NOTIZIA: a Roma il 14 Marzo alle 18,30 la galleria La Nube di OOrt e lo spazio espositivo Interno 14_lo spazio dell'AIAC - Associazione Italiana di Architettura e Critica presentano in contemporanea Obiqua, una personale dell'artista Laura Palmieri (mia grande amica). La mostra è curata da Simonetta Lux, ed espone i lavori di ultima creazione di Laura Palmieri che intrecciano, come dice il, comunicato stampa, "immagini architettoniche di varie epoche, soprattutto architetture romane, con bestie che le sovrastano, in una associazione inquietante e imprevedibile che sta diventando la cifra (o almeno una delle cifre) dell'artista: il cambio di 'inquadratura' sulla realtà riesce sempre a sorprendere. Un moderno bestiarium. C'è un profondo senso d'inadeguatezza dell'operato dell'uomo che queste rappresentazioni suggeriscono, insieme a molti interrogativi che si insinuano provocati dalla vaga sensazione di innaturalezza di fronte alle strutture architettoniche con cui l'homo sapiens celebra i rituali collettivi o personali o più semplicemente riorganizza il mondo".
Nel libro catalogo, oltre alla dotta riflessione di Simonetta Lux, appare un mio pezzo-conversazione sgangherato con Laura, "IL vecchio col Piccione", che qui propongo in lettura:
Il
Vecchio col Piccione. Conversazione con Laura Palmieri
Mentre guardo i disegni (di) animali di
Laura Palmieri, contemplando il fascino estetico che emanano insieme al disagio
di stare appollaiati in cima a monumenti e palazzi di Roma, mi viene in mente
chissà perché Zoo o lettere non d‘amore
di Viktor Šklovskij. E’
un piccolo libro delizioso in forma di lettere a una donna di cui l’autore è
innamorato come può esserlo un russo, ma che gli vieta di parlarle d’amore.
Allora lui le scrive di Berlino, dove vive, dello zoo, di poesia, di arte,
tutti sinonimi dell’amore. Ora capisco perché mi è venuto in mente. E’ per via
della similitudine con cui esprime il ridicolo del sentirsi fuori posto:
“come un cane lanoso ai
tropici”. Poi mi accorgo che tutto il libro di Šklovskij è pertinente al lavoro di Laura, ai
suoi disegni a(ni)mati e animali, perché l’interdizione da cui prende la sua
forma deviata – scrivere lettere d’amore a qualcuno che non vuole in nessun
modo sentir parlare d’amore – dice il disagio e il fuori luogo nella forma
barocca di un’evasione impossibile, ma nello stesso tempo l’unica possibile,
quella dell’arte (e della letteratura). Trovare un passaggio dove non c’è alcun
passaggio, la via della metafora e della concatenazione, dove tutto c’entra con
tutto. Credo sia per questo che Laura e io collaboriamo in amicizia da quasi
vent’anni, da quando ci siamo incontrati la prima volta in casa di Gianfranco
Baruchello (ma questa è un’altra storia).
Facendo interagire il tema della città con
quello dell’animalità, Laura tocca la frontiera biopolitica tra umano e
animale, molto attraente oggi per scrittori e artisti consapevoli, con Gilles
Deleuze, che scrivere o fare arte non significa diventare scrittori o artisti,
ma diventare altro, “diventare animali”. Non è un caso se il sublime libro di Šklovskij da cui ho
preso le mosse si intitola Zoo. O “Lettere non d’amore”, certo. E’ quando
si è innamorati che più ci si sente disadattati, fuori luogo come un’orsa
bianca sul tetto della Stazione Termini, o una zebra sospesa su una chiesa
romanica.
“Che cosa ne pensi, Laura?”
“Penso che non sappiamo di preciso se e
quando gli animali sono innamorati, però sappiamo che se hanno voglia di fare
l’amore sono incontenibili, fanno qualunque cosa per farlo, mentre noi no, non
possiamo. Poi penso che all’orso polare, anche qui a Roma, col caldo viene
ancora più voglia di fare l’amore, ma se porti qui invece degli animali
africani soffrono il freddo, e forse per questo li puoi addomesticare. Facci
caso: al circo non ci sono mai gli orsi polari. E perché poi hanno abbattuto le
giraffe in Danimarca? Io le ho messe nei bagni pubblici di Ostia antica…”
Anche se è tutto vero, ascoltando e
trascrivendo queste parole ho riso a lungo, e altrettanto Laura quando gliele
ho rilette. “A Roma - ha aggiunto - gli animali acquistano una realtà e una
fisicità particolari”. Quindi mi ha raccontato un buffo aneddoto scatologico su
un cammello che a Roma aveva partecipato a una grande manifestazione in piazza
contro Berlusconi. Quanto alla bellezza delle giraffe nella Roma archeologica,
Laura le disegna da anni sullo sfondo dell’opus
reticolatum, prima che si vedessero al cinema o che venissero abbattute
pubblicamente a Copenaghen (vedi il suo lavoro “Perché possiamo dirci africani”).
Le ha fatte poi sedere nei bagni coi mosaici di Ostia antica, mentre le sue zebre
levitano sopra un’antica chiesa pisana della campagna sassarese, con quella
decorazione da coperta marocchina simile al Duomo di Firenze. Gli altri animali
di Laura sono quasi tutti a Roma, la maggior parte su monumenti in travertino
bianco a forma di cubo o di altri parallelepipedi (ma anche sul Palazzo delle
Poste di Ostia dell’architetto Angiolo Mazzoni, su cui campeggia un animale
marino).
