Questi sono alcuni appunti ricostruiti a memoria dell'intervento che ho fatto a braccio ieri a Vetto d'Enza al mini-convegno Luciano Anceschi, manca la mia digressione sul concetto di "maestro", e le tre definizioni ("formatore di autodidatti" è quella che meglio lo riguarda). Ma il punto era sotttolineare come Anceschi non fosse (stato) un "critico", ma un filosofo.
Luciano Anceschi (1911-1995), già allievo di Antonio Banfi a Milano, fu professore di Estetica all’Università di Bologna, critico e studioso militante, promotore di tendenze, poetiche, studi e autori dal dopoguerra ad oggi. Fondatore della rivista il verri, scrisse studi importanti sul Barocco, sull’estetica di Kant, sulla poesia dell’Ottocento e del Novecento, e patrocinò i “novissimi” e l’avanguardia della poesia italiana dagli anni ’60. Anceschi, fu anche mio professore e maestro, relatore della mia tesi in Filosofia quando egli già era, come si dice, professore “emerito”, cioè fuori ruolo. E mi ha onorato del suo ascolto e attenzione anche dopo il mio ciclo di studi (l’ultimo ricordo che ho di lui è il suo sorriso mentre mi applaude con la moglie Maria, seduto in prima fila, a una lettura di “Ricercare” a Reggio Emilia). So d’altra parte di avere cominciato a scrivere e a voler scrivere leggendo avidamente il verri nella mia tarda adolescenza, ma questa è un’altra storia.
Ciò che caratterizza la biografia filosofica di Anceschi, quasi la sua “missione”, è che il suo studio paziente, minuzioso, stimolante e ispirativo delle poetiche e delle opere (della poesia e dell’arte) si è sempre collocato all’interno di una sua riflessione sul nostro modo di vedere e percepire le opere della poesia e dell’arte, cioè all’interno di un’interrogazione incessante su che cosa significhi per noi “comprendere”, sul “nostro modo di servirci dell’idea di comprensione”. Da qui la sua proverbiale insistenza su un termine al tempo stesso operativo e paradigmatico come “metodo”, quasi sinonimo umile e artigianale di ciò che la parola “via” assume in contesti messianici e spirituali. “Metodo” fu per Anceschi non solo una nozione specifica all’indagine estetica, ma “via” ad una conoscenza che non separi saggezza e scienza, e che gli permetteva di soffermarsi sul “saggista” Montaigne come sull’anti-filosofo Feyerabend; o, come nel suo più celebre modo di dire, di fondere “un certo modo di leggere Valery con un certo modo di leggere Kant”.
In un pubblico discorso in occasione del ricevimento a Bologna dell'Archiginnasio d’oro (1983), Anceschi spiegò come fu che in un’epoca drammatica della storia segnata da totalitarismi e barbarie, proprio partendo dalle strutture della poesia e dell’arte, si delineò per lui una via “per attraversare la rugosa realtà, un metodo flessibile (...) pronto a cogliere, sotto il caos, la disgregazione, le rovine, i primi segni del progetto di una ragione che vien rinascendo, con nuove e più aperte possibilità di aggregazione”, fino a “suggerire la possibilità di una fiducia in una umanità risarcita”. A parte questa intuizione importante su come la poesia possa vivere e proliferare di fronte all’orrore, egli sottolineò il concetto, centrale nella sua opera, di relazione, ovvero “una rete infinita e mobile di rapporti e di significati per cui le cose si fanno o si trasformano continuamente”. Privilegiare l’idea di relazione nel considerare i fenomeni estetici implica che “alla forma chiusa del sistema si sostituisce la forma aperta della sistematicità, al centro unico, definitivo, e assoluto si contrappone una centralità varia e mobilissima, uno spostarsi continuo del centro”. Questa è l’assoluta contemporaneità di Anceschi: ben prima della retorica della globalizzazione, egli sapeva che non esiste un centro, o meglio, qualsiasi punto può essere il centro.
Si prenda l’ultima delle sue opere più ampie, Gli specchi della poesia (Einaudi 1989), dedicata ancora una volta all’articolare ogni singola visione parziale, ogni poetica, in un orizzonte ampio, elastico e ospitale.
Nell’apparente e a tratti rassicurante semplicità delle formulazioni anceschiane (così nota ai suoi allievi), là dove la ricerca si apre autoriflessivamente su di sé, sulla propria “in-finità”, c’è un aspetto esoterico di cui sono spia certe locuzioni sul “modo arduo di pensare (e vivere) nel partecipare a una condizione instabile, oscura, piena di ostacoli, che pone alcune radicali difficoltà a cui la ricerca (se è veramente ricerca) non può sottrarsi, e non vuol sottrarsi”. E “non sarà certo il timore della follia a impedirci di proseguire in una indagine che riguarda aspetti meno frequentati o meno sollecitati, ma non meno profondi del campo oscuro e incantevole, difficile e sfuggente che diciamo l'immaginario”. C’è anche un’innegabile solitudine in questa “fenomenologia critica” (così venne chiamata), la stessa solitudine costitutiva del discorso di Montaigne. Rifiutarsi, come ha fatto Anceschi, alle teorie parziali, significa anche sottrarsi all’elaborazione di un lettore ideale, cioè medio, a quella figura ideologica di interlocutore con cui condividere a priori codici e valori, sempre parziali. Ogni volontà di comprensione, ha scritto Anceschi a proposito di Dewey, giunge a irrigidirsi, e lo mostra nel suo tono assertorio, definitivo e didattico, “spia evidente di una condizione limitante, il segno di un limite accettato”. Ma anche questo, il limite, non è solo un connotato negativo: “è il segno che indica il messaggio, il significato di un messaggio”. “Non conosco nessun punto di vista, in arte, che sia inferiore a un altro”, ripeteva con Mallarmé - “metodo” che travalica i confini della poesia per esemplificare la condizione umana.
Accettare ogni significato come limite, e ogni limite come significato. Non è un insegnamento di poco conto.
8/30/2010
8/27/2010
Per Raimon Panikkar
E' morto ieri 26 agosto, a 91 anni, Raimon Panikkar, filosofo e teologo, uno dei miei "maestri". Ma non so se "morto" è la parola giusta.
Avevo pochi giorni fa rivisto e corretto, per il libro di prossima uscita, ciò che di lui, con lui e per lui ho potuto testimoniare. Pensandolo di nuovo e intensamente.
Dal testo sul mio incontro con Raimon Panikkar (2001), di prossima pubblicazione nella nuova edizione del Libro dei maestri:
Raimon Panikkar, filosofo e teologo, fu professore emerito presso l'università della California di Santa Barbara, fondatore del Centro Studi Vivarium di Barcellona, promotore da tantissimi anni di un dialogo interreligioso e interculturale tra le religioni, in onore del quale gli fu conferito il Premio Nonino. Conoscitore dell'Induismo, del Cristianesimo e del Buddhismo, il Dalai Lama era un suo vecchio amico, da quando nel 1959, in fuga dai Cinesi, Panikkar lo accolse a Sarnath insieme a un monaco theravada (...). Monaco di svariate ordinazioni, figlio di un indiano e una spagnola, tra tutti i suoi numerosi libri resta fondamentale la rielaborazione delle sue lezioni tenute trent'anni fa sul tema del monachesimo: “Santa semplicità, il monaco come archetipo universale”, suonava il titolo inglese. La sfida di scoprirsi monaco - è invece il titolo forte della versione italiana. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell'uomo, irriducibili a ogni tentativo di istituzionalizzarli. Al centro del discorso, il concetto vitale di "conversione".
(...)
"...Non occorre credere o sapere perché si ama. Alla domanda ‘perché mi ami?’, una risposta sarebbe una bestemmia". E' la conoscenza di quello che lui chiama "il cuore puro", l'unica che si coniughi con l'essere felici. "Un cuore puro è un cuore vuoto, un cuore che non ha paura di perdere la propria personalità. L'uomo non può stare in punta di piedi, e si stanca di indossare maschere. Il cuore puro non ha tecniche, non può essere classificato. E' la vita che ci insegna, e il cuore puro si fa svuotare dalla vita. Il perdere libera. Per questo parlare di cuore puro è uguale che dire: Beati i poveri!... I poveri di spirito sono liberi. Chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero ... ".
Tra vacuità orientale e pienezza occidentale, la felicità è questa conversione - lasciarsi svuotare dalla vita. E la sera, nella prossimità del dialogo, ho chiesto a Raimond Panikkar se avevo capito bene, se questo lasciarsi svuotare significa che non si ha (più) paura della morte, perché si è già morti, da tempo, nella pienezza della vita. "Sì", sorride. "Chi non rinuncia a se stesso non sarà mai se stesso. Chi nega se stesso, resuscita. Vorrei togliere agli uomini l'angoscia della morte, la sofferenza che viene dal volersi conservare al di fuori del tempo. Noi siamo temporali, ma non solo temporali. Ho inventato la parola tempiternità, per dire il tempo e L'eternità insieme. L'eternità si vive adesso. E' questa la mistica, la spiritualità vera che è felicità, beatitudo, ananda, gioia, e chi trova questa gioia è vicino al mistero divino...".
Un anno fa pronunciò queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano: "Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l'individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d'acqua. Cosa capita a questa goccia d'acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d'acqua o l'acqua della goccia? La goccia d'acqua sparisce, ma all'acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all'individualismo ... ". Tutto questo, concordiamo, è la vera politica.
