(Rileggo questo frammento - uno dei corsivi che intervallano i racconti di una mia vecchia raccolta - Niente di tutto questo mi appartiene, Feltrinelli 1994 (esaurito) - ritrovando una prima, forse ingenua formulazione della mia claustrofobia. Allora non c'era Internet, né il suo oceano di parole orientate, cioè già inconsciamente pubblicitarie e schiave di una rappresentazione del mondo immune dall'esperienza degli individui... Per questo le parole tra parentesi quadre le ho aggiunte mentre lo trascrivevo)
Immaginate questo mondo. Sì, questo. Immaginatelo nel suo inestricabile viluppo di bellezza e bruttezza, gioia e orrore, vuoto e pieno. Immaginatevi il mondo e confrontatelo col vostro piccolo punto di vista, con la vostra indifferenza. Da cosa dipende?
Immaginate la televisione, immaginate di vedere soltanto la televisione. Come se fosse il mondo. Non potete spegnerla, potete soltanto cambiare canale. Ma vi accorgete della differenza?
Immaginate di leggere, però soltanto il giornale. [O i notiziari on line]. La grafica dei titoli, il tono delle frasi, le sottolineature, le allusioni, i corsivi, i riquadri della pubblicità. [I commenti]. Immaginate che siano l'unica cosa da leggere. Che non vi siano al mondo altre parole che queste. A cosa mirano, a cosa servono, che cosa vi dicono quelle frasi ammucchiate, i verbi che sgomitano e si comprimono, quelle parole in falsetto che concorrono a darvi un'idea del mondo, a costruire il mondo (sì, questo).
Immaginate che questo mondo sia il vostro mondo. Che non vi sia altro mondo all'infuori di questo. Che se non ci fosse questo mondo non staremmo qui a parlarne. In breve: immaginate questo mondo.
Che cosa state provando?
8/30/2011
8/17/2011
Ex voto (Per Grazia Ricevuta)
Non solo writers e graffitari scrivono sui muri di Roma. E non solo su Internet ci sono bacheche su cui lasciare tracce. Esistono scritture pubbliche e anonime di chi testimonia non tanto la propria esistenza, ma il proprio stupore, il sacro, la preghiera. Parlo di quei ringraziamenti al Divino, spesso impersonato dalla Madonna, cui si attribuiscono miracolose salvezze e guarigioni: gli ex voto “per grazia ricevuta”.
Di fronte all’opulenta facciata del Ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere, nel muro che cinge un centro sportivo è incastonata un’edicola con immagine della Madonna. Intorno, per quasi quindici metri di superficie, il muro è tappezzato di mattonelle di marmo con su scritto “Per grazia ricevuta”, o il suo acronimo PGR: un murales di suppliche, un mosaico di ringraziamenti, un anonimo e corale monumento alla devozione.
Più scarni e poveri degli ex voto veri e propri, dipinti o scolpiti, che sono quasi una forma d’arte popolare, anche i “per grazia ricevuta” sono una pratica rituale antichissima, e quelli alla Madonna i più diffusi: “Ti ringrazio Vergine Immacolata sede della sapienza ti ho pregato con fede e tu mi hai aiutato”. “Grazie è la parola riconoscente / Madre dal grande cuore e dall’immensa compassione / Grazie”. Una lapide riporta versi dal Paradiso di Dante: “Vergine madre figlia del tuo figlio / umile ed alta più che creatura... / io ti ringrazio di avermi esaudito”.
Le lapidi sono centinaia. Le più remote sono dei primi anni ’50, semicancellate in un grigio indistinto, le più vicine all’edicola e alle mensole di marmo su cui giacciono vasi di fiori, ceri e lumini. Una fessura nel muro invita a lasciare offerte: “Pane agli orfani”. Continuo a leggerle sporgendomi, e la mia presenza attira altri passanti che si fermano. E’ come una litania: “E’ troppo poco / il mio scritto / o Maria / per dire quanto fu grande / il tuo aiuto / da Rimini porto a te / la mia viva riconoscenza / proteggimi ovunque”. “O Vergine purissima la mia supplica ti è giunta gradita”, “Ebbi fede pregai e ottenni”, “Sotto il tuo manto cerco aiuto e trovo protezione e soccorso”, “Grazie Madonna”, “Grazie Madonnina”, “Contro ogni speranza tu hai provveduto, o madre!”, Grazie Vergine Santa”, “Grazie madre celeste”, “Tenera madre di noi tutti”, “Madonna quei de noantri ti ringraziano”, ecc. Una madre ringrazia per il figlio: “Grazie madre dolcissima regina degli angeli”.
