8/10/2012

L'ultimo sogno di Theo Angelopoulos

(Fotodal set di Ardalan Nabavinejad)
"Storia del film interrotto sulla crisi girato su un set in piena crisi". Articolo scritto con Valerio Jalongo, uscito su Venerdì di Repubblica il 10 agosto 2012.

 Una volta il regista Theo Angelopoulos raccontò di essere andato al cinema la prima volta a 5 o 6 anni, e di avere visto Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz, in cui James Cagney interpreta il ruolo di un gangster condannato a morte. “Il cinema entrò nella mia vita con un grido, quello di un uomo che non vuole morire e che invece muore. Ho spesso pensato che fu questa forse l’origine della mia vocazione, del mio amore per il cinema”. La confessione aderisce come una didascalia estetica e politica all’ultimo progetto di Angelopoulos, perseguito con accanimento tra mille difficoltà, un film incompiuto e privo di finanziamenti sulla crisi economica. La sua morte sul set, tragedia nella più ampia tragedia della Grecia, è avvenuta mentre un intero popolo stava perdendo la possibilità di autodeterminarsi, figuriamoci quella di raccontarsi.
   Quando un film non è un documento, ha scritto Ingmar Bergman, allora è un sogno. Nel caso del film di Angelopoulos si tratta di entrambi: un sogno la cui fragilità è documento della crisi profonda che sgomenta l’Europa, e a cui anche gli eredi di Bertolt Brecht, pur riconoscendo il grande valore dell’opera di Angelopoulos, hanno inferto un duro colpo negandogli il consenso di usare brani de L’opera da tre soldi, a cui il film era ispirato. Anche se è noto che i diritti di Brecht non vengono dati quasi a nessuno, Theo era convinto che sarebbe riuscito a convincere gli eredi, e andò avanti nelle riprese.
   A raccontarci questa storia è Ardalan Nabavinejad, assistente alla regia di Angelopoulos in questo film, iraniano, laureato Dams e neo-diplomato all’istituto Cine-Tv Rossellini di Roma. Un buon luogo per evocare questa storia emblematica del presente, che riguarda il destino della cultura, del cinema e di altre cose inutili e necessarie. In questo ex studio di produzione Ponti-De Laurentis furono girati celebri film, da La Strada di Fellini a Il Caimano di Moretti, e non a caso da qui Mario Monicelli perorò due anni fa gli studenti a ribellarsi, a fare le barricate contro i tagli alla cultura.
   Poco prima del colpo di stato dei colonnelli, Theo Angelopoulos tornò in Grecia dalla Francia. Fu coinvolto nelle manifestazioni e nella violenta repressione poliziesca, ricevette perfino delle manganellate, e decise di restare perché qualcosa di importante stava accadendo nel suo Paese. Per il suo ultimo film sentì la stessa urgenza storica di testimoniare una situazione forse altrettanto grave, e provò analoghe difficoltà, come girare un film senza mezzi o senza il permesso (lo fece per La Recita, suo capolavoro), anche se stavolta la costrizione era dettata da condizioni economiche. Ma si possono separare le condizioni economiche da quelle politiche? La trama del film tocca l’immigrazione: la Grecia come terra d’arrivo di immigrati da Iran, Afghanistan e Pakistan. Il protagonista, interpretato da Toni Servillo, è un funzionario corrotto che specula  sull’immigrazione clandestina, la cui figlia è invece un’attrice che sta mettendo in scena L’opera da tre soldi di Brecht, va alle manifestazioni di estrema sinistra a favore dei diritti degli immigrati e si fidanza con uno di loro. Ma è difficile parlare di un film di cui è stato girato solo un terzo del totale, conoscendo inoltre le doti di improvvisatore di Angelopoulos.