Qui di seguito una dichiarazione odierna di Milena Carrara Pavan, sua amica e curatrice dell’Opera Omnia di Raimon Panikkar:
“Ho avuto il dono di trascorrere con Raimon gli ultimi momenti coscienti che hanno preceduto il lungo silenzio in cui ora riposa per sempre. Lacrime dolci scendevano dalle sue gote , lacrime di chi soffre per la sua imperfezione umana, quasi a chiederne perdono; lacrime di speranza, di essere accolto nella sorgente della vita, verso cui ha teso durante tutto il suo pellegrinaggio sulla terra. Quanta tenerezza ha suscitato in me, e quanta gratitudine per tutto quanto ha insegnato, con luci e ombre, che umilmente non ha celato, nell'accettazione della propria umanità. Gli ho sorriso commossa, nella speranza che potesse cogliere sul mio volto l'amore di tutti quelli che gli sono stati vicini. Ma anche il sorriso di Dio verso l'uomo, che da sempre lo cerca. Gli ho ripetuto la promessa, fatta da tanto tempo, di portare, dopo il funerale cristiano, parte delle sue ceneri a Varanasi e di depositarle su una foglia, che la corrente del Gange disperderà nelle sue sacre acque…”
Avevo pochi giorni fa rivisto e corretto, per il libro di prossima uscita, ciò che di lui, con lui e per lui ho potuto testimoniare. Pensandolo di nuovo e intensamente.
Dal testo sul mio incontro con Raimon Panikkar (2001), di prossima pubblicazione nella nuova edizione del Libro dei maestri:
Raimon Panikkar, filosofo e teologo, fu professore emerito presso l'università della California di Santa Barbara, fondatore del Centro Studi Vivarium di Barcellona, promotore da tantissimi anni di un dialogo interreligioso e interculturale tra le religioni, in onore del quale gli fu conferito il Premio Nonino. Conoscitore dell'Induismo, del Cristianesimo e del Buddhismo, il Dalai Lama era un suo vecchio amico, da quando nel 1959, in fuga dai Cinesi, Panikkar lo accolse a Sarnath insieme a un monaco theravada (...). Monaco di svariate ordinazioni, figlio di un indiano e una spagnola, tra tutti i suoi numerosi libri resta fondamentale la rielaborazione delle sue lezioni tenute trent'anni fa sul tema del monachesimo: “Santa semplicità, il monaco come archetipo universale”, suonava il titolo inglese. La sfida di scoprirsi monaco - è invece il titolo forte della versione italiana. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell'uomo, irriducibili a ogni tentativo di istituzionalizzarli. Al centro del discorso, il concetto vitale di "conversione".
(...)
"...Non occorre credere o sapere perché si ama. Alla domanda ‘perché mi ami?’, una risposta sarebbe una bestemmia". E' la conoscenza di quello che lui chiama "il cuore puro", l'unica che si coniughi con l'essere felici. "Un cuore puro è un cuore vuoto, un cuore che non ha paura di perdere la propria personalità. L'uomo non può stare in punta di piedi, e si stanca di indossare maschere. Il cuore puro non ha tecniche, non può essere classificato. E' la vita che ci insegna, e il cuore puro si fa svuotare dalla vita. Il perdere libera. Per questo parlare di cuore puro è uguale che dire: Beati i poveri!... I poveri di spirito sono liberi. Chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero ... ".
Tra vacuità orientale e pienezza occidentale, la felicità è questa conversione - lasciarsi svuotare dalla vita. E la sera, nella prossimità del dialogo, ho chiesto a Raimond Panikkar se avevo capito bene, se questo lasciarsi svuotare significa che non si ha (più) paura della morte, perché si è già morti, da tempo, nella pienezza della vita. "Sì", sorride. "Chi non rinuncia a se stesso non sarà mai se stesso. Chi nega se stesso, resuscita. Vorrei togliere agli uomini l'angoscia della morte, la sofferenza che viene dal volersi conservare al di fuori del tempo. Noi siamo temporali, ma non solo temporali. Ho inventato la parola tempiternità, per dire il tempo e L'eternità insieme. L'eternità si vive adesso. E' questa la mistica, la spiritualità vera che è felicità, beatitudo, ananda, gioia, e chi trova questa gioia è vicino al mistero divino...".
Un anno fa pronunciò queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano: "Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l'individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d'acqua. Cosa capita a questa goccia d'acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d'acqua o l'acqua della goccia? La goccia d'acqua sparisce, ma all'acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all'individualismo ... ". Tutto questo, concordiamo, è la vera politica.
Qui di seguito una dichiarazione odierna di Milena Carrara Pavan, sua amica e curatrice dell’Opera Omnia di Raimon Panikkar:
“Ho avuto il dono di trascorrere con Raimon gli ultimi momenti coscienti che hanno preceduto il lungo silenzio in cui ora riposa per sempre. Lacrime dolci scendevano dalle sue gote , lacrime di chi soffre per la sua imperfezione umana, quasi a chiederne perdono; lacrime di speranza, di essere accolto nella sorgente della vita, verso cui ha teso durante tutto il suo pellegrinaggio sulla terra. Quanta tenerezza ha suscitato in me, e quanta gratitudine per tutto quanto ha insegnato, con luci e ombre, che umilmente non ha celato, nell'accettazione della propria umanità. Gli ho sorriso commossa, nella speranza che potesse cogliere sul mio volto l'amore di tutti quelli che gli sono stati vicini. Ma anche il sorriso di Dio verso l'uomo, che da sempre lo cerca. Gli ho ripetuto la promessa, fatta da tanto tempo, di portare, dopo il funerale cristiano, parte delle sue ceneri a Varanasi e di depositarle su una foglia, che la corrente del Gange disperderà nelle sue sacre acque…”
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8/22/2010
Un mare di sabbia. Douglas Adams e Giovanni Semerano (con un'intervista)
E' solo per una serie di associazioni di idee (stavo leggendo Il salmone del dubbio del geniale e ahimè scomparso Douglas Adams, sulle similitudini e differenze tra la riconoscibilità della scrittura e la definizione di "vita" (sic!), quindi un discorso strabiliante sull'inconfutabilità dell'esistenza di un Dio artificiale (sic!), e quindi sulla storia della civiltà umana come storia della sabbia (da cui il vetro, le lenti - telescopio e microscopio - quindi il silicio e i computer...), che ho pensato con un guizzo al grande filologo, o meglio archeologo delle parole Giovanni Semerano, scomparso a Firenze il 21 luglio del 2005 (scrissi un necrologio il giorno dopo su l'Unità). E ho cercato, difficoltosamente, un'intervista che gli avevo fatto un anno prima, che inaugurò un'amicizia. Era per una serie di conversazioni di "ecologia del linguaggio" (purtroppo molto attuali), che chiamai "parli come badi", citando Totò secondo un suggerimento di Paolo Bagni (che inaugurò la serie). Trovo molto strano che non compaia nel mio sito: ve ne sono altre di quella serie (a Mario Lavagetto, a Sabina Guzzanti, a Paolo Bagni) ma misteriosamente non a Semerano. Il quale - per dirlo subito in breve - è colui che ha convolto la storia della filosofia in Occidente svelando il vero significato di àpeiron: non infinito, ma polvere. Non è la stessa cosa? :-) Sono indeciso se metterla nella nuova edizione de Il libro dei maestri (Porte senza porta rewind) che devo ormai consegnare... (Quanto a Douglas Adams, sì, cito nel libro qualche meraviglioso paragrafo del suo testo).
La conversazione con Giovanni Semerano che qui incollo uscì il 7 maggio 2004 su l'Unità, col titolo Un mare di sabbia. E capirete perché. Ah, scusate, non metto qui tutti corsivi: il sistema non li copia, e rifarli a mano mi è troppo faticoso).
Un mare di sabbia. Incontro con l’archeologo delle parole Giovanni Semerano
In una bella strada alberata di Firenze, tranquilla e un po’ anonima, abita un altrettanto tranquillo studioso che per me, lo confesso, è una figura un po’ mitica. Parlo del filologo Giovanni Semerano, novantatrè anni compiuti lo scorso febbraio, già direttore della biblioteca nazionale di Firenze, allievo dell’ellenista Ettore Bignone (poi di Giorgio Pasquali, Giacomo Devoto, Bruno Migliorini e del semitologo Giuseppe Furlani). Perché mitico? Forse perché nel «mito», in effetti, i suoi studi sconfinano (in mancanza di una parola migliore per dire l’inizio, prima dell’inizio, delle lingue); o forse perché è rimasto tutta la vita ai margini, anzi fuori dai margini, delle istituzioni che valorizzano l’intelligenza, la ricerca e la loro trasmissione, come le università (i filosofi Massimo Cacciari e Emanuele Severino, lo storico Franco Cardini, il filologo Luciano Canfora hanno detto pubblicamente l’importanza dei suoi studi, anche se non pare si siano adoperati, oltre le lodi, per una sua viva presenza nell’insegnamento). Sarà infine per via dell’ammirazione incondizionata che nutro da quando li conosco per i suoi studi sull’origine di alcune parole decisive per la nostra formazione e identità culturali. In Semerano, come già per gli umanisti del ’400, la filologia si rivela chiave per smascherare pregiudizi, falsificazioni, saperi infondati e rendite accademiche. Estraneo alle virtuosistiche operazioni filosofiche del decostruzionismo» di Jacques Derrida e della sua scuola, Semerano ha tuttavia seriamente destabilizzato l’edificio della storia delle lingue e delle idee (forse l’intera metafisica occidentale), decostruendone alcune parole chiave. Una per tutte: àpeiron, al centro dello studio etimologico più eclatante di Giovanni Semerano.