Il muro sprigiona un brusìo visivo che, se fosse sonoro, assomiglierebbe a un’installazione di Christian Boltanski, il grande artista della commemorazione degli anonimi: un mormorìo sommesso di voci sovrapposte che dicono la loro meravigliata devozione con le parole più semplici e universali. Una citazione dal Vangelo di Luca incisa su una pietra, si rivolge ai passanti: “Chiedete e vi sarà dato / cercate e troverete / ... Chiunque infatti chiede, riceve / Chi cerca trova / A chi bussa verrà aperto”. Come una targa sbiadita del 1954: “Più volte chiesi... più volte ottenni”.
Roma è piena di edicole o “madonnelle” circondate di lapidi PGR. Ma il sito più celebre e antico è la sala degli ex voto per grazia ricevuta (a migliaia) nel Santuario del Divino Amore sull’Ardeatina, a duecento metri dalla chiesetta che nel Settecento fu teatro di miracoli, e da allora meta di pellegrinaggi devoti.
Adesso sono accanto al semaforo dell’incrocio tra largo Preneste e Via di Portonaccio. Un angolo di semiperiferia, palazzoni in disordine alternati a zone vuote e archeologie industriali. Il vecchio muro ad angolo retto è cosparso di lapidi che s’irradiano da una doppia edicola, una Madonna a mosaico e un’altra su lastra. Per terra, sotto le mensole coi lumini, tanti fiori freschi: rose, orchidee, crisantemi, gerani, margherite, calendule, fucsia. La varietà di lapidi, alcune a forma di cuore, è più forte e intensa che a Viale Trastevere. Il traffico scandito dal semaforo a due passi aggiunge un senso di precarietà più straziante. Non tanto tempo fa qui era campagna. Un luogo così simbolico che il graffitaro “Space invader” l’ha scelto per piazzare, incastonato tra un PGR e l’altro, un suo inconfondibile mosaico bianco e rosso. Sembro un lavavetri a riposo, mentre volto le spalle alle auto e guardo il muro.
“Mamma del cielo, Vergine Santa / vicino a Te, il mio cuore canta / (...) / stringi l’Anima della mia Anna Adorata”, e una profusione corale di “Grazie per...”, “Merci Ste Vierge”. La lapide più bella: un nudo “Ti prego”. Sotto le edicole, la lapide più vecchia si rivolge al visitatore: “Il Signore ti benedica / e ti custodisca / ti mostri la sua faccia / ed abbia di te misericordia / rivolga verso di te il suo volto / e ti dia pace / Il Signore ti benedica”. Testimonianze di miracoli, forse il miracolo è proprio questo, scrivere sui muri.
Il poeta Camillo Sbarbaro una volta confessò: “Sopravvivo perché ancora scrivo”. La scrittura era per lui un dono caduto dal cielo: “Ogni riga che scrivo, un ex-voto che appendo: ‘per grazia ricevuta’”.
Di fronte all’opulenta facciata del Ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere, nel muro che cinge un centro sportivo è incastonata un’edicola con immagine della Madonna. Intorno, per quasi quindici metri di superficie, il muro è tappezzato di mattonelle di marmo con su scritto “Per grazia ricevuta”, o il suo acronimo PGR: un murales di suppliche, un mosaico di ringraziamenti, un anonimo e corale monumento alla devozione.
Più scarni e poveri degli ex voto veri e propri, dipinti o scolpiti, che sono quasi una forma d’arte popolare, anche i “per grazia ricevuta” sono una pratica rituale antichissima, e quelli alla Madonna i più diffusi: “Ti ringrazio Vergine Immacolata sede della sapienza ti ho pregato con fede e tu mi hai aiutato”. “Grazie è la parola riconoscente / Madre dal grande cuore e dall’immensa compassione / Grazie”. Una lapide riporta versi dal Paradiso di Dante: “Vergine madre figlia del tuo figlio / umile ed alta più che creatura... / io ti ringrazio di avermi esaudito”.
