Da qualche tempo è in libreria questo libro di racconti di Marino Magliani e Giacomo Sartori montati insieme: Zoo a due, appunto, edito da Perdisa. La copertina è un disegno di Andrea Pazienza. C'è una prefazione che ho scritto io, perché questi racconti mi sono sembrati sorprendentemente belli, capaci di insegnare molto a chi legge e a chi scrive, insomma a tutti. Penso sia un ottimo libro da portarsi in vacanza, o da leggere a casa, in panchina, dove vi pare. Da leggere e basta. E ora vi anticipo qui quella prefazione che ho scritto qualche mese fa, col titolo Noi animali.
Noi animali
Non si scrive per
diventare scrittori, ma per diventare altro [...], diventare animali.
Gilles Deleuze
Dopo Tolstoj, dopo Kafka e Singer, sembrava
che degli animali scrivessero quasi soltanto i filosofi. Come ha scritto
Elizabeth de Fontanay (curatrice in Francia dei Trattati sugli animali
di Plutarco), parlare degli animali ebbe nel secondo Novecento la funzione di
denunciare l’umanesimo razionalista da cui discende il nazismo stesso, e
indicare il disastroso smisurato dominio dell’uomo sulla natura, su tutto ciò
che è. L’ultimo libro di racconti sugli animali che avevo letto (a parte certi
geniali scorci narrativi in Philip K. Dick, e i libri del nobel J. M. Coetzee),
era Dogwalker del giovane americano Arthur Bradford, dove gli animali
sono narrati alla stessa stregua di umani handicappati e marginali: cani a tre
zampe, gatti e molluschi accanto a uomini ciechi, bambini poveri e
caratteriali, vecchi e alcoolisti. La frontiera che separa nel vivente (o se
vogliamo nello “zoo”) “l’umano” e “l’animale”, è sempre più sfumata, perché la
vita quando è nuda e offesa non presenta molte dissomiglianze. Questione
biopolitica per eccellenza. L’inermità dell’animale rende paradossalmente
l’animale più umano dell’uomo, forse plus-umano, se non troppo umano.
Questo libro di Marino Magliani e Giacomo
Sartori ha come tema la vita, la vita pulsante, brulicante, debordante. Che è
anche ciò da cui sgorgano l’unica letteratura e l’unica filosofia possibili.
Che cosa è la vita? Michel Foucault (che della biopolitica è forse
l’iniziatore) la ridefinì così, poco prima di morire: non “ciò che si oppone
alla morte”, che ne fa anzi parte, ma “ciò che è capace di errore”. Mi piace
pensare che anche lui lo intendesse nel duplice senso di “errare”: commettere
errori – e quindi correggere la propria rotta per continuare il viaggio, la
navigazione – e appunto andare, vagabondare, scorrere. Errare. Ecco, questo
libro sulla vita che raccoglie storie di animali narrate in prima persona è
anche un trattato di nomadismo.
Nell’eteroclito zoo narrativo di Giacomo
Sartori, che va dal cane all’orso polare passando per un bruco sognatore, una
formica anarchica che esce dai ranghi per inoltrarsi nell’Aperto, un canarino
che viceversa ama la sicurezza della gabbia, un polipo narratore, un
dromedario, uno scarafaggio un halobacterium eccetera, c’è perfino un unicorno
(geniale inclusione) che esercita il dubbio iperbolico (quello cartesiano)
sulla propria esistenza. È la vita, pensa l’unicorno, a essere incomprensibile,
col suo “insondabile alternarsi di luce accecante e tenebre”, coscienza e
oblio, clamore e silenzio. La domanda dell’unicorno, di cui è dubbia
l’esistenza, è la vera domanda: dove comincia la vita? E quindi: dove comincia
l’animale? Non solo la mobile frontiera tra umano e animale, ma anche quella
tra i diversi “regni” (conosco persone che dialogano normalmente con piante e
sassi: sciamani, non pazzi).
C’è poi un’ameba nel bestiario di Sartori,
colta anch’essa in un lungo istante di fatica e di sconforto, un attraversamento
a suo modo della mistica “notte oscura”, mentre riflette sulla vita e quindi
sulla morte. Si chiede se quando “si diluirà come una goccia d’inchiostro in un
oceano” non sarà più nulla, e se i suoi pensieri “continueranno per conto loro
come una voce fuori campo”, e fino a quando. E mentre perdiamo di vista, noi
che leggiamo, ogni cesura tra noi e gli altri animali o creature, ci viene in
mente che quella voce “fuori campo” può essere un bel modo per dire la
letteratura, all’ameba accade (quando non sappiamo, il parametro del tempo
essendo estremamente variabile per gli esseri viventi) che la crisi
esistenziale e fisica che l’aveva avvolta evapori come un brutto sogno, l’acqua
del suo habitat ritorni a essere cristallina e della temperatura giusta, e allora
“hai solo voglia di abbuffarti di squisiti bocconcini, di folleggiare”. Così è
la vita, no?