Da Platone e Aristotele fino a Heidegger e oltre, àpeiron è stato tradotto «infinito », e invece significa «polvere» (innumerevole come i granelli di sabbia del deserto), capovolgendo il senso della celebre frase di Anassimandro fino ad oggi così tramandata - «l’uomo nasce dall’infinito e torna all’infinito » - in: «l’uomo è polvere e polvere tornerà». Perturbante, è il caso di dirlo. Non è un gioco di prestigio (verbale), né una proposta teorica: ma la semplice ricostruzione del significato di una parola, indagando oltre i limiti autoimpostisi dai cultori delle lingue antiche, fermi al mito fondatore di un ceppo linguistico indoeuropeo. Mostrando che il greco àpeiron traduce il semitico «apar» e l’accadico «eperu » (ebraico aphar), ovvero polvere, terra, fango («la tua discendenza sarà come ’afar, la polvere della terra», si legge in Genesi, 28, 14), Semerano ha restituito la coerenza spirituale che accomuna i filosofi della Ionia alle lingue della Mesopotamia, sottolineando l’incontro maggiore della storia delle idee, quello tra Oriente e Occidente (termini sempre relativi). Quello che conta, e di cui non è possibile rendere qui conto, è l’abbagliante evidenza di un’omogeneità culturale (religiosa, filosofica) che la sua scoperta produce, quasi a dimostrare ciò che a volte si sussurra: una fondamentale contiguità di tutte le (cosiddette) religioni del mondo. Eppure Semerano ha semplicemente praticato senza pregiudizi lo studio etimologico delle lingue, realizzando quella che per Ludwig Wittgenstein era la strada maestra del filosofare: «Noi riportiamo indietro le parole dal loro linguaggio metafisico al loro uso quotidiano». Basterebbe, questo pratico insegnamento, ai fini delle nostre conversazioni sull’ecologia del linguaggio.
Giovanni Semerano mi riceve dunque una domenica mattina col sorriso di una convinta benevolenza. Al centro del tavolo, accanto a pile ordinate di libri, troneggiano quelle che da sempre sono le sue letture preferite: i tre grossi volumi dell’accademia di Heidelberg dedicati alle etimologie accadiche, Akkadisches Handwosterbuch. Accanto, in uno scaffale, alcune delle opere di Semerano, come Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica (1984, ristampato nel 2002); Le origini della cultura europea. Vol. II. Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indeuropee. Tomo I: Dizionario della lingua greca; tomo II: Dizionario della lingua latina e di voci moderne (1994). Oltre, naturalmente, agli studi saggisticamente più accessibili pubblicati in questi ultimi anni: L’infinito: un equivoco millenario (2001) e Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua (2003). «Il libro che sto ora preparando – mi dice bonariamente - scompagina tutte le certezze e i piani linguistici. Mostra in modo palmare che l’indoeuropeo è un’invenzione priva di qualsiasi supporto storico. All’inizio delle mie ricerche erano tutti sconvolti. Quando dimostrai, per esempio, che il personaggio Phersu - dio dell’Averno, significa “fine”, nel suo originario significato discissione, divisione, parte, come nel babilonese persu (separazione), da cui ha origine parsu (diviso) e nel latino pars - e non, come si intestardirono a dire i nostri cultori di lingua, “maschera” nel senso del latino persona (maschera di cosa, poi?) non ebbero niente da ribattere. Se i nostri bravi cultori di lingua greca avessero avuto sentore che in Omero si parla a più riprese (nell’Iliade e nell’Odissea) di Phersu, come quando Ercole scende nell’Averno per trarne fuori il cane Cerbero strappandolo al suo padrone; se avessero, i nostri bravi cultori delle lingue antiche, pensato alla tomba degli Auguri a Tarquinia, dove nel grande gruppo pittorico campeggia al centro la figura di un uomo forte e ben piantato, armato di clava, con un avversario addobbato in modo farsesco, e al centro un cane; se i nostri cultori professionali di lingue avessero letto Omero non sarebbero incappati in quell’avventura. Non possono andare contro la verità della mia prospettiva storicizzata, evidente, e lo sanno». La ricostruzione del significato di Phersu è una dei contributi di Semerano nel libro sulla lingua degli Etruschi. Ma l’esito più importante delle sue ricerche è appunto mostrare l’inconsistenza dell’«indoeuropeo», categoria storiografica per dare, comunque sia, un’origine e un fondamento alle lingue (un po’ come si fa con la Storia, relegando in una «preistoria» vaga e fumosa quegli aspetti della storia dell’umanità che contrastano con le invarianti che rendono la civiltà degli antichi omogenea alla nostra - stanzialità, divisione del lavoro, rapporti gerarchici, divisione in classi ecc.). Una nota di Maria Felicia Iarossi, assistente e curatrice delle ultime opere di Semerano, descrive bene l’orizzonte storico- linguistico rivoluzionato dallo studioso. Il mitizzato rapporto delle lingue europee col sanscrito, lingua ufficiale dell’India, fin dal Settecento sancì questa parentela delle lingue (indiano-latino-persiano-germanico, secondo August Wilhelm Schlegel), esiliando dalla storia la vastissima area culturale delle lingue mesopotamiche e semitiche - con le civiltà sumera, accadica, babilonese - oggi al centro di nuova attenzione dopo la scoperta archeologica di Ebla, in Siria. Difficile non pensare che proprio queste culture, già ostracizzate in un diffuso, pregiudizievole “anti-semitismo” culturale (nel senso etimologico, della parola) sono quelle in questi anni dilaniate da guerre, o bombardate dal nostro impero occidentale; come se si volessero definitivamente cancellare quelle tracce che ci siamo ostinati a non leggere; o che, avendole «lette», le abbiamo ostinatamente tradite.
«L’indoeuropeo è un’astrazione» contro cui, mi dice Semerano, sta ora scrivendo un nuovo libro. «Chi conosce le mie opere, sia quelle storiche che quelle documentarie, del resto molto simili, sa la mia intuizione che circa 5000 anni di storia uniscono il nostro Occidente, l’Europa ancora incolta, al vicino Oriente. E il nesso tra i due mondi fu il grande condottiero che si chiamava Sargon. Dopo aver sbaragliato diversi eserciti che si opponevano alla sua marcia giunse al Mediterraneo, il “mare superiore”, e lavò le sue armi nel mare. Che cosa ci unisce a lui? Che cosa unisce la nostra umanità ancora in fieri con la sua? In una vecchia stele del 1000 circa a. C.,ma riportabile al 3000 a.C., così egli si presenta al suoi sudditi: “Sono Sargon, non conobbi mio padre, mia madre era una sacerdotessa,mi concepì,mi partorì, mi mise al mondo, mi pose su un fiume (l’Eufrate), il quale non mi sommerse, e fui portato alla dimora dell’innaffiatore Aqqi…”. La conclusione della storia, così come il resto, è la stessa di quella di Romolo e Remo, con tutti i particolari che collimano (fratelli che uccidono fratelli in una congiura di palazzo). Sargon, “re legittimo”, si traduce in etrusco Tarchon, da cui Tarquinia, “città dominatrice”». È un altro esempio del legame tra cultura accadica e pre-italica, o etrusca; soprattutto un altro degli effetti di riverbero tra culture considerate irrelate, mostratoci da Semerano a suggerire l’idea di una koiné, una comunità di storie, simboli e valori culturali tanto più ampia di quella vulgata dalla nostra tradizione eurocentrica e ariana.
La nostra conversazione («festa dell’intelligenza», come Cacciari definì le ricerche di Semerano) continua tra storie di parole e intrecci di sensi, tra l’accadico e l’etrusco, il greco e l’ebraico. Semerano racconta la sua vita di studi tra estimatori e detrattori, coloro che hanno innanzitutto difeso le loro poltrone accademiche. Giacomo Devoto, coautore del famoso Dizionario, gli scrisse lettere di compiacimento negli anni 1953-54, quando Semerano scese da Gorizia a Firenze per dirigere la Biblioteca Ricciardiana, dove conobbe il re di Svezia, studioso di archeologia. «A quel tempo Devoto pubblicava il suo libro sulle origini indoeuropee, dando per vere cose mai esistite. Raccontava degli Ittiti, li chiamava “le avanguardie bionde”, con un richiamo etnico - e avremmo conosciuto purtroppo nella nostra epoca cosa fossero queste avanguardie bionde… Quando Devoto lesse in un mio articolo che dissentivo dalle sue idee, con gli stessi argomenti che sviluppai negli anni successivi, egli si allarmò, ma rimase con me affettuoso e ammirato. A Roma - continua Semerano - mi trovavo spesso a conversare con Antonio Pugliese, maestro di Tullio De Mauro. Mi disse una volta: “caro Semerano, se ci togli l’indoeuropeo, che cosa dobbiamo raccontare a questi ragazzi?” Aldo Neppi Mòdona, che coordinava gli “Studi etruschi” con Pallottino, affacciandosi un giorno sul dizionario etrusco che stavo preparando, mentre si trovava da me a colazione, restò folgorato nel trovare quelle spiegazioni che non riuscì a farsi spiegare da nessuno dei suoi colleghi etruscologi all’estero, neppure da Ambros J. Pfiffig, ed esclamò che le mie schede etimologiche erano di una chiarezza cristallina».
Semerano ricorda la terribile alluvione di Firenze nel 1966, quando perse nell’Arno gran parte dei suoi libri, e soprattutto le centinaia di schede di lavoro. Era disperato, al punto che il figlio si gettò a nuoto nelle acque per cercare di salvarle. «Ho viaggiato pochissimo. Solo viaggi sui libri, sulle parole, senza bisogno di “andare a vedere”…».
Al soave studioso seduto al mio fianco sarei tentato di chiedere cosa pensi della situazione attuale del linguaggio, ma facendolo mi sembrerebbe di tradire l’evidenza delle sue risposte, che sono già tutte in quello che fa; perché ciò che fa è una fortissima resistenza culturale, una protesta vibrante nei confronti dell’oggi - dell’uccisione della memoria e dello svilimento della lingua.
«La lingua di oggi è un mare di sabbia – mi dice poi - sollecitato dagli apporti di tutte le lingue possibili». Ironizza, Semerano, sulle pagine culturali dei quotidiani maggiori, con le loro «notizie stravaganti». E poi: «la nostra lingua è una sabbia mobile», aggiunge. «Solo questo, questi studi, resteranno».