Le lapidi sono centinaia. Le più remote sono dei primi anni ’50, semicancellate in un grigio indistinto, le più vicine all’edicola e alle mensole di marmo su cui giacciono vasi di fiori, ceri e lumini. Una fessura nel muro invita a lasciare offerte: “Pane agli orfani”. Continuo a leggerle sporgendomi, e la mia presenza attira altri passanti che si fermano. E’ come una litania: “E’ troppo poco / il mio scritto / o Maria / per dire quanto fu grande / il tuo aiuto / da Rimini porto a te / la mia viva riconoscenza / proteggimi ovunque”. “O Vergine purissima la mia supplica ti è giunta gradita”, “Ebbi fede pregai e ottenni”, “Sotto il tuo manto cerco aiuto e trovo protezione e soccorso”, “Grazie Madonna”, “Grazie Madonnina”, “Contro ogni speranza tu hai provveduto, o madre!”, Grazie Vergine Santa”, “Grazie madre celeste”, “Tenera madre di noi tutti”, “Madonna quei de noantri ti ringraziano”, ecc. Una madre ringrazia per il figlio: “Grazie madre dolcissima regina degli angeli”.
Il muro sprigiona un brusìo visivo che, se fosse sonoro, assomiglierebbe a un’installazione di Christian Boltanski, il grande artista della commemorazione degli anonimi: un mormorìo sommesso di voci sovrapposte che dicono la loro meravigliata devozione con le parole più semplici e universali. Una citazione dal Vangelo di Luca incisa su una pietra, si rivolge ai passanti: “Chiedete e vi sarà dato / cercate e troverete / ... Chiunque infatti chiede, riceve / Chi cerca trova / A chi bussa verrà aperto”. Come una targa sbiadita del 1954: “Più volte chiesi... più volte ottenni”.
Roma è piena di edicole o “madonnelle” circondate di lapidi PGR. Ma il sito più celebre e antico è la sala degli ex voto per grazia ricevuta (a migliaia) nel Santuario del Divino Amore sull’Ardeatina, a duecento metri dalla chiesetta che nel Settecento fu teatro di miracoli, e da allora meta di pellegrinaggi devoti.
Adesso sono accanto al semaforo dell’incrocio tra largo Preneste e Via di Portonaccio. Un angolo di semiperiferia, palazzoni in disordine alternati a zone vuote e archeologie industriali. Il vecchio muro ad angolo retto è cosparso di lapidi che s’irradiano da una doppia edicola, una Madonna a mosaico e un’altra su lastra. Per terra, sotto le mensole coi lumini, tanti fiori freschi: rose, orchidee, crisantemi, gerani, margherite, calendule, fucsia. La varietà di lapidi, alcune a forma di cuore, è più forte e intensa che a Viale Trastevere. Il traffico scandito dal semaforo a due passi aggiunge un senso di precarietà più straziante. Non tanto tempo fa qui era campagna. Un luogo così simbolico che il graffitaro “Space invader” l’ha scelto per piazzare, incastonato tra un PGR e l’altro, un suo inconfondibile mosaico bianco e rosso. Sembro un lavavetri a riposo, mentre volto le spalle alle auto e guardo il muro.
“Mamma del cielo, Vergine Santa / vicino a Te, il mio cuore canta / (...) / stringi l’Anima della mia Anna Adorata”, e una profusione corale di “Grazie per...”, “Merci Ste Vierge”. La lapide più bella: un nudo “Ti prego”. Sotto le edicole, la lapide più vecchia si rivolge al visitatore: “Il Signore ti benedica / e ti custodisca / ti mostri la sua faccia / ed abbia di te misericordia / rivolga verso di te il suo volto / e ti dia pace / Il Signore ti benedica”. Testimonianze di miracoli, forse il miracolo è proprio questo, scrivere sui muri.
Il poeta Camillo Sbarbaro una volta confessò: “Sopravvivo perché ancora scrivo”. La scrittura era per lui un dono caduto dal cielo: “Ogni riga che scrivo, un ex-voto che appendo: ‘per grazia ricevuta’”.
(uscito su Repubblica-Roma il 17 agosto 2011. La fotografia è di Armando Albeldas)
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8/06/2011
Articolo sulla 'retorica dei giovani' uscito su Venerdì di Repubblica
La retorica dei “giovani” contro la “gerontocrazia” nei partiti e la “rottamazione” degli anziani ha contagiato, pare, ogni ambito sociale. Una volta, per provocare alcuni giovanissimi amici, parlai loro di Pietro Maso. Chi era costui? Gianfranco Bettin vi dedicò un libro: L’erede. Una storia vera. Per Wikipedia fu “il protagonista di uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana”. Aiutato da tre amici, il 17 aprile 1991 uccise entrambi i genitori per intascarne subito l’eredità. Fu l’inizio dell’italian beauty, i delitti nelle villette di provincia. Ma colpirono i moventi: Maso non era in conflitto coi genitori, non si opponeva alla loro visione del mondo, voleva solo prendere il loro posto, le carte di credito, l’automobile, la villetta.
