“L’inferno sta salendo da voi…”
(Un’intervista
a Furio Colombo sulla sua ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, trent’anni
dopo - l’Unità, 1 novembre 2005 - e che rileggo e pubblico qui sette anni dopo che avergliela
fatta)
Nell’emozionante collage di testi di Pier Paolo Pasolini portato
in scena da Fabrizio Gifuni (‘Na specie
de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci), alcune delle
frasi cruciali provengono dall’ultima intervista rilasciata dal poeta a Furio
Colombo l’1 novembre 1975, ovvero l’ultimo giorno di vita di Pasolini. E’
un’intervista dura e intensa, con frasi che suonano inevitabilmente
testamentarie. Non è l’unica ragione per cui ho proposto a Furio Colombo di
commentare l’unanime, forse troppo unanime commemorazione di Pier Paolo
Pasolini a trent’anni dal suo assassinio. Furio Colombo ha rappresentato in
questi anni una evidente “scomodità”, condivisa del resto col giornale da lui
diretto fino a qualche mese fa (un giornale di Cassandre, come ha detto
qualcuno).
Parliamo della
plurinvocata “mancanza” di Pasolini oggi, che dovrebbe presupporre una diagnosi
severa sulla distorsione della nostra democrazia. Perché così tanti, anche
quelli pienamente organici alla “società dei consumi” (che Pasolini chiamava
barbarie), e alla sua espressione ultima (il berlusconismo, diciamo pure)
scrivono che “manca” Pasolini? Cosa c’è dietro questo coro?
“Se dovessi rispondere con una scena, ne illuminerei tre. La
prima scena è questa: l’assenza o mancanza di Pasolini è quella illustrata da
Nanni Moretti quando, allegro, giovane e disincantato, faceva dire al suo
personaggio: “mi si noterà di più se vado o se non vado?” Ovvero, mi si noterà
di più se sono presente o se sono assente? Egli notava cioè come la realtà si
stesse trasformando in puro atto di presenza. In questa scena si invoca quindi
la mancanza di una figura che ha occupato un ruolo di grande rilievo nella
storia del Paese, così come l’assenza di qualcuno a un party. La sua assenza
viene “notata”, ma il vuoto o la mancanza avvertita dai commentatori è
superficiale e mondana, è un’assenza sociale. Sulla seconda scena di
questa”mancanza”, come dici tu invocata, compare invece l‘intellettuale
importante, l’autore di successo, con la sua valigia di valori originali, con
quelle caratteristiche immortalate da Giorgio Gaber: non è di destra e non è di
sinistra. Qualcuno che crede in un mondo fondato da lui stesso, da cui può
uscire e andarsene in vacanza. Se sulla prima scena c’era un’assenza sociale,
qui si tratta di un’assenza culturale. Ma Pasolini non si concedeva mai
vacanze, e anzi aveva una tendenza e una concezione dell’impegno che oggi,
molti, definirebbero ossessiva. La terza scena è occupata da coloro che pensano
che farsi notare sia dire sempre la cosa inaspettata, che stupisce. Se sei di
sinistra, dire una cosa di destra (il caso contrario è molto raro, d’altronde
quelli di destra non hanno molte cose da dire). Per gli altri si tratta di
parole che meritano attenzione, e su cui riflettere. Così si sente la
“mancanza” per contrasto. Ma Pasolini diceva sì l’inaspettato, ma lo faceva
pagando un prezzo molto alto. Un prezzo che lo allontanava un po’ di più da
tutti e non lo avvicinava a nessuno. Qui invece si tratta di osservare un
rigoroso sistema della moda: ‘io voglio essere quello che dice sempre cose
interessanti, anche (o meglio) contro la sua parte’. Ecco come interpreterei la
“mancanza” di Pasolini: un triplo vuoto, nel quale si sente all’improvviso e
quasi come un capogiro la mancanza del fortissimo senso di responsabilità che
Pasolini si portava addosso. Lui che era e viveva fuori dalle strutture della
società organizzata e dell’establishment per bene, parlava come se avesse la
responsabilità di governare, invece di andare in televisione come se avesse
tempo libero da buttare.”
Anche se molti lo
accusavano di nostalgia, la denuncia di Pasolini della “trasformazione
(degradazione) antropologica della ‘gente’” era frutto di un’attenzione acuta
allo stemperarsi delle differenze, al livellamento di idee e comportamenti,
cosa molto attuale. Cosa ne pensi?