P.S. All'inizio del 2005 ricevetti la copia di La favola dell'indoeuropeo di Giovanni Semerano (a cura di Maria Felicia Iarossi, che qui saluto con affetto), edito come gli altri suoi libri da Bruno Mondadori. Fui sorpreso e commosso nel leggere a pag. 107 una dedica e un ringraziamento a Beppe Sebaste, "una personalità creativa e insonne..." (risparmio il resto).
La conversazione con Giovanni Semerano che qui incollo uscì il 7 maggio 2004 su l'Unità, col titolo Un mare di sabbia. E capirete perché. Ah, scusate, non metto qui tutti corsivi: il sistema non li copia, e rifarli a mano mi è troppo faticoso).
Un mare di sabbia. Incontro con l’archeologo delle parole Giovanni Semerano
In una bella strada alberata di Firenze, tranquilla e un po’ anonima, abita un altrettanto tranquillo studioso che per me, lo confesso, è una figura un po’ mitica. Parlo del filologo Giovanni Semerano, novantatrè anni compiuti lo scorso febbraio, già direttore della biblioteca nazionale di Firenze, allievo dell’ellenista Ettore Bignone (poi di Giorgio Pasquali, Giacomo Devoto, Bruno Migliorini e del semitologo Giuseppe Furlani). Perché mitico? Forse perché nel «mito», in effetti, i suoi studi sconfinano (in mancanza di una parola migliore per dire l’inizio, prima dell’inizio, delle lingue); o forse perché è rimasto tutta la vita ai margini, anzi fuori dai margini, delle istituzioni che valorizzano l’intelligenza, la ricerca e la loro trasmissione, come le università (i filosofi Massimo Cacciari e Emanuele Severino, lo storico Franco Cardini, il filologo Luciano Canfora hanno detto pubblicamente l’importanza dei suoi studi, anche se non pare si siano adoperati, oltre le lodi, per una sua viva presenza nell’insegnamento). Sarà infine per via dell’ammirazione incondizionata che nutro da quando li conosco per i suoi studi sull’origine di alcune parole decisive per la nostra formazione e identità culturali. In Semerano, come già per gli umanisti del ’400, la filologia si rivela chiave per smascherare pregiudizi, falsificazioni, saperi infondati e rendite accademiche. Estraneo alle virtuosistiche operazioni filosofiche del decostruzionismo» di Jacques Derrida e della sua scuola, Semerano ha tuttavia seriamente destabilizzato l’edificio della storia delle lingue e delle idee (forse l’intera metafisica occidentale), decostruendone alcune parole chiave. Una per tutte: àpeiron, al centro dello studio etimologico più eclatante di Giovanni Semerano.
Da Platone e Aristotele fino a Heidegger e oltre, àpeiron è stato tradotto «infinito », e invece significa «polvere» (innumerevole come i granelli di sabbia del deserto), capovolgendo il senso della celebre frase di Anassimandro fino ad oggi così tramandata - «l’uomo nasce dall’infinito e torna all’infinito » - in: «l’uomo è polvere e polvere tornerà». Perturbante, è il caso di dirlo. Non è un gioco di prestigio (verbale), né una proposta teorica: ma la semplice ricostruzione del significato di una parola, indagando oltre i limiti autoimpostisi dai cultori delle lingue antiche, fermi al mito fondatore di un ceppo linguistico indoeuropeo. Mostrando che il greco àpeiron traduce il semitico «apar» e l’accadico «eperu » (ebraico aphar), ovvero polvere, terra, fango («la tua discendenza sarà come ’afar, la polvere della terra», si legge in Genesi, 28, 14), Semerano ha restituito la coerenza spirituale che accomuna i filosofi della Ionia alle lingue della Mesopotamia, sottolineando l’incontro maggiore della storia delle idee, quello tra Oriente e Occidente (termini sempre relativi). Quello che conta, e di cui non è possibile rendere qui conto, è l’abbagliante evidenza di un’omogeneità culturale (religiosa, filosofica) che la sua scoperta produce, quasi a dimostrare ciò che a volte si sussurra: una fondamentale contiguità di tutte le (cosiddette) religioni del mondo. Eppure Semerano ha semplicemente praticato senza pregiudizi lo studio etimologico delle lingue, realizzando quella che per Ludwig Wittgenstein era la strada maestra del filosofare: «Noi riportiamo indietro le parole dal loro linguaggio metafisico al loro uso quotidiano». Basterebbe, questo pratico insegnamento, ai fini delle nostre conversazioni sull’ecologia del linguaggio.
Giovanni Semerano mi riceve dunque una domenica mattina col sorriso di una convinta benevolenza. Al centro del tavolo, accanto a pile ordinate di libri, troneggiano quelle che da sempre sono le sue letture preferite: i tre grossi volumi dell’accademia di Heidelberg dedicati alle etimologie accadiche, Akkadisches Handwosterbuch. Accanto, in uno scaffale, alcune delle opere di Semerano, come Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica (1984, ristampato nel 2002); Le origini della cultura europea. Vol. II. Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indeuropee. Tomo I: Dizionario della lingua greca; tomo II: Dizionario della lingua latina e di voci moderne (1994). Oltre, naturalmente, agli studi saggisticamente più accessibili pubblicati in questi ultimi anni: L’infinito: un equivoco millenario (2001) e Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua (2003). «Il libro che sto ora preparando – mi dice bonariamente - scompagina tutte le certezze e i piani linguistici. Mostra in modo palmare che l’indoeuropeo è un’invenzione priva di qualsiasi supporto storico. All’inizio delle mie ricerche erano tutti sconvolti. Quando dimostrai, per esempio, che il personaggio Phersu - dio dell’Averno, significa “fine”, nel suo originario significato discissione, divisione, parte, come nel babilonese persu (separazione), da cui ha origine parsu (diviso) e nel latino pars - e non, come si intestardirono a dire i nostri cultori di lingua, “maschera” nel senso del latino persona (maschera di cosa, poi?) non ebbero niente da ribattere. Se i nostri bravi cultori di lingua greca avessero avuto sentore che in Omero si parla a più riprese (nell’Iliade e nell’Odissea) di Phersu, come quando Ercole scende nell’Averno per trarne fuori il cane Cerbero strappandolo al suo padrone; se avessero, i nostri bravi cultori delle lingue antiche, pensato alla tomba degli Auguri a Tarquinia, dove nel grande gruppo pittorico campeggia al centro la figura di un uomo forte e ben piantato, armato di clava, con un avversario addobbato in modo farsesco, e al centro un cane; se i nostri cultori professionali di lingue avessero letto Omero non sarebbero incappati in quell’avventura. Non possono andare contro la verità della mia prospettiva storicizzata, evidente, e lo sanno». La ricostruzione del significato di Phersu è una dei contributi di Semerano nel libro sulla lingua degli Etruschi. Ma l’esito più importante delle sue ricerche è appunto mostrare l’inconsistenza dell’«indoeuropeo», categoria storiografica per dare, comunque sia, un’origine e un fondamento alle lingue (un po’ come si fa con la Storia, relegando in una «preistoria» vaga e fumosa quegli aspetti della storia dell’umanità che contrastano con le invarianti che rendono la civiltà degli antichi omogenea alla nostra - stanzialità, divisione del lavoro, rapporti gerarchici, divisione in classi ecc.). Una nota di Maria Felicia Iarossi, assistente e curatrice delle ultime opere di Semerano, descrive bene l’orizzonte storico- linguistico rivoluzionato dallo studioso. Il mitizzato rapporto delle lingue europee col sanscrito, lingua ufficiale dell’India, fin dal Settecento sancì questa parentela delle lingue (indiano-latino-persiano-germanico, secondo August Wilhelm Schlegel), esiliando dalla storia la vastissima area culturale delle lingue mesopotamiche e semitiche - con le civiltà sumera, accadica, babilonese - oggi al centro di nuova attenzione dopo la scoperta archeologica di Ebla, in Siria. Difficile non pensare che proprio queste culture, già ostracizzate in un diffuso, pregiudizievole “anti-semitismo” culturale (nel senso etimologico, della parola) sono quelle in questi anni dilaniate da guerre, o bombardate dal nostro impero occidentale; come se si volessero definitivamente cancellare quelle tracce che ci siamo ostinati a non leggere; o che, avendole «lette», le abbiamo ostinatamente tradite.
«L’indoeuropeo è un’astrazione» contro cui, mi dice Semerano, sta ora scrivendo un nuovo libro. «Chi conosce le mie opere, sia quelle storiche che quelle documentarie, del resto molto simili, sa la mia intuizione che circa 5000 anni di storia uniscono il nostro Occidente, l’Europa ancora incolta, al vicino Oriente. E il nesso tra i due mondi fu il grande condottiero che si chiamava Sargon. Dopo aver sbaragliato diversi eserciti che si opponevano alla sua marcia giunse al Mediterraneo, il “mare superiore”, e lavò le sue armi nel mare. Che cosa ci unisce a lui? Che cosa unisce la nostra umanità ancora in fieri con la sua? In una vecchia stele del 1000 circa a. C.,ma riportabile al 3000 a.C., così egli si presenta al suoi sudditi: “Sono Sargon, non conobbi mio padre, mia madre era una sacerdotessa,mi concepì,mi partorì, mi mise al mondo, mi pose su un fiume (l’Eufrate), il quale non mi sommerse, e fui portato alla dimora dell’innaffiatore Aqqi…”. La conclusione della storia, così come il resto, è la stessa di quella di Romolo e Remo, con tutti i particolari che collimano (fratelli che uccidono fratelli in una congiura di palazzo). Sargon, “re legittimo”, si traduce in etrusco Tarchon, da cui Tarquinia, “città dominatrice”». È un altro esempio del legame tra cultura accadica e pre-italica, o etrusca; soprattutto un altro degli effetti di riverbero tra culture considerate irrelate, mostratoci da Semerano a suggerire l’idea di una koiné, una comunità di storie, simboli e valori culturali tanto più ampia di quella vulgata dalla nostra tradizione eurocentrica e ariana.
