giulia Niccolai abitò con
Adriano Spatola.
Sono visioni viziate dal ricordo, negatrici
della solitudine intesa come assenza di testimoni. Sono cioè tavoli extratestuali, come se le poesie
nascessero sempre altrove, fuori-testo. Ma non c’è nulla, diceva un famoso
Tale, fuori dal testo. E quindi? Quindi non mi stupisce che il “vero” tavolo da
“lavoro” di Giulia, il tavolo testuale,
sia in una nicchia riparata e modesta. Come il Sutra del Cuore concilia il vuoto col pieno, riconosco il vuoto
nelle forme degli oggetti tecnologici posti sopra (e delle scarpe poste sotto) il tavolo.
E’ un
tavolo d’angolo senza testimoni né sguardi, senza luce diretta. A malapena c’è posto
per i gomiti, forse per un gomito soltanto. La superficie è ingombra di oggetti
operativi, omogenei a un fare - scrivere, stampare, trasmettere testi - il campo semantico del lanciare frisbees (antenati degli e-mails). Il computer,
come un tempo la macchina da scrivere col foglio nel rullo, è aperto su parole
deliziosamente illeggibili (un “Satellite” Toshiba, la cui tastiera credo sia in
assoluta la più comoda), e collegato via cavo al modem della Telecom (non wifi,
quindi). Una risma di carta, una stampante a getto d’inchiostro collegata al pc
con un cavetto arancione, così come sono collegati un telefono portatile e il mouse
esterno, che evidentemente Giulia preferisce a quello incorporato nel pc. Resta
lo spazio per una ciotola di oggetti, multiple e adattatori soprattutto, una
piletta di carte, un nastro adesivo, due boccette d’inchiostro, una cartolina (unico
fuori campo) col cielo azzurro tra le guglie della Pedrera di Gaudì a Barcellona.
Gli altri utensili, come il dizionario Zingarelli della lingua italiana e un
altro strausato, sono su una sedia rossa laterale (gemella di quella su cui si
siede Giulia) sul cui schienale è posata la bandiera tibetana, con gli stessi colori
dei quadri di Mirò. C’è tutto, credo. Anche il silenzio, o il non-rumore.
1 commento:
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