   Fuori dal film, intanto, mentre la situazione greca precipita, i finanziamenti da parte del produttore greco e quello turco vengono meno, ma Theo decide di andare avanti lo stesso, con un’ostinazione struggente nonostante il moltiplicarsi di segnali negativi. Quasi nessuno nella troupe è pagato, ma tutti pensano che sia importante fare questo film, e comunque non c’è lavoro. La produzione poggia sempre di più sull’economia personale del regista, mettendone in pericolo il patrimonio. La tensione nella sua stessa famiglia è palpabile, ma Theo si sente vivo solo quando è sul set. Il set è una casetta ricostruita nel porto del Pireo. La moglie del proprietario di un piccolo chiosco del porto cucina per la troupe: un panino con la frittata. Orari massacranti, Theo pretende il massimo, come se fosse un film “normale”, pienamente finanziato. Entrare nel set è come entrare in casa sua: la moglie e la prima figlia lavorano nella produzione, un’altra figlia alla scenografia e la più piccola collabora alla regia. Abituato a produzioni ricche, all’inizio Angelopoulos non accetta la penuria di mezzi. Una notte mezza troupe è completamente fradicia e gelata per i tentativi di fare un effetto pioggia, ma Theo si rifiuta di girare perché il risultato non è soddisfacente, e pretende una troupe italiana specializzata nella pioggia artificiale. Il direttore della fotografia e i macchinisti lo conoscono bene, sanno che il regista può essere molto creativo ma anche duro ed esigente, e gli sono fedeli. Persino gli altri della troupe capiscono, lo amano e lo rispettano. D’altronde, ha il rispetto di tutti i Greci. Quando si doveva bloccare una strada provocando ingorghi, camionisti, autisti e automobilisti spegnevano il motore senza protestare e aspettavano in silenzio, sapendo che era per permettere la lavorazione di un film di Angelopoulos. Anche se molti non vedevano i suoi film, era sentito come l’alfiere di una dignità nazionale negata in quel momento di crisi, in cui la sovranità del Paese era ipotecata dalle banche. Ricordiamoci che in quel periodo Grecia, Portogallo, Spagna e Italia vengono definite dal mondo finanziario pigs: porci. La scomparsa di Angelopoulos, nel momento in cui un popolo sta perdendo la propria sovranità, in cui un paese, la sua civiltà, un’intera nazione sono valutate dalle agenzie di rating, assume un significato particolarmente forte, una simbolica perdita della propria voce.
   Tutti avevano sconsigliato al regista la scelta di quel set alla periferia del Pireo in cui avvenne l’incidente fatale. La polizia propose due volte di bloccare il traffico, visto che era all’uscita di un tunnel e prossimo a uno svincolo, e le auto arrivavano a grande velocità. Ogni volta Theo rifiutò, perché quello che lui voleva era il traffico vero.
   Accade dunque nella Periferia Drapetsonos, una specie di circonvallazione veloce a doppia corsia. |Ci sono tre Tir carichi di materiali parcheggiati, e una gru che sta riprendendo un piano sequenza all’inizio di un viadotto; all’improvviso sopravviene una moto di grossa cilindrata che investe il regista scaraventandolo nello spazio interstiziale, la fessura tra le due corsie. Sono le 18,30. Il corpo, nella posa innaturale di un manichino, resta lì in bilico a lungo. Per ovvie ragioni: quel giorno c’è lo sciopero anche delle ambulanze. Circa 40 minuti dopo l’incidente ne passa una per caso (è in riposo), e subito si fa carico di soccorrere il regista. Muore alle 23,30 circa.
   La morte, così come il lavoro o l’interruzione del lavoro, scandiscono e avvolgono tutto il film. La prima scena era già una tragedia greca: la morte di un operaio che si suicida gettandosi dal tetto di una fabbrica, seguita da una manifestazione con la salma del lavoratore nella bara. Il giorno del funerale di Angelopoulos coincide con quello in cui il piano di lavorazione del film prevede un funerale. La seconda figlia di Theo, che già non riesce ad accettare la morte del padre, chiede alla troupe di venire a filmarne il funerale come se fosse parte del film: carrello, macchina da presa, tutto. Il regista amava molto la pioggia: e nel cimitero avviene l’ultimo omaggio estetico, quello degli ombrelli aperti... 
   Guardiamo il video di una festa improvvisata con la troupe, in un alba livida e fredda al Pireo, tutti hanno cappelli o fazzoletti sulla testa, cantano e danzano al suono di un clarinetto struggente e una fisarmonica per commemorare Angelopoulos a una settimana della morte. La casa che ospitava il set ora accoglie dei rifugiati. Ecco, andare oltre il lutto, sarebbe bello fare un film su quel film necessario e impossibile da tre soldi.