La nostra conversazione («festa dell’intelligenza», come Cacciari definì le ricerche di Semerano) continua tra storie di parole e intrecci di sensi, tra l’accadico e l’etrusco, il greco e l’ebraico. Semerano racconta la sua vita di studi tra estimatori e detrattori, coloro che hanno innanzitutto difeso le loro poltrone accademiche. Giacomo Devoto, coautore del famoso Dizionario, gli scrisse lettere di compiacimento negli anni 1953-54, quando Semerano scese da Gorizia a Firenze per dirigere la Biblioteca Ricciardiana, dove conobbe il re di Svezia, studioso di archeologia. «A quel tempo Devoto pubblicava il suo libro sulle origini indoeuropee, dando per vere cose mai esistite. Raccontava degli Ittiti, li chiamava “le avanguardie bionde”, con un richiamo etnico - e avremmo conosciuto purtroppo nella nostra epoca cosa fossero queste avanguardie bionde… Quando Devoto lesse in un mio articolo che dissentivo dalle sue idee, con gli stessi argomenti che sviluppai negli anni successivi, egli si allarmò, ma rimase con me affettuoso e ammirato. A Roma - continua Semerano - mi trovavo spesso a conversare con Antonio Pugliese, maestro di Tullio De Mauro. Mi disse una volta: “caro Semerano, se ci togli l’indoeuropeo, che cosa dobbiamo raccontare a questi ragazzi?” Aldo Neppi Mòdona, che coordinava gli “Studi etruschi” con Pallottino, affacciandosi un giorno sul dizionario etrusco che stavo preparando, mentre si trovava da me a colazione, restò folgorato nel trovare quelle spiegazioni che non riuscì a farsi spiegare da nessuno dei suoi colleghi etruscologi all’estero, neppure da Ambros J. Pfiffig, ed esclamò che le mie schede etimologiche erano di una chiarezza cristallina».
Semerano ricorda la terribile alluvione di Firenze nel 1966, quando perse nell’Arno gran parte dei suoi libri, e soprattutto le centinaia di schede di lavoro. Era disperato, al punto che il figlio si gettò a nuoto nelle acque per cercare di salvarle. «Ho viaggiato pochissimo. Solo viaggi sui libri, sulle parole, senza bisogno di “andare a vedere”…».
Al soave studioso seduto al mio fianco sarei tentato di chiedere cosa pensi della situazione attuale del linguaggio, ma facendolo mi sembrerebbe di tradire l’evidenza delle sue risposte, che sono già tutte in quello che fa; perché ciò che fa è una fortissima resistenza culturale, una protesta vibrante nei confronti dell’oggi - dell’uccisione della memoria e dello svilimento della lingua.
«La lingua di oggi è un mare di sabbia – mi dice poi - sollecitato dagli apporti di tutte le lingue possibili». Ironizza, Semerano, sulle pagine culturali dei quotidiani maggiori, con le loro «notizie stravaganti». E poi: «la nostra lingua è una sabbia mobile», aggiunge. «Solo questo, questi studi, resteranno».
P.S. All'inizio del 2005 ricevetti la copia di La favola dell'indoeuropeo di Giovanni Semerano (a cura di Maria Felicia Iarossi, che qui saluto con affetto), edito come gli altri suoi libri da Bruno Mondadori. Fui sorpreso e commosso nel leggere a pag. 107 una dedica e un ringraziamento a Beppe Sebaste, "una personalità creativa e insonne..." (risparmio il resto).
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8/15/2010
La bellezza della Puglia vale meno del cemento?
Su l'Unità di oggi c'è un bell'articolo di Stefano Miliani che spiega l'annunciato scempio che si vuole commettere in Salento in nome della velocità, la superstrada Maglie-Leuca (per arrivare a Leuca prima: e poi? per buttarsi in mare con l'auto?), e dice le ragioni degli oppositori, almeno negli ultimi 7 chilometri (in primis, il sindaco di Alessano Luigi Nicolardi, uno che ha a cuore la "politica della bellezza"). Qui c'è la petizione pubblica per modificare (neanche annullare, solo modificare, con un progetto congruo di strada-parco) il progetto voluto dal ministro Fitto che devasterebbe il territorio salentino. Qui di seguito, sempre su l'Unità di oggi, il mio breve pezzo-commento, che affianca l'articolo di Miliani. Eccolo, con preghiera di diffusione.
“Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza – ha scritto lo psicologo James Hillman – ci sarebbe ribellione per le strade”. Ma c’è un partito trasversale del cemento che della politica e dell’economia della bellezza, nella sua miopia o cecità, proprio non si cura. E’ un tema ovunque attuale, ma ora riguarda la meravigliosa bellezza del Salento, in particolare le cosiddette Serre salentine che da Specchia si avvicinano al capo di Leuca, la terra dei due mari. Il progetto di superstrada già finanziato dal governo (come fu per la ridicola metropolitana a Parma, poi abbandonata), in nome di un’inutile velocità disprezza e rischia di devastare un territorio, già amato dai turisti, che aspetta solo di essere valorizzato per quello che già è, senza abbellimenti né soprattutto omologarsi a modelli importati.
Cammino nell’ultima propaggine delle serre salentine, tra olivi secolari, lecci, macchia mediterranea, piante di mirto e carrubo; costeggio muretti a secco, pietre che cantano e testimoniano una cultura millenaria sedimentata in una placida e laboriosa bellezza, come la terra rossiccia sotto i piedi. Cammino sotto il cielo azzurro sui sentieri di campagna tra Alessano, San Dana e Gagliano del Capo - alla mia destra la morbida collina in cui sorgeva un villaggio messapico, e oggi lo stupendo borgo di Montesardo. Percorro il tragitto virtuale di quell’ultimo pezzo di superstrada che violenterà questa bellezza, e sento angosciosamente incombere sulla testa il peso virtuale del viadotto, 26 piloni di cemento per 12 metri di altezza, più 1 km di terrapieno che cancellerebbe, oltre a tremila alberi di ulivo, l’identità di questo paesaggio. Che cancellerebbe la ragione stessa per cui io e tanti altri ci troviamo qui, in Salento, turisti e amatori, in una terra stupenda la cui identità è inseparabile dal valore della lentezza. E’ qui che la ragione Puglia, il Comune di Alessano e l’Università del Salento hanno realizzato un “Ecomuseo del Paesaggio”, valorizzando i caratteri identitari del territorio col recupero di memorie orali, la Storia e le storie, insieme a visioni, odori, sapori.
A che vale arrivare 5 minuti prima a Santa Maria di Leuca, spendendo 100 milioni di euro per 7 devastanti chilometri? Ci pensino, il partito del cemento e i suoi padrini. Abbiamo smarrito la percezione e la consapevolezza dei luoghi, delle pietre, degli alberi, della terra stessa su cui stiamo camminando.
“Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza – ha scritto lo psicologo James Hillman – ci sarebbe ribellione per le strade”. Ma c’è un partito trasversale del cemento che della politica e dell’economia della bellezza, nella sua miopia o cecità, proprio non si cura. E’ un tema ovunque attuale, ma ora riguarda la meravigliosa bellezza del Salento, in particolare le cosiddette Serre salentine che da Specchia si avvicinano al capo di Leuca, la terra dei due mari. Il progetto di superstrada già finanziato dal governo (come fu per la ridicola metropolitana a Parma, poi abbandonata), in nome di un’inutile velocità disprezza e rischia di devastare un territorio, già amato dai turisti, che aspetta solo di essere valorizzato per quello che già è, senza abbellimenti né soprattutto omologarsi a modelli importati.
Cammino nell’ultima propaggine delle serre salentine, tra olivi secolari, lecci, macchia mediterranea, piante di mirto e carrubo; costeggio muretti a secco, pietre che cantano e testimoniano una cultura millenaria sedimentata in una placida e laboriosa bellezza, come la terra rossiccia sotto i piedi. Cammino sotto il cielo azzurro sui sentieri di campagna tra Alessano, San Dana e Gagliano del Capo - alla mia destra la morbida collina in cui sorgeva un villaggio messapico, e oggi lo stupendo borgo di Montesardo. Percorro il tragitto virtuale di quell’ultimo pezzo di superstrada che violenterà questa bellezza, e sento angosciosamente incombere sulla testa il peso virtuale del viadotto, 26 piloni di cemento per 12 metri di altezza, più 1 km di terrapieno che cancellerebbe, oltre a tremila alberi di ulivo, l’identità di questo paesaggio. Che cancellerebbe la ragione stessa per cui io e tanti altri ci troviamo qui, in Salento, turisti e amatori, in una terra stupenda la cui identità è inseparabile dal valore della lentezza. E’ qui che la ragione Puglia, il Comune di Alessano e l’Università del Salento hanno realizzato un “Ecomuseo del Paesaggio”, valorizzando i caratteri identitari del territorio col recupero di memorie orali, la Storia e le storie, insieme a visioni, odori, sapori.
A che vale arrivare 5 minuti prima a Santa Maria di Leuca, spendendo 100 milioni di euro per 7 devastanti chilometri? Ci pensino, il partito del cemento e i suoi padrini. Abbiamo smarrito la percezione e la consapevolezza dei luoghi, delle pietre, degli alberi, della terra stessa su cui stiamo camminando.
8/08/2010
Io lo so perché sì gran pianto di stelle (ma non posso provarlo) - Poesie e memoria per Ustica
“San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla.”. Così Giovanni Pascoli, oltre un secolo fa, in una poesia che in tanti hanno letto a scuola, X agosto, dedicata al lutto per la morte del padre avvenuta proprio un 10 di agosto, la notte delle stelle che cadono e sfilano spioventi. Una poesia della nostra tradizione che si legge a scuola, e che forse, perché no, avevano nelle orecchie e nella memoria anche i passeggeri piovuti dal cielo quel 27 giugno di trent’anni fa, sul mare di Ustica.
