6/30/2013

L'arte di cancellare. Incontro con Emilio Isgrò

Pochi giorni prima che si aprisse l’antologica alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma [Modello Italia (2013-1964), a cura di Angelandreina Rorro, fino al 6 ottobre], di Emilio Isgrò ho letto il libro appena uscito Come difendersi dall’arte e dalla pioggia (Maretti editore). Non ricordavo che il grande artista della cancellazione, che mi affascina da sempre come una specie di eroe o paladino, fosse così a suo agio nello scrivere, e che il suo primo mestiere fosse stato il giornalista responsabile della terza pagina, come si chiamavano una volta al singolare le pagine di cultura. Non ho mai scordato però che scrivere vuol dire, anche e soprattutto, cancellare.
   Sulla copertina del libro che raccoglie elzeviri e conversazioni l’artista di spalle guarda su una parete la sua opera Cancello il Manifesto del Futurismo, e proprio l’intervento sulla trombonesca retorica del manifesto di Marinetti, pubblicato nel 1909 sul Figaro, è un perfetto esempio di come cancellare e scrivere siano sinonimi. Cancellare è riscrivere (è il gioco dell’arte in ogni epoca), è trasformare il mondo e modificare la realtà. Tutta l’arte dovrebbe farlo, ma quella di Isgrò, diciamo così, lo fa più scopertamente, gioiosamente e insieme severamente; lo fa anche nel modo in cui i filosofi del linguaggio chiamano “performativi” certi verbi che “fanno ciò che dicono”, come “promettere”, “dichiarare” o dire di voler dissotterrare l’ascia di guerra. “Dire è fare”, scriveva il filosofo John L. Austin. “Diversamente da quel che può apparire – ha scritto Isgrò – la cancellatura non è un segno puramente distruttivo, giacché impone al lettore di leggere pur sempre tra le righe e sotto le righe, esplorando con la forza dell’immaginazione la sostanza del mondo e delle parole”.
   L’effetto può essere ironico o perturbante, come certe pagine de la Costituzione cancellata (2010) in cui si leggono solo alcune parole - “La giustizia è amministrata da giudici spaventati”, “Lo Stato può essere sciolto da tre cittadini”. Ma sarebbe sbagliato prendere questo lavoro come una provocazione. “I nostri padri costituenti - ha dichiarato Isgrò - sapevano scrivere, oltre che leggere. E questo marca una differenza fondamentale tra l’Italia di oggi e quella di ieri. Così che, cancellando, è questa differenza che ho fatto emergere, trasformando un testo di alta cultura civile in un testo poetico, pieno di struggimento e di pietà per un Paese che si sgretola sotto gli occhi di tutti...”