“Nel denunciare lo stemperarsi delle differenze Pasolini era
molto più profetico di quanto si credesse e si dicesse, ben oltre quel senso di
nostalgia che gli si attribuiva incorniciandolo in una definizione
dell’antiquato, di una società arcaica, del paesaggio coi mulini o delle
lucciole, ecc. Quella rappresentazione della nostalgia pasoliniana conteneva
un’intuizione profetica che sfuggiva anche ai più intelligenti, mai capita a
suo tempo nemmeno da noi che eravamo nel Gruppo ’63, che pure lo ritenevamo un
maestro anche se lo discutevamo polemicamente in nome di un maggior dinamismo.
Ovvero l’aver capito che lo sfaldamento delle intelligenze stava portando non a
delle successive trasformazioni e promozioni sociali, ma a quello che è
successo: il contadino che non è più niente, l’operaio che non è più niente, il
quadro di fabbrica che non è più niente, il dirigente d’azienda che non è più
niente, un annullamento generale dove resta soltanto un’unica, barbara e
drammatica modalità di identificazione sociale: il povero e il ricco, chi è
sopra e chi è sotto. Con in mezzo i cortigiani (quelli che stanno nelle tv),
gli avventurieri (per esempio gli immobiliaristi) e tutti gli altri, sottomessi
e spaventati, nel lavoro precario. E non trovi più nulla per distinguere una
persona da un’altra perché nessuno è nessuno, salvo i ricchissimi. Pasolini ha
rimpianto le lucciole prima che le differenze tra l’uomo più ricco e l’uomo più
povero nello stesso Paese (stiamo parlando del mondo industriale avanzato) si
moltiplicasse all’improvviso per mille volte. Vorrei inserire qui, se me lo
permetti, un ricordo personale del tempo in cui, molto giovane, ho lavorato con
Adriano Olivetti. Poiché lo assistevo per la questione del personale, nel
periodo in cui stavo a Ivrea lui mi chiedeva di raccomandare ai contadini
diventati operai di non vendere la loro terra; se necessario era disponibile a
fare loro dei prestiti, affinché il contadino diventato operaio restasse anche
contadino. In questo caso, nei momenti difficili avrebbe avuto altre risorse.
Quando stavo in America e avevo la responsabilità del personale americano di
quell’azienda, ricordo questo ammonimento: il più alto in grado di noi non deve
guadagnare più di dieci volte dell’ultimo entrato nella fabbrica, altrimenti si
perde ogni legame umano. Ecco, se Pasolini era un nostalgico, lo era di questo
mondo”.
Vorrei ragionare con te
sul senso di “letteratura civile”, fatta di attenzione alla memoria, di un
farsi “parte civile”, cioè testimoniare affinché certi crimini non cadano mai
in prescrizione. La “mancanza” di Pasolini è spesso alibi per non riconoscere
l’esistenza di altri scrittori civili, altri testimoni oggi attivi…
“Sì, ma non vorrei che ci avventurassimo in classifiche sulla
presenza degli scrittori civili, cosa che apparterrebbe all’effimero
televisivo. Nel cinismo e opportunismo che attraversano il presente,
incoraggiati dalle convenienze, succedono ancora cose esemplari. Per esempio
dare il premio Nobel a Dario Fo, oppure darlo a Harold Pinter. Vuol dire – ed è
un’anomalia grandissima e benefica – non solo che esistono i Dario Fo e gli
Harold Pinter, ma che c’è chi, lontanissimo dai loro luoghi, se ne accorge e
vuole prenderne atto. Pinter è l’unico scrittore di teatro che si sia accorto
dei desaparecidos, dei crimini
spaventosi del fascismo argentino e cileno, che non vengono messi in alcun
conto, né hanno accreditato alcun “libro nero”. Gente che veniva gettata viva
da aerei in volo affinché tacessero per sempre, opposizioni che venivano
stroncate uccidendo giovani madri e dando i loro bambini in regalo a gerarchi
del tempo. Ecco, il fatto che ci siano stati scrittori che di cose del genere
si sono fatti testimoni, ci rassicura. Le voci civili non sono mai una folla,
ma ci sono sempre. Il fatto che in momenti successivi e non lontani alcuni
professori se ne accorgano, le riconoscano e le premiano, ci dice che su questa
strada disselciata la civiltà va avanti, e nonostante il cinismo e
l’opportunismo, gli indici di gradimento e la forza della pubblicità, cose che
contano e che lasciano il segno accadono ancora. Nel nostro stretto panorama
Italia, c’è chi ha pagato e continua a
pagare prezzi alti per non rinunciare a rendere testimonianza, benché continui
a essere sconveniente e rischioso come nel tempo e nel destino di Pasolini”.
