10/29/2013

La poesia di Lou Reed, e l'epifania delle giornate perfette



   Quando ero ragazzo, negli anni Settanta, Lou Reed non era molto ben visto dal pubblico e dalle riviste “di sinistra”, per la sua fama di tossico e l’ambiguità delle sue canzoni. Anche a me turbava il candore gelido e tagliente di Berlin (1973), suo terzo album, il cinismo di Man of good fortune, quando a proposito della differenza tra il figlio del ricco e il figlio del povero, dice and me I just don't care at all (“e a me non me ne frega proprio niente”). Per non parlare di Heroin, di cui vedevo gli effetti nella vita reale. In realtà a darmi i brividi era la magistrale ambiguità delle sue canzoni, tono e parole insieme, come il freddo che fa in Alaska in Caroline says II. A turbarmi era la scoperta della poesia, avvenuta per me in contemporanea con quella definitivamente liberatoria di Allen Ginsberg.
   Transformer, del 1972, aveva già l’autorevolezza per spiegare l’imprendibilità delle poesie, e la parentela stretta e tenace che esiste tra ambiguità e verità. Conteneva veri e propri inni gioiosi alla liberazione come Make up (i versi “We’re coming out / out of our closets”, “fuori dai nostri armadi”, sono leggendari), l’ironia di New York Telephone Conversation e  la forza narrativa di Walk on a Wild Side, e  l’inafferrabile bellezza di Perfect day. Ma lo scoprii più tardi.
              

   Anni fa tenevo su questo giornale una rubrica dal titolo Sunday morning. Naturalmente era un tributo a Lou Reed e all’omonima canzone dei Velvet Underground, con quella specie di carillon elettrico insieme malinconico e gioioso come la voce di Nico o di Lou Reed, intensa e asciutta come occhi lavati dal pianto o dal vento. La domenica era per me sinonimo di un beato spaesamento, essere fuori orario e fuori luogo, provare ad esempio la sottile sinestesia dell’andare al cinema di pomeriggio e uscire col sole addosso da quel sogno nella sala oscura, accorgersi che il paesaggio urbano poteva rivelarsi elegiaco come gli oggetti ordinari della Pop Art. L’idea della domenica significava anche un particolare rapporto col tempo presente e la realtà, un disincantato incanto, un modo di scrivere sul giornale allora inconsueto, guardare a quello che accade ma è nascosto a volte dalla sua stessa evidenza, o da quello che i giornali dicono che accade. Raccontare storie, news che restino tali anche dopo averle lette (che era già una definizione della poesia). Anche lo scrittore di fantascienza William Gibson aveva scelto come sua epigrafe ideale un verso di Sunday morning: «attento ai mondi dietro di te».
   Era proprio questa la qualità delle canzoni di Lou Reed, autore di epifanie poetiche tra le più potenti del Novecento, alla pari di quelle, per intenderci, di Eliot e di Montale, o dell’autore di un altro celebre Mattino domenicale, Wallace Stevens.  L’ambiguità e indecidibilità della poesia, forse più ancora che con Dylan, entrava nel rock attraverso le sue canzoni.  Come nell’altra canzone “domenicale” di Lou Reed, Perfect day. Vi si descrive una giornata banale e festosa, la stessa qualità estetica degli oggetti della Pop Art: “Proprio una giornata perfetta / Sorseggiare sangria nel parco / E più tardi quando fa buio tornarsene a casa / Proprio una giornata perfetta / Dar da mangiare alle bestie dello zoo / Poi un film, e infine a casa”. Di che cosa parla questa canzone, e perché è così struggente? Ricordava esattamente un crepuscolarismo stordito, un Gozzano o un Marino Moretti che avessero fatto l’esperienza dell’elettroshock. Quello che accadde al giovanissimo Lou Reed, cresciuto in una famiglia della piccola borghesia ebraica di Brooklin, per curare le sue tendenze omosessuali (dieci anni prima Allen Ginsberg dovette andare per lo stesso motivo in manicomio).



   Curiosamente, tra gli innumerevoli e quasi unanimi tributi a Lou Reed, proprio di questa canzone ha twittato ieri una strofa il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio per la cultura: Oh, it’s such a perfect day / I’m glad I spent it with you… (“Proprio una giornata perfetta / Sono felice di averla passata con te”). Forse non è così importante sapere se Lou Reed si rivolgesse alla persona amata o, più verosimilmente, all’eroina – “You just keep me hanging on”, “ Mi dai la forza di tirare avanti” - in questa canzone che è nitida e ambigua come un’inquadratura di David Lynch, capace di farci entrare in una dimensione in cui confondiamo l’ansia con il sollievo.
   Lou Reed è morto domenica, un sunday morning. Due giorni prima moriva il meno famoso Arthur C. Danto, filosofo e critico d’arte che insegnò per anni alla Columbia University. Che c’entra con Lou Reed, a parte la comune New York? C’entra Andy Warhol. Così come Warhol “scoprì” e valorizzò per primo Lou Reed, producendo l’album The Velvet Underground and Nico nel 1967, Danto “scoprì” Andy Warhol, dato che  l’impulso filosofico a spiegare l’estetica del “ready made” gli venne proprio dalla mostra di Andy Warhola New York del 1964, che esponeva la Brillo Box e altri prodotti seriali. Era la Pop Art, che espose e portò nei musei tra l’altro le lattine di zuppa Campbell’s o di Coca Cola, cioè i feticci del gusto americano e della sua trasversale democrazia dei consumi: la stessa lattina di Coca Cola gustata dal Presidente degli Stati Uniti la beve anche l’homeless sul marciapiede, e non ha quindi ragione di invidiarlo. Ciò che spiega forse anche la trasversalità del rock negli Usa.
   E’ su questo sfondo che hanno preso forma le splendide ballate di Lou Reed, la sua epica forte e perturbante, cruda e sempre carica di una qualità elegiaca. Storie durissime, ridotte all’osso del sociale e del narrativo, come un Raymond Carver strizzato all’estremo, “twittato”, senza risparmiarsi nulla di atroce, purché avvolto e quasi redento da una strana, vigorosa bellezza, pura come perle. News di cronaca nera che si possono ascoltare più e più volte, cantate e quasi parlate con un’energia musicale scarnificata e intensa, sintesi di jazz e rock, sperimentale come le sue parole. Come le ballate ridotte all’osso di New York (1989), che riprendono la vena di Walk on the Wild Side. Lou Reed non ha mai cessato di sperimentare nuove scritture, fino alla riscrittura di The Raven di Edgar Allan Poe. Come le rughe che hanno scritto e riscritto il suo incredibile volto.
 (articolo uscito su l'Unità del 29 ottobre 2013)


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