   Che ci sia una valenza politica forte in questa mostra che si intitola appunto Modello Italia, è evidente anche al più ignaro visitatore. Pur presentando le tappe del suo lavoro e alcuni classici, dall’irresistibile serie “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò” del 1971 alle sculture dei semi di arancia, simbolo di pace e di Sicilia; dai famosi libri cancellati, cui si aggiungono i Codici ottomani, alle bellissime carte geografiche cancellate, la mostra ha fin dal titolo qualcosa di grave, sottolineato forse dall’insistente presenza di scarafaggi “scritti” che invadono e inondano la realtà, o ri/scrittura della realtà. Lo stesso Isgrò mi racconta come alcuni ragazzi hanno compendiato la loro reazione: “ci ha fatto ridere e soffrire”.
   “Mi piace dire cose gravi con leggerezza, per fare sorridere e insieme pensare”, mi dice l’artista. La realtà di oggi è un horror, concorda, “ma gli artisti e gli scrittori servono a questo, no?, a trasformare, a temperare o a cacciare la paura. Senza essere romantico o idealista, penso che la verità serva sempre, serve a tutti, alla politica e a noi stessi, per guardare in faccia la realtà. C’è un aspetto distruttivo della cancellazione, ma è volta anche al suo contrario, al riso”.
   In Modello Italia ci sono le prime pagine dei maggiori giornali italiani cancellate (è un onore) da Emilio Isgrò. Le parole sono annerite, le figure sbiancate. C’è anche una prima pagina cancellata de l’Unità nella sua grafica attuale che non ho riconosciuto subito, dove l’illustrazione sbiancata al centro è una foto - me lo dice Isgrò - di Fabrizio Barca. Ogni giornale ha un titolo che è una variante del Modello Italia, e quello de l’Unità è “Modello delle ali tagliate”. Non ho  ritenuto di chiedere spiegazioni, né giustamente l’artista ha avuto intenzione di darmene.
   Quanto al particolare horror degli scarafaggi, “il primo scarafaggio che presentai - mi dice Isgrò - fu nel 1980 a una Biennale: era incapsulato in un grumo di colla, in un’opera fatta di tanti pezzi di fotografie illeggibili dal titolo Biografia di uno scarafaggio. Tutti pensarono al racconto di Kafka (che in realtà non avevo ancora letto), ma quello che volevo esprimere era lo scollamento tra tutte le identità possibili che un uomo possiede, compresa la vita sotterranea (come quella di uno scarafaggio appunto). Uno scollamento tra il dire e il fare, anzi tra il detto e il fatto”.
  Impossibile non pensare a Pirandello e alla sua ossessione per le identità plurali e inattingibili, ed è Isgrò stesso a venirmi incontro confidandomi che il fatto di essere stato cresciuto da due donne, Mimma e Rosanna Pirandello, del ramo messinese della famiglia del grande scrittore, non può essere stato privo di influenze. A mitigargli invece il ribellismo e l’anarchismo siciliano, mi racconta Isgrò, fu un amico-maestro triestino, parente di Slataper e di Svevo, che gli fece leggere Marx e Freud, Einstein e Heisenberg.

   La Cancellazione del debito pubblico è un’opera del 2011 donata all’Università Bocconi di Milano, che gli aveva chiesto un‘opera. “Subito pensai alla cancellazione del Capitale di Marx, ma era troppo banale. Pensai allora di cancellare uno di quei neoliberisti come Friedmann, responsabili della situazione economico-finanziaria attuale, finché dissi per scherzo, come una battuta, che avrei cancellato il debito pubblico italiano, e la reazione fu entusiastica. Lo venne a sapere Mario Monti, non ancora capo di governo, e alla fine dovetti fare l’opera annunciata”.
   Immagino che Monti abbia valutato con ammirata prudenza le intenzioni di Isgrò, comprendendo, pur senza frequentare l’arte e l’estetica, il pericoloso potenziale delle sue opere capaci di innescare effetti inarrestabili di negazione/creazione di realtà. E’ proprio questo l’aspetto più affascinante ed estremo, incontornabile, dell’arte di Isgrò (valido forse per l’arte in generale), e che sconfina nell’atto sciamanico di far sparire e apparire.
   Il potere di dissolvimento delle cancellature le avvicina da una parte alla satira e allo sberleffo, a cui le cancellature di Isgrò possono assomigliare per l’ambiguità del rapporto con l’oggetto “cancellato”, oppure al collage, per il loro potere di creare nuovi sensi e nuove realtà. Io credo invece che il nodo estetico-politico che le “cancellature” ci pongono assomigli molto all’interrogativo e alla pratica filosofica più radicali della nostra epoca, quello della “decostruzione” del filosofo Jacques Derrida. Occorrerà riparlarne.

6/28/2013

Omaggio a Giorgio Manganelli, viaggiatore improbabile e assoluto (soprattutto in Oriente)

Esce in questi giorni in libreria,per Adelphi, Cina e altri Orienti, raccolta di scritti di viaggio del grande Giorgio Manganelli. Su Venerdì di Repubblica in edicola oggi, 28/6/13, questo mio articolo (la fotografa a colori dell'uomo perplesso con ombrellno, in basso, rappresenta il sottoscritto, non Manganelli, scattata in Tamil Nadu, India).