Analizzando la situazione
politica italiana, poi parlando di sé, nella tua intervista disse Pasolini: “Perché
dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità? Voglio dirvelo
fuori dai denti: io scendo all’inferno e vedo cose che – per ora – non
disturbano la vostra pace. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi…” Al
che gli chiedesti che cosa sarebbe stato ancora possibile fare per difendersi
dall’inferno. Pasolini disse che ci avrebbe riflettuto, e ti promise una
risposta per il giorno dopo. Quella notte morì.
“Io non credo che Pasolini avrebbe risposto con una formula di
salvezza. Se c’era una cosa in cui un uomo come lui non avrebbe creduto, se
c’era una predicazione da cui si sarebbe astenuto, scartato, se c’era una
formula rituale di cui avrebbe avuto orrore, sarebbe stata certamente quella di
una formula di salvezza. Ma questo non
significa affatto che Pasolini sarebbe stato un intellettuale del pessimismo e
della condanna. Al contrario la sua poesia, la sua scrittura, e anche in parte
il suo cinema, erano una predicazione con un alto contenuto non solo di
rappresentazione delle cose così come sono, non solo del mettere in guardia, ma
anche del dire con fermezza almeno una cosa: ‘questo è il pericolo, ma non è
necessario che esso si realizzi in tutta la sua forza, e che noi si assista e
si subisca inutili e impotenti’. Abbiamo parlato di molte cose in cui Pasolini
credeva. Ecco una cosa in cui non credeva: mettersi sottovento, accettare le
cose così come stanno, e poi sperare che l’uno o l’altro di noi in qualche modo
se la cavi. Lui immaginava un destino, un’epoca, e un modo in cui quell’epoca
può divenire barbara o può invece essere un’altra cosa. La martellante denuncia
che nei frammenti di Petrolio diventa
molto più esplicita e non più solo indiziaria come negli Scritti corsari, ci dice
di un progetto o almeno di un chiaro oggetto verso il quale avremmo dovuto
tentare di dirigerci. Qualcosa che ha a che fare con la dignità, con
l’integrità e con la capacità di non perdere un doppio prezioso contatto - che
lui ci indica continuamente - con noi stessi e con la Storia, con ciò che siamo
e che possiamo essere, e con tutti gli altri. Strano caso di artista quello di
Pasolini, che non parla mai di una persona sola o di un destino solo, ma parla
di tutti. Che non immagina niente per se stesso, ma immagina per una
generazione, e poi per un’altra, e un’altra ancora. Ecco, io non so che cosa mi
avrebbe detto in quella risposta mancante, ma credo di sapere che quella
risposta che manca si sarebbe ambientata in questo percorso, perché corrisponde
a tutto il suo scrivere e a tutto il suo vivere”.
(uscita su l'Unità del 1° novembre 2005, prima pagina e pagina 22)
2 commenti:
mamma mia quanto profetico..e che coincidenza che proprio oggi con una persona si riguardava quell'incredibile scena della Ricotta: http://www.youtube.com/watch?v=_1-YsnH3KSY...al giorno d'oggi riammiro chi ha il desiderio di mettersi a fare il pane, a coltivare un orto, a condividere senza enfasi e proclami la scrittura (qualche giorno fa è passato qui da Torino Ermanno Cavazzoni e per due ore è riuscito a raccontare l’Evgenij Onegin di Puskin con una grazia e una cadenza che poi te le portavi a casa e ti rimanevano addosso come un suono o una coperta), a insegnare e condividere quello che sa, a scambiarsi le cose come abitanti del quartiere (mi viene in mente la Banca del Tempo)..gesti che sottraggono la vertigine di quel che racconta l’intervista: …”il contadino che non è più niente, l’operaio che non è più niente, il quadro di fabbrica che non è più niente, il dirigente d’azienda che non è più niente, un annullamento generale dove resta soltanto un’unica, barbara e drammatica modalità di identificazione sociale: il povero e il ricco, chi è sopra e chi è sotto”, e ricostruiscono piccole identità di senso dentro lo scambio…immagino un futuro da costruire che passi attraverso questi interstizi, di tempo, di spazio, di persone..dove reimpari molte delle azioni quotidiane dell’abitare.Emanuele
sì, hai ragione... l'avere ripescato questo pezzo mai messo on line è stato un caso di serendipity (cercavo altro...), ma anche a me colpisce molto l'attualità stringente, e questa crisi finanziaria misteriosa che è in realtà una guerra (non so quanto preventiva) contro i poveri, contro le popolazioni rese ormai tutte "di periferia" (v. il popolo greco...)
(beppe)
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