In questa celebre notte sono tanti gli appuntamenti nelle piazze estive d’Italia. Ma ce n’è uno speciale che riporta la pioggia di stelle nell’alveo propriamente della memoria e della poesia, che da sempre ne è la lingua. E’ la serata a chiusura di una serie di manifestazioni artistiche e civili di altissimo profilo per il trentennale della tragedia di Ustica (un “atto di guerra in tempo di pace”, recita la sentenza), che si svolge a Bologna nel Giardino della Memoria, ovvero il piazzale antistante il Museo per la Memoria di Ustica. Incrociando Pascoli con Pasolini, vorrei dire: Io lo so perché sì gran pianto di stelle, ma non posso provarlo. Memoria e poesia, si sa, sono inesauribili. Tanto più qui, in un luogo deputato al ricordo, un ricordo palpitante come le luci che si accendono nell’ultimo frammento di vita dei passeggeri di quell’aereo Itavia che precipitò trent’anni fa, come evoca e mostra la magnifica installazione permanente di Christan Boltanski intorno alla carcassa rimontata come un puzzle dell’aereo, mentre tuttora incompleti restano il puzzle della verità su quell’evento, e il bisogno di verità e di giustizia.
A chiusura quindi dell’intenso cartellone bolognese “Arte. Fiore della Memoria”, dopo eventi quali il concerto dell’ultima composizione di Karlheinz Stockhausen e l’installazione di Flavio Favelli, il 10 agosto ci sarà la Notte di San Lorenzo, serata di poesia e musica di qualità altissima (musicisti e attori di diverse culture e nazionalità), attraverso testi di autori come Mariangela Gualtieri, Gregorio Scalise, Marco Baliani, Emma Dante. La regia della serata è di Cristina Valenti, direttrice artistica della rassegna con Daria Bonfietti e Andrea Benetti dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica: sarà un modo per riguardare il cielo, dicono, drammaticamente evocato dalla memoria della Strage di Ustica, come inesauribile serbatoio di memoria poetica ed eterno riflesso della vicenda umana. Intrecciati attorno al tema comune della memoria, i brani scelti dagli attori si snoderanno idealmente a partire dai versi di Giovanni Pascoli che ispirano la serata, per evocare memorie diverse, appartenenti alla nostra e ad altre latitudini. “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi /sereno, infinito immortale, / oh! d’un pianto di stelle lo inondi...”
Ma lo sappiamo: le stelle più luminose sono le stelle spente.
(uscito su l'Unità, domenica 8 agosto 2010)
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8/07/2010
Festeggiare...
Mentre lavoro alla revisione del Libro dei Maestri (Porte senza porta rewind), nelle pause leggo un libro bellissimo, la storia vera e incredibile di una permanenza in una tribù di aborigeni australiani, sciamani naturali che camminano ininterrottamente, cantano, pregano, si cibano di quello che trovano, comunicano telepaticamente, amano ogni essere. E' la storia di un risveglio e di un'iniziazione alla vita vera. (E' un amico sciamano che mi parlava da un anno di questo libro. E' un amico artista che lo aveva nella sua biblioteca).
"Mi ascoltarono con interesse raccontare delle feste di compleanno, dei regali e delle candeline sulle torte ogni anno...
"Perché lo fate?" mi chiesero poi. "Per noi, una celebrazione è qualcosa di speciale, ma non c'è nulla di speciale nell'invecchiare. Non è necessario alcuno sforzo per riuscirci. Accade, e basta!"
"Se non festeggiate il fatto di diventare più vecchi", replicai, "che cosa festeggiate, allora?"
"Il fatto di diventare migliori", fu la risposta. "Festeggiamo quando pensiamo di essere divenuti migliori e più saggi. Ma solo il diretto interessato può sapere quando questo accade, e sta a lui informare gli altri che è arrivato il momento di organizzare una festa".
(Marlo Morgan, Mutant Message Down Under (tr. it. ... e venne chiamata Due Cuori)
"Mi ascoltarono con interesse raccontare delle feste di compleanno, dei regali e delle candeline sulle torte ogni anno...
"Perché lo fate?" mi chiesero poi. "Per noi, una celebrazione è qualcosa di speciale, ma non c'è nulla di speciale nell'invecchiare. Non è necessario alcuno sforzo per riuscirci. Accade, e basta!"
"Se non festeggiate il fatto di diventare più vecchi", replicai, "che cosa festeggiate, allora?"
"Il fatto di diventare migliori", fu la risposta. "Festeggiamo quando pensiamo di essere divenuti migliori e più saggi. Ma solo il diretto interessato può sapere quando questo accade, e sta a lui informare gli altri che è arrivato il momento di organizzare una festa".
(Marlo Morgan, Mutant Message Down Under (tr. it. ... e venne chiamata Due Cuori)
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8/01/2010
Talking blues & movies. Conversazione con Bernardo Bertolucci
Sono seduto con Bernardo Bertolucci nella sua casa dal soffitto alto e le pareti gialle e celesti. Parlare con lui è sempre una festa di parole, idee, poesie a memoria, e naturalmente tanto cinema. Mi è così familiare che dimentico di registrare. Ci siamo incontrati la prima volta negli anni ’90 a Salsomaggiore, alla festa buddhista del “Vezak” (compleanno del Buddha e della sua “illuminazione”), ma siamo diventati amici dopo il mio trasloco a Roma nello stesso quartiere. (E mi gonfiai come un pavone quando sentii alla radio che, presentando al Festival di Venezia il suo ultimo film, Dreamers, Bertolucci citava a memoria la frase di un mio racconto). Entrambi di Parma, faccio parte però della generazione che dovette aspettare il dissequestro per vedere Ultimo tango a Parigi.
Bernardo Bertolucci ha appena pubblicato un libro (“il libro che non sapevo di avere scritto”), La mia magnifica ossessione (Garzanti): ricordi e interventi scritti tra il 1962 e il 2010. Vi emergono a macchia di leopardo la sua opera e la sua vita, entrambe ricchissime. Parma, Roma, Parigi, il primo incontro con Pier Paolo Pasolini da adolescente, quando a via Carini a Roma gli aprì la porta e lo prese per un ladro, salvo l’esclamazione del padre Attilio: “Bernardo, non è un ladro, è un poeta!”. L’amore per Godard e la nouvelle vague, il processo dopo il sequestro di Ultimo tango a Parigi, osannato all’estero, la condanna e l’umiliazione di essere privato dei diritti civili, quindi del certificato elettorale nel 1976; l’epica di Novecento, gli Oscar con L’ultimo imperatore, ecc. Chi lo legge prova quello “sfarfallìo” evocato da Enrico Ghezzi alla presentazione del libro a Palazzo Farnese a Roma, un plusvalore poetico: le cose che sai già le riscopri come per la prima volta, quello che non sapevi è come se lo rileggessi. Mi accade chiacchierando con lui anche adesso.
Apro il libro a caso: “I colpevoli piaceri” è un elenco di film, da Il bacio della pantera (1932) a Speed (1994), da Biancaneve e i sette nani (1937) a Crash (1996) passando per Il piacere di Max Ophuls (1951) e La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni (1953). Cosa significa?
“C’era una pagina della rivista americana Film Comment, cugino americano dei Cahiers du Cinéma, che si chiamava guilty pleasures, “colpevoli piaceri”: in ogni numero un regista elencava dei film che amava di nascosto. Non ricordo quali fossero i miei, ma i titoli che hai letto non sono “guilty pleasures”, ma film che amo davvero, alla luce del sole”.
Forse è perché i sensi di colpa non li hai, l’hai anche scritto: “non mi sento in colpa per quello che mi piace, praticamente è tutta la storia del cinema.”
“Non ci si può sentire colpevoli di amare Il piacere di Ophuls, è un capolavoro assoluto. Forse dovrei correggere: non sono film che mi sento colpevole di amare, ma che ho molto amato e sono spesso sconosciuti... Mi piace però che stai seduto davanti a me e sfogli il mio libro che non ho ancora letto (e non sapevo di aver scritto). Forse non l’ho letto per un banale senso di colpa: non sono uno scrittore. Lo sono diventato ufficialmente l’altro giorno a Palazzo Farnese, anche se entrare in quel paradiso per gli occhi mi ha tolto qualsiasi ombra”. Scherza sul privilegio di avere visto gli affreschi dei Carracci “in carrellata”, spinto sulla sedia a rotelle dalla moglie Clare Peploe: “Quando mi muovo vedo tutto in carrello, un po’ come nei miei film, dove le inquadrature sono sempre in movimento. Inutile parlare delle operazioni che ho avuto (sconsiglio a chiunque di farsi operare alla schiena). Ora sono seduto, ma non è detto che non possa tornare a camminare. Forse sono fermo perché ho deciso di essere fermo, non per una vera impossibilità. Non credo al destino, tutto ciò che ci accade è sempre in qualche modo escogitato da qualcosa (o qualcuno) dentro di noi, i nostri demoni. Forse mi sono fermato per non andare verso la vecchiaia, o verso la morte. Diciamo la verità, dove andiamo tutti?”
Sorride. Io continuo a sfogliare il libro: un testo in difesa di Antonioni, “Un film non è un libro”, replica alla stroncatura che fece Irene Bignardi di Al di là delle nuvole (“sentii che dovevo difenderlo, perché lui non era in grado di farlo da solo”). Nella pagina dopo il suo necrologio: Antonioni è morto lo stesso giorno di Ingmar Bergman, estate 2007: “La morte di Antonioni e di Bergman è una poetica e tragica coincidenza, pur non credendo al destino né tantomeno al libro del destino: due cineasti così vicini nel modo di raccontare l’interiorità delle persone hanno maturato insieme la loro morte. Si sono sincronizzati”.