Quando andai in India la prima volta, oltre all’immancabile guida Lonely Planet, tra le decine di libri di viaggiatori l’unico che mi fece vedere qualcosa venendo incontro alla mia stupefatta apprensione fu lo smilzo Esperimento con l’India di Giorgio Manganelli. Curioso twist of fate: il più improbabile dei viaggiatori, il più mentale e apparentemente autoreferenziale tra gli autori d’avanguardia, acrobata della lingua allenato al salto mortale lessicale, si è rivelato il più limpido e seducente degli “scrittori viaggiatori”, capace di dire la verità e far vedere il mondo meglio di Bruce Chatwin, come forse soltanto il ginevrino Nicolas Bouvier.
   Ora di Manganelli arriva in libreria per Adelphi, a cura di Salvatore Silvano Nigro che ne firma la postfazione, la raccolta di scritti di viaggio cui lo stesso Manganelli lavorò fino a pochi mesi prima della scomparsa, nel 1990: Cina e altri orienti, stesso titolo del libro uscito da Bompiani nel 1974. Mancano solo i testi sul viaggio in India del 1975 nominato sopra, pubblicato da Adelphi nel 1992 a cura di Ebe Flamini, ma molti altri scritti sono stati aggiunti.
   Sappiamo che Manganelli, docente di letteratura inglese con tendenza alla pinguedine, scrittore visionario e nevrotico, fu convinto a viaggiare, “staccarsi” e avventurarsi nell’aperto, dal suo psicoterapeuta berlinese Ernst Bernhard. Pochi come lui fecero del viaggio un meraviglioso ossimoro, emblema della stessa magica assurdità dello scrivere: “Il problema del fare un viaggio”, diceva, “è che rischi di arrivare”. Sua figlia Amelia mi ha ricordato anche le cartoline che durante i viaggi Manganelli spediva a se stesso: “Giorgio tieni duro!”, “Resisti!”