“Della vicinanza al travertino in questa
città ci si accorge anche solo aspettando l’autobus”, dice Laura. “Roma è piena
di monumentalità in travertino bianco, che ha un calore e una fisicità propri,
e soprattutto segna una curiosa continuità nel tempo, dai resti archeologici all’architettura
razionalista anni ’30, passando per quella risorgimentale. Non è un caso che ne
stiamo parlando qui da te al Gianicolo, dove ho fatto sdraiare un ippopotamo
sul mausoleo che ha l’iscrizione ‘Roma o morte’”.
Agli antipodi del concetto horror detto
“arredo urbano”, gli animali di Laura sono più disadattati di King Kong proprio
perché più “umani” (come direbbe Vittorini: una creatura che soffre è sempre
più umana), esseri alieni che esprimono un’inadeguatezza assoluta, uno status
di ontologica clandestinità. E se fossimo noi a specchiarci in loro? Cosa fanno
un lupo accovacciato sul tetto del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur, e due
orse sull’iceberg della Stazione Termini, o su un mauseoleo di Porta Maggiore?
“Non c’è un simbolismo, sono associazioni.
All’iscrizione memorabile di un ossario risorgimentale preferisco magari un
pachiderma addormentato. Un lupo, che è l’animale puro e selvatico per
antonomasia, irriducibile alla vita dell’uomo, come appunto la “civiltà del
lavoro”, sta lì ad osservare la nostra parte animalesca. Non è un richiamo
all’homo homini lupus, né ad altri bestiari più o meno allegorici di scrittori
e filosofi, Machiavelli compreso, ma a qualcosa di interiore: ognuno di noi
vorrebbe forse scappare dalla macchina e dalla gabbia sociali, soprattutto in
questo Paese. I miei animali sono esotici, quindi inadeguati al luogo in cui
sono situati, ma guardano la nostra natura profonda e ci rivelano
l’insensatezza dei nostri atteggiamenti e delle forme in cui abitiamo, da vivi
come da morti - cubi, monumenti, marmi, loculi o garages per umani - come
l’antica tomba al fornaio di Porta Maggiore, più sontuosa di quella di un
imperatore”.
Come se fosse necessario il punto di vista
degli animali, oggi, per dire la verità sulla condizione umana… E le tartarughe
o lo stupendo elefante di Bernini? Non mi pare che esprimano disagio,
s’inseriscono beatamente nella meraviglia estetica del loro tempo…
“C’è da riflettere su come la nostra cultura
si sia rapportata alla natura, anche quella più selvaggia: tra le modalità di
addomesticamento dell’animale c’è quella decorativa, incastonata nella nostra
cultura in un percorso che arriva, attraverso gli animali del circo, fino a
Picasso e oltre. Ma parlando di Roma è anche vero che se il razionalismo
italiano è così originale rispetto agli altri (per esempio quello tedesco) è
anche perché ha guardato al Barocco: l’ex Gil a Trastevere di Moretti, o
Piacentini che ha fatto il rettorato alla Sapienza con riferimento alla forma
ellittica di Sant’Ivo. Nel barocco, è perfino banale dirlo, c’era questo
spirito capriccioso, come una forma di civile disobbedienza. E poi l’animale,
in Bernini, rende luogo un luogo,
crea intimità…”
Anche gli animali di Laura paradossalmente
creano intimità: la loro grandezza sproporzionata riporta le architetture a una
scala e a una proporzione umane, abitabili. Una sorta di poetic justice, “giustizia poetica”, come in inglese si traduce la
legge del contrappasso di Dante. Ora torno a darle del tu.
Laura, anche in questo lavoro è presente il
tema del vuoto che definisce molti tuoi lavori precedenti, come gli
“svuotamenti” (che disegnavi anche nel nostro lavoro sulle periferie), una
cancellazione della cancellazione, ben più grave, iscritta nel nostro sguardo,
il non essere più capaci di vedere niente, come diceva Luigi Ghirri. O come il
bambino di cui mi hai parlato, che in un tema ha descritto così un’opera che
rappresenta Dio e lo Spirito Santo: “un vecchio barbuto con un piccione” (ma la
cecità degli adulti è meno divertente).
“La nostra inadeguatezza si esprime anche
qui in un vuoto, nella relazione tra cubi vuoti e animali astratti, che non
sono più architetture e non sono nemmeno un bestiario. Tutto è cangiante, come
unire la fisicità del marmo alla morbidezza dell’animale. Poi c’è il fatto che
a Roma, per sua natura, un monumento equestre che normalmente basterebbe a
riempire una piazza, diventa un circo equestre. E’ una città in cui si vive
molto all’aperto, e per questo oltre alla bellezza è impossibile non notare la
bruttezza degli abusi e della superfetazione edilizie. (Vedi quel
parallelepipedo bianco della chiesa di Santa Maria della Salette? Ci starebbe bene
un polpo gigante appiccicato: poetic justice).
“Le architetture romane nei miei disegni risultano
alla fine per gli animali (forse non solo per loro), come le Panchine nel tuo libro: ci si siedono
sopra a contemplare lo spettacolo del mondo senza essere visti, perché è troppo
rischioso guardarli - come hai scritto degli umani seduti sulle panchine, così
loschi per lo sguardo borghese da acquistare il privilegio di diventare
invisibili”.
Come lo Spirito
Santo nel vecchio col piccione.