Pensi che con loro si è spento un modo di raccontare?
“Hanno regalato al cinema il loro modo di raccontare, e questo rimane, non scomparirà mai. Quando mi chiedono che film mi piacciono, io vorrei rispondere che mi piacciono tutti, tutta la storia del cinema. Hélas, in questo momento ci sono molti film, ma pochissimo cinema. Fin dagli anni ’60 sognavo e pensavo al cinema come qualcosa in continuo progress. In tutti i miei film ci sono storie e personaggi, ma c’è anche il film che si interroga su che cos’è il cinema, e pensavo che questo fosse la presenza del cinema in un film, un continuo interrogarsi per andare avanti. Adesso che lo dico sento ancora di più che sono fermo: in questo momento forse faccio cinema, ma non faccio film” (sorride).
E’ la stessa cosa per la letteratura: ce n’è poca, anche se ci sono tanti libri - in gran parte romanzi modellati sulle sceneggiature di film senza cinema... Ma c’è un film messicano che abbiamo amato molto entrambi, che contiene ed espone cinema, La Battaglia nel cielo di Carlos Reygadas...
“E’ un film che va coraggiosamente verso abissi continui. Comincia con una lunga fellatio e finisce con una lunga fellatio. Una storia molto semplice e molto intima, cadenzata come una campana dall’alzabandiera fatta ogni giorno a Città del Messico da un plotone di militari, come un rito, lo spettacolo minaccioso del potere. E’ un film politicamente molto forte, con un modo nuovo di raccontare una storia, e che in Italia pochi hanno visto. Ma come può un giovane regista italiano fare il suo film senza aver visto La battaglia nel cielo? Per non parlare delle centinaia di film interessanti che non escono in Italia. I film sono tutti legati, è questa riproducibilità globale che è il cinema, tutto è interconnesso. Ho sempre lavorato pensando che in qualche modo mi arrivassero cose dal passato, da John Ford, da Renoir, da Godard certo, e che “la storia del cinema” sia un grande film le cui sequenze sono tutti i film che sono stati fatti, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, un lungo film che dura dalla prima sequenza dell’entrata del treno nella stazione fino a Avatar e a Film socialisme”.
Anche questo è uno “sfarfallìo”, come hai mostrato in Dreamers, un film sul desiderio di cinema.
“Sì, i tre ragazzi si incontrano alla Cinémathèque, la loro passione e il loro vizio è il cinema. Nella loro vita, nel momento in cui si chiudono nell’appartamento e non escono più, il cinema è continuamente presente. La visita al Louvre in Dreamers viene dalla visita al Louvre in Bande à part di Godard, e alla fine della corsa, come in una citazione vivente, i tre ragazzi guardano l’orologio e dicono: “abbiamo battuto Bande à part”. Non più solo il divertimento di fare la citazione a voce, ma di viverla e rappresentarla. L’idea del film era quella, dove poi si mescolava tutto, come avveniva nel ’68: il cinema, la politica, il privato”.
Continuo a sfogliare il libro: il 2007 è l’anno del tuo intervento per i “centoautori” su Repubblica, dove chiedi se sia ancora possibile oggi fare film come Salò o Novecento...
“Ho detto poco tempo fa che in Italia siamo tutti demotivati. L’idea mi è venuta guardando la fine ingloriosa degli Italiani ai mondiali di calcio. Mi sembrava che il problema non fosse né il clima né la scelta dei giocatori né un errore di strategia, ma che la squadra fosse completamente demotivata, senza una ragione vera per cui giocare, per cui vincere. Lo vedo in me, ma anche guardandomi intorno vedo una sincera e penosa demotivazione. Perfino chi ha rovinato gli ultimi anni l’Italia con delle decisioni politiche, il governo, la maggioranza. Come può un ministro dire: “Ah!, se trovo quello che mi ha pagato la casa senza che io lo sapessi...!” C’è demotivazione anche in chi ruba. Con questo filtro negli occhi vedo demotivata anche l’opposizione, anche la sinistra estrema, che non c’è più. L’unico è Vendola, che infatti scrive anche poesie e così riesce a comunicare. Mi auguro che riesca a rendere più popolare il suo progetto”.
Il tuo intervento del 2007, perorazione a un progetto culturale e politico, è un appello all’utopia e all’immaginazione: “Se tutto questo è poesia, diamogli una possibilità di esistere”. Proseguiva il tema dei sognatori, Dreamers...
“Quando abbiamo deciso quel titolo sapevamo che una parte del pubblico intende la parola “sognatori” quasi come insulto, ma l’ho chiamato così perché è la capacità di sognare quella che ci porta avanti, che il sogno sia realizzato oppure no. L’importante è sognare”.
Ti ricordi le critiche di “Le Monde” a Dreamers?
“Che era il film di un voyeur...”
Più esattamente, con parola medievale, che avevi uno sguardo troppo “concupiscente”. Ma il tuo voyeurismo o “concupiscenza” è uno sguardo estetico, il contrario dell’anestesia. Clare mi disse ridendo che tu sei “concupiscente” anche quando guardi una tazza di tè...
“Il fatto è che quando faccio un film mi innamoro dei protagonisti. I miei film sono dichiarazioni d’amore per i loro attori. Facendo Dreamers era quasi ovvio innamorarsi di quei tre ragazzi che insieme creavano una sensualità forte. L’articolo trasformava il film in un oggetto di “concupiscenza”: mi ha fatto tornare in mente l’arringa del Pm nel ’73 contro Ultimo tango. Sfiorava l’oscenità, con un linguaggio da confessionale, formule tipo “continui appuntamenti carnali”, “palesi sodomie”, che cercavano di fare del film un’opera pornografica. Era l’arringa ad essere pornografica. L’Italia è il risultato di anni di sguardo televisivo che porta all’anestetizzazione. E avere sottovalutato il conflitto di interessi che ne è la causa è stato l’errore più grave della sinistra italiana”. “Sì, il mio sguardo è innamorato delle cose, delle persone, di tutto. Come i tre fotogrammi della sequenza de L’ultimo imperatore che erano sulla copertina di Alias, l’altro giorno: il personaggio, prigioniero politico, è nel gabinetto della stazione e mette le mani nel lavandino, fa scorrere l’acqua calda e si taglia le vene. Il lavandino si riempie di sangue. E’ l’identica inquadratura del lavandino all’inizio di Dreamers. Là c’era il sangue, qui la pipì di Michael Pitt”.
Forse è l’innamorarsi e il fare innamorare il filo che lega il cinema, la letteratura, l’estetica e la politica. Di cosa sei innamorato adesso?
“In questo momento sono innamorato di un’orchidea, quella dietro di te”. La guardo, fiori bianchi con sottili ricami rossi, sembra finta. “E’ vera, ma sembra di stoffa, appunto. Quando facevamo film in interni veri, giravamo dal vero e volevamo segretamente che sembrasse girato in un teatro di posa, e quando giravamo in teatri di posa volevamo che tutto sembrasse vero. C’è sempre questo gioco del vero e del falso, del confonderli. Inseguivamo questa duplice scommessa. Quell’orchidea vera ti è sembrata finta, mi fa piacere. Dove la metterò quest’estate? Non so se posso portamela in giro come un cane o un gatto”.
"In verità vorrei fare una strana lezione di cinema a un piccolo gruppo di cinéphiles. Raccontare le mie esperienze cinematografiche, i miei incontri, la realtà che si trasforma in cinema. Userò due macchine da presa digitali, in questa stanza dove siamo adesso. Ho organizzato una troupe di 2 persone. Per tre volte ho deciso la data di inizio, e per tre volte l’ho cancellata. Girare o non girare? Muovermi o non muovermi?”
(conversazione uscita, con altro titolo, su Venerdì di Repubblica del 30 luglio 2010)
Bernardo Bertolucci ha appena pubblicato un libro (“il libro che non sapevo di avere scritto”), La mia magnifica ossessione (Garzanti): ricordi e interventi scritti tra il 1962 e il 2010. Vi emergono a macchia di leopardo la sua opera e la sua vita, entrambe ricchissime. Parma, Roma, Parigi, il primo incontro con Pier Paolo Pasolini da adolescente, quando a via Carini a Roma gli aprì la porta e lo prese per un ladro, salvo l’esclamazione del padre Attilio: “Bernardo, non è un ladro, è un poeta!”. L’amore per Godard e la nouvelle vague, il processo dopo il sequestro di Ultimo tango a Parigi, osannato all’estero, la condanna e l’umiliazione di essere privato dei diritti civili, quindi del certificato elettorale nel 1976; l’epica di Novecento, gli Oscar con L’ultimo imperatore, ecc. Chi lo legge prova quello “sfarfallìo” evocato da Enrico Ghezzi alla presentazione del libro a Palazzo Farnese a Roma, un plusvalore poetico: le cose che sai già le riscopri come per la prima volta, quello che non sapevi è come se lo rileggessi. Mi accade chiacchierando con lui anche adesso.
Apro il libro a caso: “I colpevoli piaceri” è un elenco di film, da Il bacio della pantera (1932) a Speed (1994), da Biancaneve e i sette nani (1937) a Crash (1996) passando per Il piacere di Max Ophuls (1951) e La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni (1953). Cosa significa?
“C’era una pagina della rivista americana Film Comment, cugino americano dei Cahiers du Cinéma, che si chiamava guilty pleasures, “colpevoli piaceri”: in ogni numero un regista elencava dei film che amava di nascosto. Non ricordo quali fossero i miei, ma i titoli che hai letto non sono “guilty pleasures”, ma film che amo davvero, alla luce del sole”.
Forse è perché i sensi di colpa non li hai, l’hai anche scritto: “non mi sento in colpa per quello che mi piace, praticamente è tutta la storia del cinema.”
