7/04/2014

Mushotoku: nessuno scopo, nessun merito. Per il trentennale di Fudenji...



   «Fatti di terra, non si può perdere né guadagnare terreno… Non si ha mai terra da perdere, perché si è della terra».  Sono frasi di Fausto Taiten Guareschi, monaco buddhista e maestro Zen che insegna con l’accento emiliano, appunto, della sua terra - le colline e la campagna della provincia di Parma dove sorge il monastero di Sōtō Zen Fudenji  di cui è abate e fondatore.
   Riconosciuto come ente di culto, crocevia internazionale di dialoghi religiosi, filosofici e scientifici, per il Giappone e il mondo buddhista Fudenji, che quest’anno compie trent’anni, è un tempio con la vocazione e il compito di preservare e tramandare la dottrina di Shakyamuni Buddha (il Buddha storico) che si trasmette ininterrottamente da maestro a discepolo. Al vecchio rurale che si staglia su uno dei valichi tra Salsomaggiore e Tabiano, col tempo si sono aggiunti nuovi edifici, porticati, camminamenti e giardini segreti, dove si va con apposite ciabatte o a piedi nudi: una delle più belle fotografie di Fudenji raffigura una distesa di ciabatte allineate di fianco all’entrata del dojo (la sala di meditazione zen). Ora, di cosa parliamo quando parliamo di Zen?
   Religione della religiosità, lo Zen custodisce le forme originarie del buddhismo, migrato dall’India alla Cina accogliendo la spiritualità e la cultura del luogo, come il Tao, poi in Giappone. Sinonimo per molti di uno stile affascinante e paradossale, sfuggente come il sorriso dello Stregatto del “Paese delle Meraviglie”, lo Zen è qualcosa che non si riesce mai a definire in modo soddisfacente, né con le parole né col silenzio. Ma Alan Watts, che ne fu il primo divulgatore in Occidente, suggerì che col suo brio e la sua immediatezza lo Zen offrisse “una nuova e diversa possibilità comunicativa che non abbiamo mai davvero esplorato”, per di più alla portata di tutti. Ma occorre rivolgersi ai suoi maestri.
   Fausto Taiten Guareschi, già campione nazionale di judo, aveva vent’anni quando nel 1969, nella palestra milanese di Cesare Barioli, fece l’incontro folgorante con Taisen Deshimaru Roshi. Era, questi, un apostolo zen, un maestro sbarcato due anni prima a Parigi dal Giappone, che in pieno Sessantotto predicava con forza il mushotoku, “nessuno scopo e nessun merito”, nessuna rivendicazione. Cioè la rivendicazione più radicale e rivoluzionaria che si potesse immaginare. Per diventarne discepolo Fausto Guareschi lasciò il judo agonistico e da Fidenza prendeva il treno di notte per Parigi, iniziando così il percorso che lo porterà a ricevere a sua volta il sigillo di maestro zen - il primo europeo - e fondare un tempio in Italia.
   Io vi torno periodicamente, e lo sviluppo di Fudenji ha scandito anche la mia vita. Taiten Guareschi lo incontrai addirittura prima, nella palestra di judo in città dove insegnava “lo Zen”. Vi capitai ragazzo, fresco della lettura di Beat, Zen & altri saggi di Alan Watts e delle poesie di Allen Ginsberg, e non riconobbi niente in quella specie di ginnastica posturale: dov’era il satori, l’illuminazione che immaginavo come un incanto gioioso, forse come l’effetto di una droga naturale? Dov’era la poesia?
   Lo Zen non è un’esperienza intellettuale, è una pratica che insegna a conoscere se stessi, poi dimenticare se stessi. E’ una via (do), che insegna che la propria vita è la propria via. Dovetti aspettare anni perché mi si rivelasse che lo Zen è essenzialmente zazen, essere semplicemente seduti nella complessa, energica postura del loto, che non serve né cerca nulla, tanto meno l’illuminazione, perché la è in se stessa. Che sedersi fosse già il satori, “sedendo e mirando interminati spazi di là da quella”, lo diceva una delle più grandi poesie sul qui e ora, l’Infinito di Giacomo Leopardi. Non mi stupisce che questa poesia, che anni fa condivisi a Fudenji, sia declamata spesso da Taiten Guareschi insieme ai Sutra del Buddha.