Fuor di metafora, la smania del fare tabula rasa dell’esperienza degli altri (o direttamente degli altri), autofondarsi come se si nascesse privi di genealogia o di filiazione, mi pare tutt’uno con l’azzeramento della memoria, della trasmissione, in breve dell’educazione, sradicata col napalm in questi decenni. E’ uno dei problemi antropologici più seri, tutt’uno con la cosiddetta “precarietà”. Ne L’uomo flessibile Richard Sennett ricordava come la vituperata career, “carriera”, strada per carri, indicasse quel percorso di vita e lavoro da cui si poteva guardare indietro (memoria) e avanti (progetto), simbolo di un senso narrativo dell’esistenza oggi perduto. Vale per tutti, dai maestri scalpellini di Pietrasanta, portatori di tecniche secolari e indispensabili alle opere firmate dai celebri scultori, ai giornalisti d’esperienza che, nelle redazioni, insegnano ai nuovi arrivati come solo con l’esempio può accadere.
Per questo pensai male due mesi fa degli scrittori “trenta-quarantenni” autodefinitisi “TQ”, che fecero dell’attestazione anagrafica la piattaforma di una rivendicazione di potere cultural-editoriale, che peraltro già occupano ampiamente. L’anagrafe degli scrittori non definisce niente, la qualità dell’interazione col mondo sì. E per chi ha a cuore la fecondità dei conflitti è semmai imbarazzante la sicumera nell’avanzare diritti e il concepire l’atto di scrivere come organico al potere anziché irriducibile ad esso. Ma i TQ, se si chiamano ancora così, sono già altro, parlano di politica del produrre, distribuire e vendere libri, parlano di qualità e di codice etico. La domanda allora torna ad essere, credo, quella che nel cinema l’“anziano” Bernardo Bertolucci rivolse all’interno del gruppo dei centoautori, contro censure e autocensure: “E’ ancora possibile oggi girare un film come Salò?” Vale per tutti.
(uscito su Venerdì di Repubblica (rubrica "zona critica") del 5 agosto 2011, ma scritto una ventina di giorni fa, prima dell'ultima ondata di interventi sui giornali)
Fuor di metafora, la smania del fare tabula rasa dell’esperienza degli altri (o direttamente degli altri), autofondarsi come se si nascesse privi di genealogia o di filiazione, mi pare tutt’uno con l’azzeramento della memoria, della trasmissione, in breve dell’educazione, sradicata col napalm in questi decenni. E’ uno dei problemi antropologici più seri, tutt’uno con la cosiddetta “precarietà”. Ne L’uomo flessibile Richard Sennett ricordava come la vituperata career, “carriera”, strada per carri, indicasse quel percorso di vita e lavoro da cui si poteva guardare indietro (memoria) e avanti (progetto), simbolo di un senso narrativo dell’esistenza oggi perduto. Vale per tutti, dai maestri scalpellini di Pietrasanta, portatori di tecniche secolari e indispensabili alle opere firmate dai celebri scultori, ai giornalisti d’esperienza che, nelle redazioni, insegnano ai nuovi arrivati come solo con l’esempio può accadere.
Per questo pensai male due mesi fa degli scrittori “trenta-quarantenni” autodefinitisi “TQ”, che fecero dell’attestazione anagrafica la piattaforma di una rivendicazione di potere cultural-editoriale, che peraltro già occupano ampiamente. L’anagrafe degli scrittori non definisce niente, la qualità dell’interazione col mondo sì. E per chi ha a cuore la fecondità dei conflitti è semmai imbarazzante la sicumera nell’avanzare diritti e il concepire l’atto di scrivere come organico al potere anziché irriducibile ad esso. Ma i TQ, se si chiamano ancora così, sono già altro, parlano di politica del produrre, distribuire e vendere libri, parlano di qualità e di codice etico. La domanda allora torna ad essere, credo, quella che nel cinema l’“anziano” Bernardo Bertolucci rivolse all’interno del gruppo dei centoautori, contro censure e autocensure: “E’ ancora possibile oggi girare un film come Salò?” Vale per tutti.
(uscito su Venerdì di Repubblica (rubrica "zona critica") del 5 agosto 2011, ma scritto una ventina di giorni fa, prima dell'ultima ondata di interventi sui giornali)
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