“Non ci si può sentire colpevoli di amare Il piacere di Ophuls, è un capolavoro assoluto. Forse dovrei correggere: non sono film che mi sento colpevole di amare, ma che ho molto amato e sono spesso sconosciuti... Mi piace però che stai seduto davanti a me e sfogli il mio libro che non ho ancora letto (e non sapevo di aver scritto). Forse non l’ho letto per un banale senso di colpa: non sono uno scrittore. Lo sono diventato ufficialmente l’altro giorno a Palazzo Farnese, anche se entrare in quel paradiso per gli occhi mi ha tolto qualsiasi ombra”. Scherza sul privilegio di avere visto gli affreschi dei Carracci “in carrellata”, spinto sulla sedia a rotelle dalla moglie Clare Peploe: “Quando mi muovo vedo tutto in carrello, un po’ come nei miei film, dove le inquadrature sono sempre in movimento. Inutile parlare delle operazioni che ho avuto (sconsiglio a chiunque di farsi operare alla schiena). Ora sono seduto, ma non è detto che non possa tornare a camminare. Forse sono fermo perché ho deciso di essere fermo, non per una vera impossibilità. Non credo al destino, tutto ciò che ci accade è sempre in qualche modo escogitato da qualcosa (o qualcuno) dentro di noi, i nostri demoni. Forse mi sono fermato per non andare verso la vecchiaia, o verso la morte. Diciamo la verità, dove andiamo tutti?”
Sorride. Io continuo a sfogliare il libro: un testo in difesa di Antonioni, “Un film non è un libro”, replica alla stroncatura che fece Irene Bignardi di Al di là delle nuvole (“sentii che dovevo difenderlo, perché lui non era in grado di farlo da solo”). Nella pagina dopo il suo necrologio: Antonioni è morto lo stesso giorno di Ingmar Bergman, estate 2007: “La morte di Antonioni e di Bergman è una poetica e tragica coincidenza, pur non credendo al destino né tantomeno al libro del destino: due cineasti così vicini nel modo di raccontare l’interiorità delle persone hanno maturato insieme la loro morte. Si sono sincronizzati”.
Pensi che con loro si è spento un modo di raccontare?
“Hanno regalato al cinema il loro modo di raccontare, e questo rimane, non scomparirà mai. Quando mi chiedono che film mi piacciono, io vorrei rispondere che mi piacciono tutti, tutta la storia del cinema. Hélas, in questo momento ci sono molti film, ma pochissimo cinema. Fin dagli anni ’60 sognavo e pensavo al cinema come qualcosa in continuo progress. In tutti i miei film ci sono storie e personaggi, ma c’è anche il film che si interroga su che cos’è il cinema, e pensavo che questo fosse la presenza del cinema in un film, un continuo interrogarsi per andare avanti. Adesso che lo dico sento ancora di più che sono fermo: in questo momento forse faccio cinema, ma non faccio film” (sorride).
E’ la stessa cosa per la letteratura: ce n’è poca, anche se ci sono tanti libri - in gran parte romanzi modellati sulle sceneggiature di film senza cinema... Ma c’è un film messicano che abbiamo amato molto entrambi, che contiene ed espone cinema, La Battaglia nel cielo di Carlos Reygadas...
“E’ un film che va coraggiosamente verso abissi continui. Comincia con una lunga fellatio e finisce con una lunga fellatio. Una storia molto semplice e molto intima, cadenzata come una campana dall’alzabandiera fatta ogni giorno a Città del Messico da un plotone di militari, come un rito, lo spettacolo minaccioso del potere. E’ un film politicamente molto forte, con un modo nuovo di raccontare una storia, e che in Italia pochi hanno visto. Ma come può un giovane regista italiano fare il suo film senza aver visto La battaglia nel cielo? Per non parlare delle centinaia di film interessanti che non escono in Italia. I film sono tutti legati, è questa riproducibilità globale che è il cinema, tutto è interconnesso. Ho sempre lavorato pensando che in qualche modo mi arrivassero cose dal passato, da John Ford, da Renoir, da Godard certo, e che “la storia del cinema” sia un grande film le cui sequenze sono tutti i film che sono stati fatti, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, un lungo film che dura dalla prima sequenza dell’entrata del treno nella stazione fino a Avatar e a Film socialisme”.
Anche questo è uno “sfarfallìo”, come hai mostrato in Dreamers, un film sul desiderio di cinema.
“Sì, i tre ragazzi si incontrano alla Cinémathèque, la loro passione e il loro vizio è il cinema. Nella loro vita, nel momento in cui si chiudono nell’appartamento e non escono più, il cinema è continuamente presente. La visita al Louvre in Dreamers viene dalla visita al Louvre in Bande à part di Godard, e alla fine della corsa, come in una citazione vivente, i tre ragazzi guardano l’orologio e dicono: “abbiamo battuto Bande à part”. Non più solo il divertimento di fare la citazione a voce, ma di viverla e rappresentarla. L’idea del film era quella, dove poi si mescolava tutto, come avveniva nel ’68: il cinema, la politica, il privato”.
Continuo a sfogliare il libro: il 2007 è l’anno del tuo intervento per i “centoautori” su Repubblica, dove chiedi se sia ancora possibile oggi fare film come Salò o Novecento...
“Ho detto poco tempo fa che in Italia siamo tutti demotivati. L’idea mi è venuta guardando la fine ingloriosa degli Italiani ai mondiali di calcio. Mi sembrava che il problema non fosse né il clima né la scelta dei giocatori né un errore di strategia, ma che la squadra fosse completamente demotivata, senza una ragione vera per cui giocare, per cui vincere. Lo vedo in me, ma anche guardandomi intorno vedo una sincera e penosa demotivazione. Perfino chi ha rovinato gli ultimi anni l’Italia con delle decisioni politiche, il governo, la maggioranza. Come può un ministro dire: “Ah!, se trovo quello che mi ha pagato la casa senza che io lo sapessi...!” C’è demotivazione anche in chi ruba. Con questo filtro negli occhi vedo demotivata anche l’opposizione, anche la sinistra estrema, che non c’è più. L’unico è Vendola, che infatti scrive anche poesie e così riesce a comunicare. Mi auguro che riesca a rendere più popolare il suo progetto”.
Il tuo intervento del 2007, perorazione a un progetto culturale e politico, è un appello all’utopia e all’immaginazione: “Se tutto questo è poesia, diamogli una possibilità di esistere”. Proseguiva il tema dei sognatori, Dreamers...
“Quando abbiamo deciso quel titolo sapevamo che una parte del pubblico intende la parola “sognatori” quasi come insulto, ma l’ho chiamato così perché è la capacità di sognare quella che ci porta avanti, che il sogno sia realizzato oppure no. L’importante è sognare”.
Ti ricordi le critiche di “Le Monde” a Dreamers?
“Che era il film di un voyeur...”
Più esattamente, con parola medievale, che avevi uno sguardo troppo “concupiscente”. Ma il tuo voyeurismo o “concupiscenza” è uno sguardo estetico, il contrario dell’anestesia. Clare mi disse ridendo che tu sei “concupiscente” anche quando guardi una tazza di tè...
“Il fatto è che quando faccio un film mi innamoro dei protagonisti. I miei film sono dichiarazioni d’amore per i loro attori. Facendo Dreamers era quasi ovvio innamorarsi di quei tre ragazzi che insieme creavano una sensualità forte. L’articolo trasformava il film in un oggetto di “concupiscenza”: mi ha fatto tornare in mente l’arringa del Pm nel ’73 contro Ultimo tango. Sfiorava l’oscenità, con un linguaggio da confessionale, formule tipo “continui appuntamenti carnali”, “palesi sodomie”, che cercavano di fare del film un’opera pornografica. Era l’arringa ad essere pornografica. L’Italia è il risultato di anni di sguardo televisivo che porta all’anestetizzazione. E avere sottovalutato il conflitto di interessi che ne è la causa è stato l’errore più grave della sinistra italiana”. “Sì, il mio sguardo è innamorato delle cose, delle persone, di tutto. Come i tre fotogrammi della sequenza de L’ultimo imperatore che erano sulla copertina di Alias, l’altro giorno: il personaggio, prigioniero politico, è nel gabinetto della stazione e mette le mani nel lavandino, fa scorrere l’acqua calda e si taglia le vene. Il lavandino si riempie di sangue. E’ l’identica inquadratura del lavandino all’inizio di Dreamers. Là c’era il sangue, qui la pipì di Michael Pitt”.
Forse è l’innamorarsi e il fare innamorare il filo che lega il cinema, la letteratura, l’estetica e la politica. Di cosa sei innamorato adesso?
“In questo momento sono innamorato di un’orchidea, quella dietro di te”. La guardo, fiori bianchi con sottili ricami rossi, sembra finta. “E’ vera, ma sembra di stoffa, appunto. Quando facevamo film in interni veri, giravamo dal vero e volevamo segretamente che sembrasse girato in un teatro di posa, e quando giravamo in teatri di posa volevamo che tutto sembrasse vero. C’è sempre questo gioco del vero e del falso, del confonderli. Inseguivamo questa duplice scommessa. Quell’orchidea vera ti è sembrata finta, mi fa piacere. Dove la metterò quest’estate? Non so se posso portamela in giro come un cane o un gatto”.
"In verità vorrei fare una strana lezione di cinema a un piccolo gruppo di cinéphiles. Raccontare le mie esperienze cinematografiche, i miei incontri, la realtà che si trasforma in cinema. Userò due macchine da presa digitali, in questa stanza dove siamo adesso. Ho organizzato una troupe di 2 persone. Per tre volte ho deciso la data di inizio, e per tre volte l’ho cancellata. Girare o non girare? Muovermi o non muovermi?”
(conversazione uscita, con altro titolo, su Venerdì di Repubblica del 30 luglio 2010)
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