[...]
Le passeggiate del sognatore solitario, iniziate
nell’autunno 1776, subito dopo la redazione dei Dialoghi (Dialogues ou
Rousseau juge de Jean.Jacques) - la seconda passaggiata è redatta alla fine
dell’anno, dopo l’incidente di Ménilmontant de 24 ottobre 1776 - , riprese nel
1777 (dalla terza alla settima), e poi nel 1778 (dalla fine dell’inverno al 2
maggio, “jour de Pâques fleuries”), è forse il manifesto di ciò che viene
chiamato pre-romanticismo. Che cosa vuol dire? Nel suo senso profondo, come il
romanticismo, si tratta della precoce scoperta di una dimensione della
sensibilità e dell’intelletto - una nuova soggettività - inseparabile da una
consapevolezza critica delle strutture sociali della nostra civiltà, e del
conseguente rimpicciolirsi del concetto di realtà, che in compenso si veste di
una solida armatura. In Rousseau la fondazione della soggettività si
accompagna, è noto, alla passione della politica e all’invenzione della
democrazia, quella “sovranità popolare” spesso abusata e manipolata dai
posteri. In questo senso appartengono al romanticismo gli scritti di Rousseau
come quelli di Marx (accomunati da una denuncia, pur se su piani diversi,
dell’alienazione), la Ginestra di Leopardi e l’Albatros di
Baudelaire, la veggenza di Rimbaud e i mondi possibili di Philip K. Dick (e la
sua interrogazione sulla realtà della realtà), il Disagio della civiltà
di Freud e Eros e civiltà di Marcuse, Allen Ginsberg, gli hippie e il
recente movimento di protesta Occupy WS. La dimensione inaugurata dal
romanticismo, a differenza di altri ismi, non ci abbandonerà più. Quello di
Rousseau, scaturito nel pieno del secolo dell’Illuminismo, è la scoperta che,
una volta lasciata la propria casa, è molto difficile ritornarvi, e
l’alternativa è tra la deriva nomade (come la Wanderung dei romantici
tedeschi) e la costruzione di una nuova , spesso utopica dimora.
Le Passeggiate è un’opera in cui la natura è
onnipresente, ma il cui centro è quello che l’autore chiama “il sentimento
dell’esistenza”, ciò che lo rende il primo testo consapevolmente ecologico (nel
senso anche di un’ecologia della mente) della letteratura moderna in Europa. E’
l’opera in cui con più fascino si dispiega l’incomparabile musicalità della
lingua di Rousseau, e dove per la prima volta si fa uso della parola
“romantico” (e a volte dell’adiacente “romanzesco”) in riferimento a un
paesaggio, o meglio, a un modo di vedere il mondo esterno e dirsi consapevoli
di essere nel mondo, e che tutto è connesso con tutto. E’ anche un documento
straordinario della patologia psichica di un individuo che cerca e trova
compensazione e sollievo alla propria sofferenza nell’attività di sognare a
occhi aperti, nell’ozio e nella contemplazione (che significa: fare il proprio
tempio), nel libero divagare con la mente – tutte azioni racchiuse nella parola
rêverie, “trasognamento”; che trova compensazione e sollievo nel
registrare, in una scrittura altrettanto libera, l’ebbrezza e l’incanto di
questo abbandono. E’ la testimonianza poetico-psichica di un’operazione
alchemica riuscita, una trasmutazione della sofferenza in musica attraverso una
serie di altre trasformazioni esemplari: della passione in pazienza, del
disagio in armonia, della lotta in resa, dell’esilio in estasi, dell’odio in
conciliazione, della solitudine in grazia e autosufficienza. E dove immanente e
trascendente, vita e sogno, come in ogni vera esperienza estatica (ed estetica)
coincidono.
E’ infine il primo testo non di finzione in cui l’autore,
esiliato e auto-esiliatosi dal mondo, ormai fuori dal sistema di circolazione e
valorizzazione degli oggetti letterari (dall’establishement, si diceva nel
Novecento) e dall’orizzonte di un pubblico, è davvero convinto di rivolgersi
solo a se stesso (pur non scrivendo un diario), senz’altri testimoni (tranne Dio e il vago fantasma dei posteri),
ciò che accomuna le Rêveries alla forma della preghiera.