[Il cinema di Theo Angelopoulos (1035-2012) ha un’ispirazione politica e marxista, e si rifà all'idea del teatro epico di Brecht, e colpisce che proprio gli eredi di Brecht dovessero tradirlo. Formatosi in Francia, studi di Lettere alla Sorbona, per quanto molto diverso da Godard condivise con lui l’idea di un cinema “difficile”, manifestazione anche di una coscienza politica coinvolgente. Nei suoi film (da Ricostruzione di un delitto, 1970 a La polvere del tempo, 2009) dominano i leggendari piani sequenza, lenti e lunghissimi, all’interno dei quali a volte può succedere che si passi da un periodo all'altro della storia dei protagonisti - come ne La Recita, che intreccia passato, presente e mitologia greca.]

8/05/2012

La finestra sul mare (reportage estivo da Ostia)

(versione corretta del pezzo apparso domenica 6 agosto su Repubblica-Roma, per la serie "Vacanze d'autore")


   Anche se è grande e popolata come una città, mi piace che Ostia sia solo un distretto di Roma col mare. Quella di Lido centro sembra una vera stazione, anche se ci arriva solo il trenino che parte dalla Piramide, e da lì è bello camminare in via della Pineta o nella strettissima via dei Fabbri Navali, nucleo originario di Ostia che ricorda l’atmosfera di Monteverdevecchio o del Gianicolo. In via degli Acilii c’era un’osteria in un giardino, sotto una tettoia di vigna, “da Oscar”, oggi solo rivendita di vino per gli intimi. Sembra di stare in un altro mondo. Suppongo però che devo parlare di spiagge.

   Le più eleganti sono quelle di levante (le più “esclusive” sono ancora più giù, verso Castelfusano, dove le cabine si tramandano in famiglia), ma io vado a ponente, nella cosiddetta “Ostia destra” – a destra del pontile. E’ più povera, il lungomare si restringe e le case sono condomini in puro stile geometrile anni ’60 e ’70, salvo le ex colonie fasciste in cui il sindaco Alemanno vorrebbe fare un casinò, e che per ora ospitano, perfetta nèmesi, una varietà di minoranze e di disagiati: la moschea, la mensa della Caritas, vari alloggi abitati da colorati extracomunitari, e la bellissima biblioteca Elsa Morante, rifugio di quegli speciali disadattati che siamo noi lettori di libri. Il tratto di lungomare chiamato Duca degli Abruzzi, poco più avanti, fino a qualche anno fa era addirittura malfamato, ma ha il privilegio di offrire il sollievo della vista di mare e spiagge libere a chi cammina - sul lungomare appunto, non “lungomuro” come quasi ovunque a Ostia. Alla fine del lungomare di ponente c’è il nuovo porto turistico, e in estate il sole tramonta così esattamente alla fine della strada da farle meritare l’appellativo di Sunset boulevard...