   La svolta avvenne nel 1970 con un viaggio che non avrebbe potuto essere più prossimo alla psicanalisi, quasi una metafora dell’inconscio: l’Africa preculturale, primordiale, addirittura preumana, “ricordo di una possibilità di vita ancora esistente ma soffocata dalla civiltà”. Traduttore e curatore documentario per una società costruttrice di autostrade, si trovò immerso in una terra che sintetizzava l’altrove del mito: “forse era così l’Europa di Lascaux”, scrisse a Ebe Flamini. Il tabù era stato infranto. Un paio d’anni dopo accettò di accompagnare a Pechino a un’esposizione industriale una pletora di politici e operatori economici, quasi tutti padani dalle “rosse mani allevate a cotechini”, che “credevano di arrivare in un paese, ed erano piombati nel cuore di una cerimonia”. “Ogni viaggio è un simbolo, un’iniziazione: figuriamoci un viaggio in Cina”, scrisse scoprendo a sua volta come l’oriente fosse in realtà “il segreto luogo di nascita dello stile”.
   Manganelli si rivela il più “gonzo” (è un elogio) del cosiddetto gonzo journalism - quel modo di fare reportage da scrittori sapendo che l’obiettività si trova nella massima soggettività. Ma resta straordinario come riesca a conciliare l’alterità irriducibile di ciò che vede e incontra, luoghi e cose che spesso esigono un silenzio al limite della devozione, e la sfrenata, inarrestabile passione per il fraseggio infinito e sinuoso, barocco e quasi virtuosistico, ma sempre godibile. Credo che la risposta, e la sintesi di questi tratti in apparenza contraddittori, è nello scrigno inesauribile del suo reportage dall’India, che l’ormai navigato Manganelli traversò nel 1975, pubblicando sul settimanale il Mondo le sue cronache meravigliose e meravigliate: un viaggio teso a “cercare enigmi, emblemi, enteroideogrammi del sacro”, come scrive Viola Papetti, amica e sodale del Manga, nel suo Gli straccali di Manganelli (Sedizioni 2013).
   Cina e altri orienti contiene reportage anche dall’Arabia, dall’Irak, dal Pakistan, dai paesi dell’Islam, da Taiwan, dalle Filippine, da Singapore e dalla Malesia (Paese, quest’ultimo, di cui era incuriosito dai “sultani bianchi”, i Brooke britannici “ora scomparsi”, e in cui voleva – così propose al direttore della Bompiani – andare sulle tracce della loro “inesistenza”). In generale, il viaggio in Oriente di Manganelli è “un’esperienza dell’anima, degli occhi, un brivido culturale, un guado dell’intelligenza, un rivolgimento degli archivi mentali”. Se della Cina e degli altri orienti estremi Manganelli descrive “il prestigio gestuale” dell’“ipnotica positura” del Buddha, che si deposita simbolicamente ovunque e crea zone di silenzio anche nel fragore di Bangkok, l’accoglienza dell’India – scrive – è invece “viscerale”, non necessariamente in senso figurato. La visceralità, scrive nel 1978 (nel libro: Terza Appendice), è un’esperienza “terribile”, cioè prossima al sublime: “noi non sappiamo più che cosa sono le viscere mentali di un mondo. In forza della sua visceralità, l’India non conosce l’orrore. E’ facile liberalizzare il sesso e la droga: più difficile liberalizzare gli escrementi. Ma dove voglio vedervi è a liberalizzare il Cottolengo. Fatevi una passeggiata dopo cena a Calcutta […], in mezzo ad immagini umane che da noi si nascondono in solai inaccessibili. Chi non ha visto Calcutta – che è anche una città meravigliosa – non sa esattamente su quale pianeta viviamo. Ma dovunque viaggerete, in Asia, sentirete l’Europa come una bizzarra invenzione, una cosa impossibile, un ricordo maniacale, il tentativo di non sapere che cosa è esattamente essere vivi”.
   Ho letto queste frasi di Manganelli su un comodo treno che attraversava forse troppo velocemente l’Italia da Roma a Trento, Toscana compresa, seduto di fianco a due anziani americani che guardavano dal finestrino il “paesaggio” italiano: a volte ameno, più spesso agricolo, costantemente costruito, saturo di attestazioni dell’esistenza dei geometri. A differenza dell’Asia, ma anche degli Stati Uniti dove si possono percorrere centinaia di chilometri senza vedere una casa, l’Italia mi sembrò a un certo punto un gigantesco “parco a tema”, votato qui e là a un moderato svago culturale e a moderati divertimenti. L’Asia, scrive a un certo punto Manganelli, non è mai eufemistica perché convive letteralmente con la morte, e “la coscienza della provvisorietà della morte dà [...] un’indifferenza che per noi è intollerabile”. Manganelli non scrive provvisorietà “della vita”, ma “della morte”, come a dire che la trascendenza è così massicciamente presente nella fisicità della vita, nell’immanenza, perché l’anima non muore. Forse è questo “L’odore dell’India” di cui scriverà anche Pier Paolo Pasolini.
   Che l'India fosse entrata nel cuore e nella mente di Manganelli, "ateo che vedeva il sacro dappertutto", me lo ha raccontato la figlia Amelia: la sua accettazione di tutto ciò che è diverso, deforme, mostruoso, fu la cifra del suo rapporto con quel Paese in cui i mostri non sono mai nascosti, ma esibiti e sacri.
 Opera di grande letteratura, Cina e altri orienti è un insegnamento magistrale sull’arte di viaggiare (scrittura compresa). Che non è l’affannoso spostarsi dei viaggiatori che “sporcano il mondo con carte unte”, ma una sorta di ascesi, un “diventare riflesso, eco, corrente d’aria” (come scrisse Nicolas Bouvier in libri che sarebbero piaciuti a Manganelli), un paziente “diventare Nessuno” (come scrissero entrambi, Manganelli e Bouvier), vera avventura e ostinata passione di Ulisse.

