(Fotodal set di Ardalan Nabavinejad) |
Una volta il regista Theo Angelopoulos raccontò di essere andato al cinema la
prima volta a 5 o 6 anni, e di avere visto Angeli con la faccia sporca
di Michael Curtiz, in cui James Cagney interpreta il ruolo di un gangster
condannato a morte. “Il cinema entrò nella mia vita con un grido, quello di un
uomo che non vuole morire e che invece muore. Ho spesso pensato che fu questa
forse l’origine della mia vocazione, del mio amore per il cinema”. La
confessione aderisce come una didascalia estetica e politica all’ultimo
progetto di Angelopoulos, perseguito con accanimento tra mille difficoltà, un film incompiuto e
privo di finanziamenti sulla crisi economica. La sua morte sul set, tragedia
nella più ampia tragedia della Grecia, è avvenuta mentre un intero popolo stava
perdendo la possibilità di autodeterminarsi, figuriamoci quella di raccontarsi.
Quando
un film non è un documento, ha scritto Ingmar Bergman, allora è un sogno. Nel
caso del film di Angelopoulos si tratta di entrambi: un sogno la cui fragilità
è documento della crisi profonda che sgomenta l’Europa, e a cui anche gli eredi
di Bertolt Brecht, pur riconoscendo il grande valore dell’opera di
Angelopoulos, hanno inferto un duro colpo negandogli il consenso di usare brani
de L’opera da tre soldi, a cui il film era
ispirato. Anche se è noto che i diritti di Brecht non vengono dati quasi a
nessuno, Theo era convinto che sarebbe riuscito a convincere gli eredi, e andò
avanti nelle riprese.
A raccontarci questa storia è Ardalan Nabavinejad, assistente alla
regia di Angelopoulos in questo film, iraniano, laureato Dams e neo-diplomato
all’istituto Cine-Tv Rossellini di Roma. Un buon luogo per evocare questa
storia emblematica del presente, che riguarda il destino della cultura, del
cinema e di altre cose inutili e necessarie. In questo ex studio di produzione
Ponti-De Laurentis furono girati celebri film, da La Strada
di Fellini a Il Caimano di Moretti, e non a caso da qui Mario
Monicelli perorò due anni fa gli studenti a ribellarsi, a fare le barricate contro
i tagli alla cultura.
Poco prima del colpo di stato dei colonnelli, Theo Angelopoulos
tornò in Grecia dalla Francia. Fu coinvolto nelle manifestazioni e nella
violenta repressione poliziesca, ricevette perfino delle manganellate, e decise
di restare perché qualcosa di importante stava accadendo nel suo Paese. Per il
suo ultimo film sentì la stessa urgenza storica di testimoniare una situazione
forse altrettanto grave, e provò analoghe difficoltà, come girare un film senza
mezzi o senza il permesso (lo fece per La Recita, suo capolavoro), anche
se stavolta la costrizione era dettata da condizioni economiche. Ma si possono
separare le condizioni economiche da quelle politiche? La trama del film tocca
l’immigrazione: la Grecia come terra d’arrivo di immigrati da Iran, Afghanistan
e Pakistan. Il protagonista, interpretato da Toni Servillo, è un funzionario
corrotto che specula sull’immigrazione clandestina, la cui figlia è invece
un’attrice che sta mettendo in scena L’opera da tre soldi di Brecht, va
alle manifestazioni di estrema sinistra a favore dei diritti degli immigrati e
si fidanza con uno di loro. Ma è difficile parlare di un film di cui è stato
girato solo un terzo del totale, conoscendo inoltre le doti di improvvisatore
di Angelopoulos.