[...]
La mia responsabilità si segnala già dal titolo, che
anagrammando l’ordine di quello originale, Les rêveries du promeneur
solitaire, evita di incorrere nella falsa, oltre che fastidiosamente
cacofonica, traduzione abituale (“Le fantasticherie del passeggiatore
solitario”), di fronte alla quale provo da sempre un moto di rigetto. Sono molto
contento di non adoperare mai né la parola “fantasticheria” né tantomeno
“passeggiatore”. Il titolo adottato rispecchia d’altronde le scansioni del
testo in capitoli, che Rousseau chiama “Passeggiate”, e come si vedrà tutto
nella sua concezione porta a un’identificazione tra il camminare e il sognare
(e un certo modo di scrivere) nella comune sintesi di vagare, divagare,
vagabondare con la mente e col corpo (coi piedi). Quanto alla bellissima parola
rêverie, sogno prolungato e spesso diurno, essa non designa in nessun
caso uno sforzo cosciente, non ha la frivolezza di una “fantasticheria” - che
presuppone già un giudizio, e un’idea di “realtà” da cui il fantasticare è
supposto allontanarsi - e precede in ogni caso ogni eventuale codificazione
letteraria in generi. Ho adottato la parola italiana trasognamento, che
dice e mantiene esattamente l’idea di un sogno prolungato e in stato di veglia.
Come ci ricorda Tommaseo nel suo Dizionario, “trasognare” significa
“andar vagando nella mente, come fa colui che sogna” (ed è usato in questo
senso ad esempio dal Boccaccio nel Ninfale Fiesolano). Occorre
poi ricordare che all’epoca di Rousseau non c’era tanta distinzione tra la
meditazione, la contemplazione e il sogno a occhi aperti.
In un dotto excursus etimologico, Marcel Raymond, uno degli
interpreti più appassionati di Rousseau, ha ricordato che il verbo rever
– da cui il sostantivo rêverie – verrebbe probabilmente dal latino reexvagare,
spiegando così come il primo significato di questa parola fosse quello di
vagabondare, errare, vagare in giro. (I dizionari confermano: per il Petit
Robert rêver, dal gallo-romano esver (da esvo, latino, exvagus)
significa prima di tutto “vagabondare”, almeno dal XIII secolo. E’ solo molto
più tardi (ne testimonia per primo il Dictionnaire di Furetière) che il
verbo rêver acquista il senso di “delirare”, fare sogni e pensieri
stravaganti. L’eccezionalità del testo di Rousseau consiste anche in questo,
nel realizzare il programma di scrivere senza programma, passeggiare e sognare,
divagare e testimoniare per iscritto tutto quanto viene alla mente, errore e
erranza, mettendo l’accento sul corso del pensiero invece che sull’ ordine del
pensiero, privilegiando il corso, il fluire del tempo, invece che l’ordine del
tempo. Questo elogio pratico del divagare lo ritroveremo ad esempio nella Passeggiata
di un altro svizzero, Robert Walzer; dove, forse con più pace e conciliazione,
l’autore ci insegna analogamente ad allargare i confini di ciò che è
considerato raccontabile e degno di nota, narrando eventi minimi come alzare il
cappello per salutare un passante, guardare un raggio di sole nell’aria,
assaporare un profumo. Scrivere come passare, come passeggiare, nella libera
svagata andatura di chi sa che non c’è nessun posto in cui si deve andare o far
finta di andare, nessun porto cui approdare, tranne forse la morte (e Rousseau
morì praticamente con questi fogli in mano).
[...]
3 commenti:
Bellissimo...
sì,bellissimo,da sperara non finisse così in fretta
mi sono creduta su di un treno a sfogliare colori dai finestrini...troppo veloce
rileggerò
Grazie! Conunque sono solo frammenti dell'Introduzione più lunga che c'è nel libro... (beppe s.)
Posta un commento