Pochi giorni prima che si
aprisse l’antologica alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma [Modello
Italia (2013-1964), a cura di Angelandreina Rorro, fino al 6 ottobre], di
Emilio Isgrò ho letto il libro appena uscito Come difendersi dall’arte e dalla
pioggia (Maretti editore). Non ricordavo che il grande artista della
cancellazione, che mi affascina da sempre come una specie di eroe o paladino,
fosse così a suo agio nello scrivere, e che il suo primo mestiere fosse stato
il giornalista responsabile della terza pagina, come si chiamavano una volta al
singolare le pagine di cultura. Non ho mai scordato però che scrivere vuol
dire, anche e soprattutto, cancellare.
Sulla copertina del libro che raccoglie elzeviri e conversazioni
l’artista di spalle guarda su una parete la sua opera Cancello il Manifesto
del Futurismo, e proprio l’intervento sulla trombonesca retorica del
manifesto di Marinetti, pubblicato nel 1909 sul Figaro, è un perfetto
esempio di come cancellare e scrivere siano sinonimi. Cancellare è riscrivere
(è il gioco dell’arte in ogni epoca), è trasformare il mondo e modificare la
realtà. Tutta l’arte dovrebbe farlo, ma quella di Isgrò, diciamo così, lo fa
più scopertamente, gioiosamente e insieme severamente; lo fa anche nel modo in
cui i filosofi del linguaggio chiamano “performativi” certi verbi che “fanno
ciò che dicono”, come “promettere”, “dichiarare” o dire di voler dissotterrare
l’ascia di guerra. “Dire è fare”, scriveva il filosofo John L. Austin.
“Diversamente da quel che può apparire – ha scritto Isgrò – la cancellatura non
è un segno puramente distruttivo, giacché impone al lettore di leggere pur
sempre tra le righe e sotto le righe, esplorando con la forza
dell’immaginazione la sostanza del mondo e delle parole”.
L’effetto può essere ironico o perturbante, come certe pagine de
la Costituzione cancellata (2010) in cui si leggono solo alcune parole -
“La giustizia è amministrata da giudici spaventati”, “Lo Stato può essere
sciolto da tre cittadini”. Ma sarebbe sbagliato prendere questo lavoro come una
provocazione. “I nostri padri costituenti - ha dichiarato Isgrò - sapevano
scrivere, oltre che leggere. E questo marca una differenza fondamentale tra
l’Italia di oggi e quella di ieri. Così che, cancellando, è questa differenza
che ho fatto emergere, trasformando un testo di alta cultura civile in un testo
poetico, pieno di struggimento e di pietà per un Paese che si sgretola sotto
gli occhi di tutti...”
Che ci sia una valenza politica forte in questa mostra che si
intitola appunto Modello Italia, è evidente anche al più ignaro
visitatore. Pur presentando le tappe del suo lavoro e alcuni classici,
dall’irresistibile serie “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò” del 1971 alle
sculture dei semi di arancia, simbolo di pace e di Sicilia; dai famosi libri
cancellati, cui si aggiungono i Codici ottomani, alle bellissime
carte geografiche cancellate, la mostra ha fin dal titolo qualcosa di grave,
sottolineato forse dall’insistente presenza di scarafaggi “scritti” che
invadono e inondano la realtà, o ri/scrittura della realtà. Lo stesso Isgrò mi
racconta come alcuni ragazzi hanno compendiato la loro reazione: “ci ha fatto
ridere e soffrire”.
“Mi piace dire cose gravi con leggerezza, per fare sorridere e
insieme pensare”, mi dice l’artista. La realtà di oggi è un horror, concorda,
“ma gli artisti e gli scrittori servono a questo, no?, a trasformare, a
temperare o a cacciare la paura. Senza essere romantico o idealista, penso che
la verità serva sempre, serve a tutti, alla politica e a noi stessi, per
guardare in faccia la realtà. C’è un aspetto distruttivo della cancellazione,
ma è volta anche al suo contrario, al riso”.
In Modello Italia ci sono le prime pagine dei maggiori
giornali italiani cancellate (è un onore) da Emilio Isgrò. Le parole sono
annerite, le figure sbiancate. C’è anche una prima pagina cancellata de l’Unità
nella sua grafica attuale che non ho riconosciuto subito, dove l’illustrazione
sbiancata al centro è una foto - me lo dice Isgrò - di Fabrizio Barca. Ogni
giornale ha un titolo che è una variante del Modello Italia, e quello de l’Unità
è “Modello delle ali tagliate”. Non ho
ritenuto di chiedere spiegazioni, né giustamente l’artista ha avuto
intenzione di darmene.
Quanto al particolare horror degli scarafaggi, “il primo
scarafaggio che presentai - mi dice Isgrò - fu nel 1980 a una Biennale: era
incapsulato in un grumo di colla, in un’opera fatta di tanti pezzi di
fotografie illeggibili dal titolo Biografia di uno scarafaggio. Tutti
pensarono al racconto di Kafka (che in realtà non avevo ancora letto), ma
quello che volevo esprimere era lo scollamento tra tutte le identità possibili
che un uomo possiede, compresa la vita sotterranea (come quella di uno
scarafaggio appunto). Uno scollamento tra il dire e il fare, anzi tra il detto
e il fatto”.
Impossibile non pensare a Pirandello e alla sua ossessione per le
identità plurali e inattingibili, ed è Isgrò stesso a venirmi incontro
confidandomi che il fatto di essere stato cresciuto da due donne, Mimma e Rosanna
Pirandello, del ramo messinese della famiglia del grande scrittore, non può
essere stato privo di influenze. A mitigargli invece il ribellismo e
l’anarchismo siciliano, mi racconta Isgrò, fu un amico-maestro triestino,
parente di Slataper e di Svevo, che gli fece leggere Marx e Freud, Einstein e
Heisenberg.
La Cancellazione del debito pubblico è un’opera del 2011
donata all’Università Bocconi di Milano, che gli aveva chiesto un‘opera.
“Subito pensai alla cancellazione del Capitale di Marx, ma era troppo
banale. Pensai allora di cancellare uno di quei neoliberisti come
Friedmann, responsabili della situazione economico-finanziaria attuale, finché
dissi per scherzo, come una battuta, che avrei cancellato il debito pubblico
italiano, e la reazione fu entusiastica. Lo venne a sapere Mario Monti, non
ancora capo di governo, e alla fine dovetti fare l’opera annunciata”.
Immagino che Monti abbia valutato con ammirata prudenza le
intenzioni di Isgrò, comprendendo, pur senza frequentare l’arte e l’estetica,
il pericoloso potenziale delle sue opere capaci di innescare effetti
inarrestabili di negazione/creazione di realtà. E’ proprio questo l’aspetto più
affascinante ed estremo, incontornabile, dell’arte di Isgrò (valido forse per
l’arte in generale), e che sconfina nell’atto sciamanico di far sparire e
apparire.
Il potere
di dissolvimento delle cancellature le avvicina da una parte alla satira e allo
sberleffo, a cui le cancellature di Isgrò possono assomigliare per l’ambiguità
del rapporto con l’oggetto “cancellato”, oppure al collage, per il loro potere
di creare nuovi sensi e nuove realtà. Io credo invece che il nodo
estetico-politico che le “cancellature” ci pongono assomigli molto
all’interrogativo e alla pratica filosofica più radicali della nostra epoca,
quello della “decostruzione” del filosofo Jacques Derrida. Occorrerà
riparlarne.