(articolo uscito su l'Unità di domenica 2 giugno 2013)
Quattro volti che dicono con parole essenziali esperienze di dolore e sofferenza, per esempio al manicomio
di Santa Maria della Pietà a Roma, e di come soltanto adesso abbiano le
possibilità di raccontarlo: “la camicia di forza era orribile”. Volti e corpi
con una espressività fortissima, non tanto per i segni di una condizione ma per
la potenza intrinseca, spesso trattenuta. Per dirlo con parole che non ho mai
amato, “bucano il video”. Ma era solo un prologo, il filmato inizia adesso.
Sto guardando Io è un altro, pezzo centrale delle video-installazioni di César Meneghetti, progetto in progress realizzato con la comunità di Sant'Egidio a Roma e presentato nel Padiglione del Kenya alla 55ma Biennale di Venezia. L’impatto emotivo ricorderebbe un po’ i Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini, se fosse un film e non invece un quadro animato e sonoro. Nel film di Pasolini inoltre la voce del regista imponeva la propria autobiografica presenza, mentre qui la voce dell’artista/autore, se esiste, è assente o dissolta, lui stesso confuso tra i soggetti, un io tra gli altri, io che è un altro, un altro io.
Sto guardando Io è un altro, pezzo centrale delle video-installazioni di César Meneghetti, progetto in progress realizzato con la comunità di Sant'Egidio a Roma e presentato nel Padiglione del Kenya alla 55ma Biennale di Venezia. L’impatto emotivo ricorderebbe un po’ i Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini, se fosse un film e non invece un quadro animato e sonoro. Nel film di Pasolini inoltre la voce del regista imponeva la propria autobiografica presenza, mentre qui la voce dell’artista/autore, se esiste, è assente o dissolta, lui stesso confuso tra i soggetti, un io tra gli altri, io che è un altro, un altro io.
Quattro sedie vuote. Poi
corpi e volti intermittenti, alcuni su sedia a rotelle. Parlano, anzi
rispondono, come se la parola, anche quella sorgiva e originaria, fosse sempre
una risposta, una parola seconda. Parlano e cercano di definire nozioni come
amore, realtà, normalità, desiderio, arte, verità, solitudine, morte. Difficile
dire cosa è l’amore, dicono, e giù parole miti e profonde - una gioia, come una
vita in più, a me l’amore piace un sacco, un sole che risplende, un seme che
poi sboccia. Difficile descrivere l’incanto di questo delizioso pullulare di
frasi, il gioco della verità come fosse una palla, così prossimo al modello
libertario e an-archico della conversazione teorizzato da Denis Diderot. I
volti e i silenzi dicono a volte più intensamente delle parole, e guardiamo le
forme dei loro corpi che si protendono o ritraggono, la forza della loro
presenza nel buio dello sfondo, le mani intrecciate che si muovono, oppure
ferme sulle ginocchia, i sorrisi. Sono persone segnate dalla sofferenza
trascorsa e dagli impedimenti motori e linguistici (alcuni comunicano solo
digitando i tasti di un computer: “comunicazione aumentativa”, si dice), eppure
viene in mente Emmanuel Levinas, il filosofo dell’etica, quando parla
dell’epifania del volto dell’altro, significazione senza contesto, infinito,
volto che parla “in quanto solo esso rende possibile e incomincia ogni discorso”. Se non sapessi che le riprese
sono state effettuate individualmente in una videocabina, dispositivo inventato
sul campo da César Meneghetti, poi montate e giustapposte in inquadrature che
sono bellissimi tableaux vivants, troverei tutto assolutamente
magico. “Nell’impianto artistico della videocabina - ha detto
Meneghetti - abbiamo scambiato i ruoli e non esistono più registi e attori,
artisti e opere, ma siamo tutti sotto la stessa luce”.
Alessandro Zuccari l’ha
paragonata alle “gallerie di uomini illustri”, genere iconografico-letterario
in voga in età umanistica. Ma al posto di eroi ed eroine artificiosi, una
“antieroica eloquenza degli esclusi”. L’antiretorica delle persone ordinarie,
non solo gli anonimi che brechtianamente hanno fatto la Storia, ma gli esclusi
dalla frontiera biopolitica dell’umano, del civile, della norma, oltre che
naturalmente dell’arte. Artista che ha lavorato sulle frontiere e gli
sconfinamenti geografici e culturali, César Meneghetti ha proposto per questi
diversi confini un’alterità come condizione naturale dello sguardo, punto
d’arrivo di un lungo lavoro iniziato nel 2010. Come dice con splendida formula
uno dei soggetti sullo schermo, per esemplificare il concetto di normalità e
insieme liquidare la questione “un disabile è normale”.
“Io non sono reale, sono
Mirko Ghezzi-la realtà”, dice uno con una sapienza naturale alla Ludwig
Wittgenstein. E altri, che cito a memoria: “nel mondo succedono cose per colpa
di qualcuno che si potrebbero evitare”, “certe volte mi distacco dal mondo
reale”, “la realtà è dire la verità, come stanno le cose”, “dovresti dire tutte
le verità del mondo, ma non puoi perché il mondo circola, è come con la
bicicletta, si pedala, si pedala, finché capisci il senso della vita”. Così
come non c’è bisogno di essere filosofi per dire la verità, né di essere
illustri per essere memorabili e notevoli, capiamo che non c’è bisogno di
essere disabili per essere disabili. Non c’è nemmeno bisogno di essere artisti
per non essere disabili, ma forse “artista” e “disabile” sono entrambi
portatori di una speciale e personalissima abilità, fosse anche solo l’abilità
nel disporre della propria personalissima disabilità. Il discorso sarebbe
lungo, e ci porterebbe forse a una nuova definizione dell’umano, e sia merito a
quest’opera di porne le basi, visibili a Venezia nell’Isola di San Servolo, a
due passi dall’ex manicomio e dalla Fondazione Franco Basaglia. Speriamo anche
che renda visibili e apprezzate le tante realtà in Italia in cui disabilità e
arte sono coniugate in processi educativi e comunitari senza sostegni né fondi.
Le persone cosiddette
disabili che hanno lavorato con Meneghetti alla realizzazione dell’opera sono
da anni impegnate nei laboratori di educazione artistica della Comunità
Sant’Egidio a Roma. IO È UN ALTRO è un work in progress il cui
progetto vinse il Premio Brasil Arte Contemporanea della Fondazione Biennale di
São Paulo e fu presentato al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea
dell’Università La Sapienza di Roma, animato dalla bravissima e infaticabile
storica dell’arte contemporanea Simonetta Lux, che ai laboratori d’arte del
Sant’Egidio ha dedicato, con Zaccuri, il libro edito da Gangemi Con l’arte,
da disabile a persona.
Chi scrive quest’articolo ha
avuto modo di conoscere i laboratori e le persone che lo frequentano,
constatando che l’opera d’arte più importante è la comunità umana di cui l’arte
e l’estetica sono da sempre simbolo e utopia; e per cui i più grandi forgiano a volte addirittura
una lingua, come questa meravigliosa poesia scritta al computer col metodo
della comunicazione aumentativa da Gabriele Tagliaferro, uno dei “disabili” del
Sant’Egidio: “Riuscire
a pensare di potere parlare / per tanti aspetti è squisita civiltà partecipare
/ ma la parola oramai non gente antica trova /che sappia ascoltare / [...]
parole più limiti non hanno / deficitario linguaggio perplessi rende / ma
opportune espressioni ore di lavoro richiedono”.
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