   Dopo il porto turistico c’è l’Idroscalo. Era una sorta di favela sulla foce del Tevere, cosi chiamata per gli idrovolanti che nel ventennio fascista partivano da qui (Fiumicino sarebbe nata più tardi). Ci si arriva lasciandosi alle spalle i palazzoni edificati per i senza casa dal sindaco Petroselli negli anni ’80, si costeggiano i cantieri navali coi lussuosi yachts, e l’oasi della Lipu con il monumento a Pier Paolo Pasolini (nel luogo preciso in cui fu ammazzato), dove volteggiano a volte fenicotteri bianchi e rosa. Sulla destra, in una polverosa distesa, l’ottagonale torre di avvistamento progettata da Michelangelo, detta anche “Torre di San Michele”, abbandonata da anni a non essere vista né ad avvistare più nulla. Finché la strada finisce, tra il mare e il nulla, un nulla non privo di dolcezza dai colori pastello, e una spiaggetta rocciosa dove giocano e nuotano soprattutto bambini. La finestrella di una casetta con le foto dei gelati attaccate al muro rivela l’esistenza di un bar che sembra sopravissuto agli anni ’60. Era, e in parte è ancora, un mondo di estremamente poveri e precari, in case e baracche di materiali di risulta, ma con statuine di Padre Pio, vasi di fiori, decorazioni sulle porte. Sembra uscito dal remake di un film di Pier Paolo Pasolini diretto da David Lynch, se penso agli uomini e donne coperti di tatuaggi che vidi anni fa in festose serate estive alla luce rubata dai pali elettrici, animate dal karaoke, da balli e dall’elezione di Miss Idroscalo. E soprattutto alla devozione quasi pagana, forse per questo ancora più religiosa, della festa dell’Assunta il 15 agosto, detta anche Festa del Mare: quando il barcone con la statua lignea della Madonna, i lunghi capelli sciolti come nella canzone di De André, prende il largo, e i poveri festeggiano a fianco delle autorità in una solennità iperreale e sballata, come i fuochi d’artificio fuori sincrono. Catarsi di una comunità disaggregata degna di essere raccontata in un film, oggi dispersa dalle ruspe e dai progetti immobiliari.
   Ho un amico poeta che abita a Ostia destra, con una terrazza sul lungomare e la spiaggia. Vado spesso da lui a pranzo o a cena (è un ottimo cuoco), poi finisce che resto lì per una breve vacanza. Eccomi dunque qui a guardare il mare e la spiaggia dall’alto nell’ora che preferisco, quella in cui si svuota, gli stabilimenti chiudono come gli ombrelloni e tutto acquista luce e spazio abitabile, una petroliera rossa all’orizzonte, e sarebbe bello scendere a nuotare. Ma ecco che alle 19,15 circa gli stessi stabilimenti balneari si cambiano d’abito per la loro second life, annunciata da prove  di colonne sonore, all’inizio appena accennate, poi continue, dilatate in una poltiglia sonora ad altissimo volume. Quando il sole è ormai atterrato da un pezzo all’Idroscalo, e un argento uniforme confonde cielo e mare, a un certo punto un pianoforte classico rivaleggia con l’immancabile Folle idea di Patty Pravo, e tra i due motivi prevale il basso della voce di Louis Armstrong in What a wonderful world: è il segnale. La concorrenza dei bar della spiaggia non risparmia niente e nessuno: percussioni africane versus tromba romantica, Besame mucho contro rock italiano anni ’60, disco music e perfino una soprano dal vivo tra i tavoli di un ristorante. Un brusio-remix che arriva come aromi di cucina portati dal vento in cui si mischiano tra loro pietanze diverse. In cielo resta un vago alone rosa, il resto è buio, il porto turistico con le sue torrette sembra il profilo di un’Istanbul in miniatura, e il popolo dell’happy hour comincia a fluire e invadere le spiagge come zombi teneri e sonnacchiosi. E’ la globalizzazione della sbronza, nel babelico jukebox della notte rutilante. C’è la spiaggia-balera e il piano-bar, il pub e la discoteca e così via, a ognuno la sua musica. A giudicare dal flusso di corpi che dal lungomare entrano negli stabilimenti, la spiaggia è più gremita che di giorno.
   Poi bisognerebbe descrivere l’incanto del mattino presto, il chiarore terso e pulito del mare. Le spiagge vuote e struccate, senza il belletto notturno, percorse dai trattori che le spianano come tosaerba, sorprendono per la loro freschezza nella luce silenziosa del giorno. Certo, di giorno ci si chiede perché quel bar con le capanne sulla sabbia debba chiamarsi Polynesian Cocktailbar, e cos’abbiano di polinesiano i condomini di fronte. Ma questa, del divario tra le parole e le cose, è un’altra e vecchissima storia.