   Ora sto camminando col maestro tra le nuove costruzioni nel rigoglioso giardino del monastero, architetture così discrete da risultare quasi impercettibili. Vorrei elencare la varietà delle piante - cedri del Libano, atlantici e dell’Himalaya, gingko biloba, bambù, olmi, gelsi, cipressi, faggi, varietà di aceri e acacie, querce, pini, tamerici, alberi di Giuda, photinia dai fiori bianchi, lagerstroemia o lillà delle Indie, berberis, ligustri, lauri, mahonie, viburni, nandina domestica dalle bacche colorate... ma sono troppe, e mancano quelle che cingono le vere aiuole zen, laghetti di pietre e sabbia a forma di ideogrammi, simboli poetici e dottrinari. Qui tutto è linguaggio - una canna di bambù, un fiore, un gesto, una pietra, una macchia d’inchiostro. E, se non è visivo, è linguaggio sonoro.
   La vita quotidiana è avvolta dai suoni dei diversi tamburi, i legni, le campane, dallo zazen delle 4 di mattina a quando la grande campana esterna avverte che è ora di coricarsi, alle 21. Tutto è ritualizzato, anche la pulizia personale, i gesti senza testimoni. Allo zazen si affiancano il lavoro in cucina, negli orti e nel perenne cantiere edile, i seminari teologici e filosofici, i corsi di calligrafia cinese (shodo, un’arte marziale), di kendo (un’altra arte marziale, quella di tagliare la testa con la spada), o massaggi shiatsu. Forse l’abitare è così dinamico perché è modellato sullo zazen, l’immobilità che contiene ogni movimento, come le montagne che “corrono come montagne” di un classico testo di Dogen Zenji, fondatore nel XIII secolo del Sōtō Zen. A volte monache e monaci vanno  nei paesi vicini a praticare l’arte zen dell’elemosina, e anche questo è un bel paradosso: l’elemosina non si chiede, ma porgendo silenziosamente la cesta a capo chino il monaco offre agli altri la possibilità di donare. Chi ringrazia chi?
   Ricordo quando negli anni ‘90 giunsero a Fudenji filosofi e professori per un convegno su “Zen e filosofia”. Mentre si muovevano esitanti e spaesati il maestro, irriconoscibile nella sua tuta di operaio (che indossa in realtà ogni giorno alternandola al kesa, l’abito da monaco) rimase a lungo chinato a lucidare uno a uno i sassi del giardino. Nessuno se ne accorse, ma il convegno era già iniziato. Che cosa vedevano, che cosa riconoscevano quegli intellettuali in un vero tempio zen, che “uso” potevano farne?
   Tra i tanti incontri e le iniziative che celebrano quest’anno il trentennale di Fudenji c’è la “Cucitura del Kesa del Trentennale”. Elaborazione sontuosa e insieme umile del kimono, il kesa è precisamente l’abito della vocazione monacale, fatto di tanti diversi scarti di stoffa messi insieme. Cucirlo è un’arte zen: non si tratta solo di confezionare un abito, ma uniformarlo da un patchwork di stoffe col filo e la compassione profonda di chi cuce. Il Grande Kesa del Trentennale, che coinvolge tutto il sangha, la comunità, è un’opera epica e insieme elegiaca. Per mesi ognuno ha offerto pezzi di stoffa, in un mosaico di testimonianze. Cucirli è stato una scrittura collettiva, racconto silenzioso e corale, opera tessile e testuale di devozione di un bellissimo indefinibile blu.
   Ho confidato a Taiten la mia associazione di idee: l’enorme bandiera rossa fatta di tante bandiere rosse cucite insieme (l’idea fu dello scenografo Ezio Frigerio) dissotterrata nell’epilogo di Novecento di Bernardo Bertolucci, in un luogo non molto distante da Fudenji. Al tempo stesso capanna, tenda, immenso e festoso aquilone con cui danzare nella corte della casa colonica grande come un villaggio. Coincidenza, Bertolucci lo conobbi proprio qui, ormai tanti anni fa, a parlare del suo film Il piccolo Buddha.
   Tutto questo è naturalmente dedicato alla memoria del vero pioniere dello Zen in Europa, Deshimaru Roshi. Nel 1982, annunciato come “anno della non-paura”, proprio quando doveva partecipare in Italia a una sesshin, un ritiro di zazen organizzato da Taiten Guareschi, Deshimaru morì in Giappone, dove si era recato per farsi curare. Fece in tempo a a far pervenire una lettera:
   «Mi dispiace non essere fra voi. Sono certo che le persone lì riunite sono impegnate in un’onesta ricerca della Via, desiderano scoprire la vera vita che è oltre i limiti del tempo e dello spazio. Quest’attitudine si sta perdendo nella nostra civiltà, diretta soprattutto da desideri egoistici e da ambizioni piccole, limitate. Lo Zen che io vi insegno e che praticherete è ben oltre questi ristretti limiti. Dovete aspirare a una meta illimitata e senza confini, la vostra meta, così vasta da risultare senza-meta, senza-fine: mushotoku».

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