6/23/2013

Noi animali

Da qualche tempo è in libreria questo libro di racconti di Marino Magliani e Giacomo Sartori montati insieme: Zoo a due, appunto, edito da Perdisa. La copertina è un disegno di Andrea Pazienza. C'è una prefazione che ho scritto io, perché questi racconti mi sono sembrati sorprendentemente belli, capaci di insegnare molto a chi legge e a chi scrive, insomma a tutti. Penso sia un ottimo libro da portarsi in vacanza, o da leggere a casa, in panchina, dove vi pare. Da leggere e basta. E ora vi anticipo qui quella prefazione che ho scritto qualche mese fa, col titolo Noi animali.

Noi animali
                                                       Non si scrive per diventare scrittori, ma  per diventare altro [...], diventare animali.
Gilles Deleuze

   Dopo Tolstoj, dopo Kafka e Singer, sembrava che degli animali scrivessero quasi soltanto i filosofi. Come ha scritto Elizabeth de Fontanay (curatrice in Francia dei Trattati sugli animali di Plutarco), parlare degli animali ebbe nel secondo Novecento la funzione di denunciare l’umanesimo razionalista da cui discende il nazismo stesso, e indicare il disastroso smisurato dominio dell’uomo sulla natura, su tutto ciò che è. L’ultimo libro di racconti sugli animali che avevo letto (a parte certi geniali scorci narrativi in Philip K. Dick, e i libri del nobel J. M. Coetzee), era Dogwalker del giovane americano Arthur Bradford, dove gli animali sono narrati alla stessa stregua di umani handicappati e marginali: cani a tre zampe, gatti e molluschi accanto a uomini ciechi, bambini poveri e caratteriali, vecchi e alcoolisti. La frontiera che separa nel vivente (o se vogliamo nello “zoo”) “l’umano” e “l’animale”, è sempre più sfumata, perché la vita quando è nuda e offesa non presenta molte dissomiglianze. Questione biopolitica per eccellenza. L’inermità dell’animale rende paradossalmente l’animale più umano dell’uomo, forse plus-umano, se non troppo umano.
   Questo libro di Marino Magliani e Giacomo Sartori ha come tema la vita, la vita pulsante, brulicante, debordante. Che è anche ciò da cui sgorgano l’unica letteratura e l’unica filosofia possibili. Che cosa è la vita? Michel Foucault (che della biopolitica è forse l’iniziatore) la ridefinì così, poco prima di morire: non “ciò che si oppone alla morte”, che ne fa anzi parte, ma “ciò che è capace di errore”. Mi piace pensare che anche lui lo intendesse nel duplice senso di “errare”: commettere errori – e quindi correggere la propria rotta per continuare il viaggio, la navigazione – e appunto andare, vagabondare, scorrere. Errare. Ecco, questo libro sulla vita che raccoglie storie di animali narrate in prima persona è anche un trattato di nomadismo.