Ora, se qualcuno ancora si chiede “perché
scrivere di animali”, mi viene in mente un filosofo contemporaneo che ha
descritto con terribile precisione le condizioni di insignificanti bassezza e
volgarità che pervadono le nostre democrazie di mercato, un libro intitolato Vivere
e pensare come porci, dove si cita in esergo questa frase di
Deleuze-Guattari: “Per sfuggire all’ignobile, non resta che fare come gli
animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è
talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo, anche se
democratico”[1].
È lo sfondo a cui, con estrema discrezione,
alludono gli abbaglianti racconti di Marino Magliani Il cane e il mare e
il suo seguito, Il figlio del cane e le colline. Strutturalmente a metà
tra la tragedia greca e il Bildungsroman, la loro crudezza epica ed elegiaca mi
ha ipnotizzato. È l’epopea di un cane abbandonato nelle colline che sovrastano
il mare, che inizia la sua erranza alla ricerca di un dove e di un senso, cioè
di se stesso – proprio come tanti illustri umani. Un cane vagabondo che sogna e
progetta viaggi in mare, studia l’architettura dei ponti e dei moli, fissa
dalle colline la “prateria nera” di notte, quel mare “che non sta fermo mai”,
come diceva la canzone. Un cane che ascolta i poeti, che si innamora dell’idea
architettonica di “arco”, mentre il lettore si innamora di lui. Magliani apre
una geografia oltre all’antropologia del vivente dai confini incerti, una
geo-politica dell’umano-animale, con toni a volte biblici, e sicuramente etici.
Le peregrinazioni dei suoi cani sono anche guidate dalla fame, e la fame è un
sentimento alto se l’affamato, scrisse Elio Vittorini in Conversazione
in Sicilia, è più uomo degli altri uomini; anche il cane di questi racconti
è “più uomo” quando ha fame, più nudo e offeso, più nobile perché inerme, sacer.
Se il punto di vista degli animali (qui del
cane: anche il cane di Sartori) ci scuote perché ci aiuta a vedere e a dire la verità,
solo gli animali sembrano darci l’umiltà e il coraggio di parlare delle cose
che contano davvero, di ripristinare e cercare di dare nuova salute mentale a
parole come madre, padre, casa, cibo, amore, e altre analoghe che fanno tremare
le vene ai polsi degli scrittori meno autentici, stavo per dire meno animali.
Per fortuna Magliani e Sartori non sono
soli: so che proprio in questo periodo altri si stanno svegliando a tessere
racconti che risveglino gli animali dentro e fuori di noi. Molti lavori sono in
corso, altri già reperibili, come il romanzo recente del mio amico Tim
Willocks, una road story di cani, anzi un western di cani, Doglands[2].
Le storie di cani e altri animali sono sempre inni
alla libertà e alla terra. Anche le storie di Magliani sono western
– raccontano cioè la lotta per l’esistenza in uno spazio geografico che ha
forte valenza narrativa. Nella storia di Magliani ci sono il mare
e le colline, il sogno poetico di archi e di ponti che s’inarcano anche
sott’acqua per rispuntare lontano, oltre la linea dell’orizzonte.
Ed ecco quindi la mia dedica a questo
libro.
Quando ne avevo saputo il titolo pensai di
titolare questa prefazione con la voce sgangherata di Enzo Jannacci, Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo
comunale. A patto che a cantarlo fossero gli animali, che si affacciano
indulgenti nello sterminato zoo, a volte irritante altre patetico, di noi umani
inconsapevoli. Giunto alla fine del libro mi affido invece alla voce
meravigliosamente animale di Bob Dylan quando canta, vero come un cane
“trasperso”, upon the beach where hound dogs bay at ships with tattooed
sails… “sulla spiaggia dove i segugi abbaiano verso
navi con vele tatuate, dirette verso i cancelli dell’Eden”. Il titolo, naturalmente,
è Gates of Eden.
[1]
L’autore è Gilles Châtelet, prematuramente
scomparso. Il libro è stato tradotto in italiano da Arcana nel 2002. La
citazione di Gilles Deleuze–Felix Guattari è da Che cos’è la filosofia.
[2] Tim Willocks, Doglands, Storia di un
cane che corre nel vento, Sonda 2012.
2 commenti:
Sempre così bello, leggere ciò che scrivi, che ogni volta mi si attivano collegamenti di collegamenti con collegamenti.
Insomma, sì: avessimo davvero amore per gli animali forse saremmo più consapevoli di quanto sia brutto allevarli a mucchi e standardizzati Iso9000 o di come sia brutto coccolare per mesi un cane per poi disfarsene perché fa caldo.
Nazisti a ore perse siamo (chi più, chi meno).
sì ross, grazie...
oltre a questo libro, leggi il libro che cito del mio amico tim willocks, è entusiasmante: un romanzo realista in cui i cani vincono contro gli umani cattivi, una storia epica di resistenza... un abbraccio
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