Fuori dal film, intanto, mentre la situazione greca precipita, i
finanziamenti da parte del produttore greco e quello turco vengono meno, ma
Theo decide di andare avanti lo stesso, con un’ostinazione struggente
nonostante il moltiplicarsi di segnali negativi. Quasi nessuno nella troupe è
pagato, ma tutti pensano che sia importante fare questo film, e comunque non
c’è lavoro. La produzione poggia sempre di più sull’economia personale del
regista, mettendone in pericolo il patrimonio. La tensione nella sua stessa famiglia
è palpabile, ma Theo si sente vivo solo quando è sul set. Il set è una casetta
ricostruita nel porto del Pireo. La moglie del proprietario di un piccolo
chiosco del porto cucina per la troupe: un panino con la frittata. Orari
massacranti, Theo pretende il massimo, come se fosse un film “normale”,
pienamente finanziato. Entrare nel set è come entrare in casa sua: la moglie e
la prima figlia lavorano nella produzione, un’altra figlia alla scenografia e
la più piccola collabora alla regia. Abituato a produzioni ricche, all’inizio
Angelopoulos non accetta la penuria di mezzi. Una notte mezza troupe è
completamente fradicia e gelata per i tentativi di fare un effetto pioggia, ma
Theo si rifiuta di girare perché il risultato non è soddisfacente, e pretende
una troupe italiana specializzata nella pioggia artificiale. Il direttore della fotografia e i macchinisti lo
conoscono bene, sanno che il regista può essere molto creativo ma anche duro ed
esigente, e gli sono fedeli. Persino gli altri della troupe capiscono, lo amano
e lo rispettano. D’altronde, ha il rispetto di tutti i Greci. Quando si doveva
bloccare una strada provocando ingorghi, camionisti, autisti e automobilisti
spegnevano il motore senza protestare e aspettavano in silenzio, sapendo che
era per permettere la lavorazione di un film di Angelopoulos. Anche se molti
non vedevano i suoi film, era sentito come l’alfiere di una dignità nazionale
negata in quel momento di crisi, in cui la sovranità del Paese era ipotecata
dalle banche. Ricordiamoci che in quel periodo Grecia, Portogallo, Spagna e
Italia vengono definite dal mondo finanziario pigs: porci. La scomparsa
di Angelopoulos, nel momento in cui un popolo sta perdendo la propria
sovranità, in cui un paese, la sua civiltà, un’intera nazione sono valutate
dalle agenzie di rating, assume un significato particolarmente forte, una
simbolica perdita della propria voce.
Tutti avevano sconsigliato al regista la scelta di quel set alla
periferia del Pireo in cui avvenne l’incidente fatale. La polizia propose due
volte di bloccare il traffico, visto che era all’uscita di un tunnel e prossimo
a uno svincolo, e le auto arrivavano a grande velocità. Ogni volta Theo
rifiutò, perché quello che lui voleva era il traffico vero.
Accade dunque nella Periferia Drapetsonos, una specie di
circonvallazione veloce a doppia corsia. |Ci sono tre Tir carichi di materiali
parcheggiati, e una gru che sta riprendendo un piano sequenza all’inizio di un
viadotto; all’improvviso sopravviene una moto di grossa cilindrata che investe
il regista scaraventandolo nello spazio interstiziale, la fessura tra le due
corsie. Sono le 18,30. Il corpo, nella posa innaturale di un manichino, resta
lì in bilico a lungo. Per ovvie ragioni: quel giorno c’è lo sciopero anche
delle ambulanze. Circa 40 minuti dopo l’incidente ne passa una per caso (è in
riposo), e subito si fa carico di soccorrere il regista. Muore alle 23,30
circa.
La morte, così come il lavoro o l’interruzione del lavoro,
scandiscono e avvolgono tutto il film. La prima scena era già una tragedia
greca: la morte di un operaio che si suicida gettandosi dal tetto di una
fabbrica, seguita da una manifestazione con la salma del lavoratore nella bara.
Il giorno del funerale di Angelopoulos coincide con quello in cui il piano di
lavorazione del film prevede un funerale. La seconda figlia di Theo, che già
non riesce ad accettare la morte del padre, chiede alla troupe di venire a
filmarne il funerale come se fosse parte del film: carrello, macchina da presa,
tutto. Il regista amava molto la pioggia: e nel cimitero avviene l’ultimo
omaggio estetico, quello degli ombrelli aperti...
Guardiamo il video di una festa improvvisata con la troupe, in
un alba livida e fredda al Pireo, tutti hanno cappelli o fazzoletti sulla
testa, cantano e danzano al suono di un clarinetto struggente e una fisarmonica
per commemorare Angelopoulos a una settimana della morte. La casa che ospitava
il set ora accoglie dei rifugiati. Ecco, andare oltre il lutto, sarebbe bello
fare un film su quel film necessario e impossibile da tre soldi.
[Il cinema di Theo Angelopoulos (1035-2012) ha un’ispirazione politica e
marxista, e si rifà all'idea del teatro epico di Brecht, e colpisce che
proprio gli eredi di Brecht dovessero tradirlo. Formatosi in Francia,
studi di Lettere alla Sorbona, per quanto molto diverso da Godard
condivise con lui l’idea di un cinema “difficile”, manifestazione anche di
una coscienza politica coinvolgente. Nei suoi film (da Ricostruzione di un
delitto, 1970 a La polvere del tempo, 2009) dominano i leggendari
piani sequenza, lenti e lunghissimi, all’interno dei quali a volte può
succedere che si passi da un periodo all'altro della storia dei
protagonisti - come ne La Recita, che intreccia passato, presente e mitologia
greca.]