   Nell’eteroclito zoo narrativo di Giacomo Sartori, che va dal cane all’orso polare passando per un bruco sognatore, una formica anarchica che esce dai ranghi per inoltrarsi nell’Aperto, un canarino che viceversa ama la sicurezza della gabbia, un polipo narratore, un dromedario, uno scarafaggio un halobacterium eccetera, c’è perfino un unicorno (geniale inclusione) che esercita il dubbio iperbolico (quello cartesiano) sulla propria esistenza. È la vita, pensa l’unicorno, a essere incomprensibile, col suo “insondabile alternarsi di luce accecante e tenebre”, coscienza e oblio, clamore e silenzio. La domanda dell’unicorno, di cui è dubbia l’esistenza, è la vera domanda: dove comincia la vita? E quindi: dove comincia l’animale? Non solo la mobile frontiera tra umano e animale, ma anche quella tra i diversi “regni” (conosco persone che dialogano normalmente con piante e sassi: sciamani, non pazzi).
   C’è poi un’ameba nel bestiario di Sartori, colta anch’essa in un lungo istante di fatica e di sconforto, un attraversamento a suo modo della mistica “notte oscura”, mentre riflette sulla vita e quindi sulla morte. Si chiede se quando “si diluirà come una goccia d’inchiostro in un oceano” non sarà più nulla, e se i suoi pensieri “continueranno per conto loro come una voce fuori campo”, e fino a quando. E mentre perdiamo di vista, noi che leggiamo, ogni cesura tra noi e gli altri animali o creature, ci viene in mente che quella voce “fuori campo” può essere un bel modo per dire la letteratura, all’ameba accade (quando non sappiamo, il parametro del tempo essendo estremamente variabile per gli esseri viventi) che la crisi esistenziale e fisica che l’aveva avvolta evapori come un brutto sogno, l’acqua del suo habitat ritorni a essere cristallina e della temperatura giusta, e allora “hai solo voglia di abbuffarti di squisiti bocconcini, di folleggiare”. Così è la vita, no?

 Ora, se qualcuno ancora si chiede “perché scrivere di animali”, mi viene in mente un filosofo contemporaneo che ha descritto con terribile precisione le condizioni di insignificanti bassezza e volgarità che pervadono le nostre democrazie di mercato, un libro intitolato Vivere e pensare come porci, dove si cita in esergo questa frase di Deleuze-Guattari: “Per sfuggire all’ignobile, non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo, anche se democratico”[1].
   È lo sfondo a cui, con estrema discrezione, alludono gli abbaglianti racconti di Marino Magliani Il cane e il mare e il suo seguito, Il figlio del cane e le colline. Strutturalmente a metà tra la tragedia greca e il Bildungsroman, la loro crudezza epica ed elegiaca mi ha ipnotizzato. È l’epopea di un cane abbandonato nelle colline che sovrastano il mare, che inizia la sua erranza alla ricerca di un dove e di un senso, cioè di se stesso – proprio come tanti illustri umani. Un cane vagabondo che sogna e progetta viaggi in mare, studia l’architettura dei ponti e dei moli, fissa dalle colline la “prateria nera” di notte, quel mare “che non sta fermo mai”, come diceva la canzone. Un cane che ascolta i poeti, che si innamora dell’idea architettonica di “arco”, mentre il lettore si innamora di lui. Magliani apre una geografia oltre all’antropologia del vivente dai confini incerti, una geo-politica dell’umano-animale, con toni a volte biblici, e sicuramente etici. Le peregrinazioni dei suoi cani sono anche guidate dalla fame, e la fame è un sentimento alto se l’affamato, scrisse Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, è più uomo degli altri uomini; anche il cane di questi racconti è “più uomo” quando ha fame, più nudo e offeso, più nobile perché inerme, sacer.
   Se il punto di vista degli animali (qui del cane: anche il cane di Sartori) ci scuote perché ci aiuta a vedere e a dire la verità, solo gli animali sembrano darci l’umiltà e il coraggio di parlare delle cose che contano davvero, di ripristinare e cercare di dare nuova salute mentale a parole come madre, padre, casa, cibo, amore, e altre analoghe che fanno tremare le vene ai polsi degli scrittori meno autentici, stavo per dire meno animali.
   Per fortuna Magliani e Sartori non sono soli: so che proprio in questo periodo altri si stanno svegliando a tessere racconti che risveglino gli animali dentro e fuori di noi. Molti lavori sono in corso, altri già reperibili, come il romanzo recente del mio amico Tim Willocks, una road story di cani, anzi un western di cani, Doglands[2]. Le storie di cani e altri animali sono sempre inni alla libertà e alla terra. Anche le storie di Magliani sono western – raccontano cioè la lotta per l’esistenza in uno spazio geografico che ha forte valenza narrativa. Nella storia di Magliani ci sono il mare e le colline, il sogno poetico di archi e di ponti che s’inarcano anche sott’acqua per rispuntare lontano, oltre la linea dell’orizzonte.
   Ed ecco quindi la mia dedica a questo libro.
   Quando ne avevo saputo il titolo pensai di titolare questa prefazione con la voce sgangherata di Enzo Jannacci, Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale. A patto che a cantarlo fossero gli animali, che si affacciano indulgenti nello sterminato zoo, a volte irritante altre patetico, di noi umani inconsapevoli. Giunto alla fine del libro mi affido invece alla voce meravigliosamente animale di Bob Dylan quando canta, vero come un cane “trasperso”, upon the beach where hound dogs bay at ships with tattooed sails “sulla spiaggia dove i segugi abbaiano verso navi con vele tatuate, dirette verso i cancelli dell’Eden”. Il titolo, naturalmente, è Gates of Eden.



