7/06/2014

La vita nuova dei rifiuti (della società)

(La foto è di Barry Rosenthal, l'articolo è stato pubblicato su Repubblica del 6 luglio 2014 col titolo "I rifiuti della società")



   Nel giugno 2010 andai in provincia di Napoli e Caserta per descrivere quello che gli abitanti chiamavano l’olocausto bianco dei rifiuti. Sporgendomi sulle voraginose discariche legalizzate e militarizzate dal governo di allora, guardando le distese di spaventose ecoballe che svettavano come megaliti nella campagna di pomodori e peschi inondata di percolato, mi sembrò che i rifiuti disegnassero una nuova, monumentale e grottesca frontiera del “sacro”. Sacrare, ricordava il filosofo Giorgio Agamben, significa separare dall’uso comune, così come il suo contrario, profanare, vuol dire restituire all’uso comune. Non solo i rifiuti, gli scarti, ma anche le “vite di scarto” dell’omonimo libro di Zigmunt Bauman rimanderebbero a questo orizzonte di senso. Ricordo che mi colpì, come se fosse il massimo dell’insensato e dello scabroso, un oggetto sfuggito a un’ecoballa, nudo e fuori contesto, un flacone di plastica bianca e azzurra con la scritta AMMORBIDENTE. Avevo già imparato che supermercati e discariche sono l’uno lo specchio dell’altro: non solo perché l’edificazione dei primi serviva a creare e coprire le seconde sotto un manto d’asfalto, e così via; ma perché sono fatte della stessa sostanza, nel costante divenire scarti delle merci in vendita.
   E’ passata un’era dallo sciopero dei netturbini a Roma nel 1970, le cui condizioni di lavoro erano disumane, filmato da Pier Paolo Pasolini, che riprese volti e gesti degli spazzini all’alba, l’assemblea ai Mercati Generali, dedicando loro una poesia: «... oggi 24 Aprile 1970/ è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini è entrato nella storia, / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra…». In perfetta continuità col suo amore per gli umili, l’attenzione di Pasolini a quel rimosso sociale che coincideva col «basso materialismo» di Georges Bataille anticipava la celebre frase di Bauman: “i raccoglitori d’immondizie sono gli eroi non celebrati della modernità”.
   Da allora la letteratura e l’arte non hanno cessato di misurarsi col variegato mondo dei rifiuti. Tra i pettegolezzi della garbology, l’arte di frugare nella spazzatura dei famosi, e le grandi questioni ecologico-ambientali, si trattava di dare il tu ai rifiuti, di guardare in faccia le cose che buttiamo via, da Michel Tournier (Le Meteore) a Don DeLillo (Underworld), passando per Italo Calvino, Paul Auster e tanti altri. Se il tema degli scarti è oggi onnipresente grazie alle estetiche del riciclo, la condizione ontologica di separatezza dei rifiuti e la sua relazione con l’arte fu indagata forse per la prima volta da una mostra al MART di Rovereto, a cura di Lea Vergine come l’omonimo libro: Quando i rifiuti diventano arte. TRASH rubbish mongo (Skira 2006). Quanto al problema della plastica, e a parte l’industria e il design del riuso, neanche qui manca la poesia - dalle drammatiche plastiche bruciate di Alberto Burri, in polemica col piano Marshall e l’inizio dell’americanizzazione delle nostre vite, allo struggente sacchetto di cellophane che danza nel vento in American beauty.
   Ci sono poi i rifiuti “naturali”, oggetti smarriti il cui eteroclita repertorio è espresso in lingua tedesca da una parola bella e strana, Strandgut. I dizionari traducono “relitti”, ma significa esattamente i beni o le cose che il mare lascia sulla spiaggia (strand), quelle che tutti contempliamo passeggiando lungo il mare d’inverno, con cui i bambini giocano da sempre costruendo capanne e altri sogni: pezzi di legno o di tronchi, alghe, conchiglie, pezzi di barca, lattine, bottiglie, oltre che, ancora, tanta plastica. Quegli oggetti ci raccontano storie, spiegava la poetessa tedesca Eva Taylor, e non a caso tanti artisti li raccolgono e per inserirli nelle loro opere.
   Uno di essi è il newyorchese Barry Rosenthal, scultore e fotografo degli oggetti trovati che si vedono qui a fianco. Confesso di avere trovato kitsch il suo tentativo di redimere rifiuti disponendoli in file ordinate, come fanno i bambini con le conchiglie o i maccheroni. Più che salvare il trash delle cose buttate via, mi sembrava che lo producesse, rimuovendone ogni implicazione tragica. Ma Rosenthal mi ha spiegato che un’evoluzione c’è stata nei suoi allestimenti: se prima disponeva gli oggetti in modo sistematico e ordinato, è subentrato un gusto per l’affollamento e la densità, un’apertura al caos e all’incompiutezza. Cerca di comunicare la sensazione che gli danno le cose che trova nell’acqua – bicchieri e posate di plastica, flaconi di medicine, cannuccie colorate, palle da tennis - e stabilire tra loro delle relazioni. Non pretende suggerire comportamenti virtuosi né aprire le coscienze, ma solo “portare alla luce” le cose anonime che buttiamo via.
   Gli oggetti senza più contesto né appartenenza sono pur sempre simboli di una deriva, ed è difficile per noi separare le installazioni degli artisti – abiti dismessi o altri oggetti separati e orfani di un uso – senza pensare alle montagne di occhiali o di scarpe tramandatici dall’iconografia di Auschwitz. Quanto agli oggetti portati dalle onde, che siano nel Mediterraneo o nel porto di New York dove va su e giù Barry Rosenthal, è il mare a conferire loro il pathos avventuroso di un messaggio nella bottiglia. La loro versione più tragica la vidi negli oggetti sommersi e poi salvati dal mare di Ustica, dopo l’inabissamento dell’aereo colpito da un missile il 27 giugno 1980. Prima di stipare quegli oggetti strazianti, irriducibili a un’estetica, dentro casse nere, e sottrarli allo sguardo, li elencai con l’artista Christian Boltanski in un piccolo libro fatto dal Museo per la Memoria delle vittime di Ustica a Bologna.
   Che i rifiuti siano specchio del mondo, come il cielo lo è della terra, lo mostrò ancora una volta Pasolini nel 1967 nel film Che cosa sono le nuvole?. Nell’ultima scena Totò e Ninetto Davoli, attori-marionette buttati dal camion della spazzatura in una discarica, semisepolti dall’immondizia, rifiuti tra i rifiuti, vedono per la prima volta le nuvole informi nel cielo azzurro. “Che cosa sono?” Ninetto ride di stupore, Totò beato le contempla: “Ah, meravigliosa e straziante bellezza del creato!”.

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