[1] L’autore è Gilles Châtelet, prematuramente scomparso. Il libro è stato tradotto in italiano da Arcana nel 2002. La citazione di Gilles Deleuze–Felix Guattari è da Che cos’è la filosofia.
[2] Tim Willocks, Doglands, Storia di un cane che corre nel vento, Sonda 2012.

6/02/2013

Io è un altro, e l'arte è disabile

(articolo uscito su l'Unità di domenica 2 giugno 2013)

 Quattro volti che dicono con parole essenziali esperienze di dolore e sofferenza, per esempio al manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, e di come soltanto adesso abbiano le possibilità di raccontarlo: “la camicia di forza era orribile”. Volti e corpi con una espressività fortissima, non tanto per i segni di una condizione ma per la potenza intrinseca, spesso trattenuta. Per dirlo con parole che non ho mai amato, “bucano il video”. Ma era solo un prologo, il filmato inizia adesso.
   Sto guardando Io è un altro, pezzo centrale delle video-installazioni di César Meneghetti, progetto in progress realizzato con la comunità di Sant'Egidio a Roma e presentato nel Padiglione del Kenya alla 55ma Biennale di Venezia. L’impatto emotivo ricorderebbe un po’ i Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini, se fosse un film e non invece un quadro animato e sonoro. Nel film di Pasolini inoltre la voce del regista imponeva la propria autobiografica presenza, mentre qui la voce dell’artista/autore, se esiste, è assente o dissolta, lui stesso confuso tra i soggetti, un io tra gli altri, io che è un altro, un altro io.
   Quattro sedie vuote. Poi corpi e volti intermittenti, alcuni su sedia a rotelle. Parlano, anzi rispondono, come se la parola, anche quella sorgiva e originaria, fosse sempre una risposta, una parola seconda. Parlano e cercano di definire nozioni come amore, realtà, normalità, desiderio, arte, verità, solitudine, morte. Difficile dire cosa è l’amore, dicono, e giù parole miti e profonde - una gioia, come una vita in più, a me l’amore piace un sacco, un sole che risplende, un seme che poi sboccia. Difficile descrivere l’incanto di questo delizioso pullulare di frasi, il gioco della verità come fosse una palla, così prossimo al modello libertario e an-archico della conversazione teorizzato da Denis Diderot. I volti e i silenzi dicono a volte più intensamente delle parole, e guardiamo le forme dei loro corpi che si protendono o ritraggono, la forza della loro presenza nel buio dello sfondo, le mani intrecciate che si muovono, oppure ferme sulle ginocchia, i sorrisi. Sono persone segnate dalla sofferenza trascorsa e dagli impedimenti motori e linguistici (alcuni comunicano solo digitando i tasti di un computer: “comunicazione aumentativa”, si dice), eppure viene in mente Emmanuel Levinas, il filosofo dell’etica, quando parla dell’epifania del volto dell’altro, significazione senza contesto, infinito, volto che parla “in quanto solo esso rende possibile e incomincia ogni discorso”. Se non sapessi che le riprese sono state effettuate individualmente in una videocabina, dispositivo inventato sul campo da César Meneghetti, poi montate e giustapposte in inquadrature che sono bellissimi tableaux vivants, troverei tutto assolutamente magico. “Nell’impianto artistico della videocabina - ha detto Meneghetti - abbiamo scambiato i ruoli e non esistono più registi e attori, artisti e opere, ma siamo tutti sotto la stessa luce”.
   Alessandro Zuccari l’ha paragonata alle “gallerie di uomini illustri”, genere iconografico-letterario in voga in età umanistica. Ma al posto di eroi ed eroine artificiosi, una “antieroica eloquenza degli esclusi”. L’antiretorica delle persone ordinarie, non solo gli anonimi che brechtianamente hanno fatto la Storia, ma gli esclusi dalla frontiera biopolitica dell’umano, del civile, della norma, oltre che naturalmente dell’arte. Artista che ha lavorato sulle frontiere e gli sconfinamenti geografici e culturali, César Meneghetti ha proposto per questi diversi confini un’alterità come condizione naturale dello sguardo, punto d’arrivo di un lungo lavoro iniziato nel 2010. Come dice con splendida formula uno dei soggetti sullo schermo, per esemplificare il concetto di normalità e insieme liquidare la questione “un disabile è normale”.
   “Io non sono reale, sono Mirko Ghezzi-la realtà”, dice uno con una sapienza naturale alla Ludwig Wittgenstein. E altri, che cito a memoria: “nel mondo succedono cose per colpa di qualcuno che si potrebbero evitare”, “certe volte mi distacco dal mondo reale”, “la realtà è dire la verità, come stanno le cose”, “dovresti dire tutte le verità del mondo, ma non puoi perché il mondo circola, è come con la bicicletta, si pedala, si pedala, finché capisci il senso della vita”. Così come non c’è bisogno di essere filosofi per dire la verità, né di essere illustri per essere memorabili e notevoli, capiamo che non c’è bisogno di essere disabili per essere disabili. Non c’è nemmeno bisogno di essere artisti per non essere disabili, ma forse “artista” e “disabile” sono entrambi portatori di una speciale e personalissima abilità, fosse anche solo l’abilità nel disporre della propria personalissima disabilità. Il discorso sarebbe lungo, e ci porterebbe forse a una nuova definizione dell’umano, e sia merito a quest’opera di porne le basi, visibili a Venezia nell’Isola di San Servolo, a due passi dall’ex manicomio e dalla Fondazione Franco Basaglia. Speriamo anche che renda visibili e apprezzate le tante realtà in Italia in cui disabilità e arte sono coniugate in processi educativi e comunitari senza sostegni né fondi.
   Le persone cosiddette disabili che hanno lavorato con Meneghetti alla realizzazione dell’opera sono da anni impegnate nei laboratori di educazione artistica della Comunità Sant’Egidio a Roma. IO È UN ALTRO è un work in progress il cui progetto vinse il Premio Brasil Arte Contemporanea della Fondazione Biennale di São Paulo e fu presentato al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma, animato dalla bravissima e infaticabile storica dell’arte contemporanea Simonetta Lux, che ai laboratori d’arte del Sant’Egidio ha dedicato, con Zaccuri, il libro edito da Gangemi Con l’arte, da disabile a persona.

   Chi scrive quest’articolo ha avuto modo di conoscere i laboratori e le persone che lo frequentano, constatando che l’opera d’arte più importante è la comunità umana di cui l’arte e l’estetica sono da sempre simbolo e utopia; e per cui  i più grandi forgiano a volte addirittura una lingua, come questa meravigliosa poesia scritta al computer col metodo della comunicazione aumentativa da Gabriele Tagliaferro, uno dei “disabili” del Sant’Egidio: Riuscire a pensare di potere parlare / per tanti aspetti è squisita civiltà partecipare / ma la parola oramai non gente antica trova /che sappia ascoltare / [...] parole più limiti non hanno / deficitario linguaggio perplessi rende / ma opportune espressioni ore di lavoro richiedono”.