7/09/2010

I costruttori di vulcani di Carlo Bordini

Come ho scritto in un blog (absolutepoetry), io sono troppo intimo per commentare Carlo Bordini - intimo alla sua poesia, al suo farsi, e a molti episodi della sua vita che hanno in qualche modo influito sulla sua poesia. Ma di questo sono sicuro: che la sua opera è una delle più alte di questi decenni, di una bellezza e di un’autenticità spesso acceccanti; che la sua è tra le poche opere di poesia che si leggono misteriosamente come un romanzo, cioè con suspence e passione; o, come mi ha detto lui spesso di Stendhal, che si può leggere anche in autobus. La sua poesia ha qualcosa in comune coi vulcani, in effetti: l’energia latente, esplosiva, tanto più intensa quanto apparentemente non erompe. Se Carlo Bordini fosse americano, o qualcosa del genere, i suoi libri sarebbero, ne sono certo, dei libri di culto. Ma siamo in Italia. E comunque sia I costruttori di vulcani è un libro magnifico, da leggere e rileggere.
Detto questo, il testo che segue è un articolo/intervista che già da tempo avevo fatto per Venerdì di Repubblica, e che per una serie di rinvii, ultimo dei quali lo sciopero odierno, sarà in edicola nel numero che esce in edicola domenica. Spero vi dia la voglia di andare a comprare questo libro.

Intervista a Carlo Bordini, costruttore di vulcani

Noi vi dobbiamo sembrare una strana categoria / un po’ folle e nebulosa / ed infida / anche...”. Così inizia e finisce, con una poesia emblematica degli anni Settanta usata come sigla (“poi venne la crisi di fine estate a quasi tutti noi”, e “questa discesa negli abissi / profondi di se stessi”), il libro che raccoglie 35 anni di lavoro di un grande poeta italiano, Carlo Bordini, col titolo (bellissimo) I costruttori di vulcani. Poesie 1975-2010 (Luca Sossella Editore).
Ci sono i versi introvabili degli anni in cui Bordini faceva parte di “Poesia nel movimento”, c’è il mitico poema Strategia (un attraversamento della follia occasionato dall’amore, visto come estenuante match di pugilato), i poemi Pericolo, Polvere, Sasso, noti al pubblico dei reading da Castelporziano in poi. Dei vulcani la poesia di Carlo Bordini ha l’energia latente ed esplosiva, cioè l’intensità, la potenza, l’apparente amenità (i vulcani, si sa, possono essere laghi o monti belli da vedere). Ma non dimentichiamone l’attualità: se un’eruzione in Islanda con la sua nuvola di cenere ha paralizzato il traffico aereo, in fondo i poeti hanno sempre saputo che basta una nuvola per fermare il mondo.
Bordini ha superato i settant’anni senza perdere l’aria di ragazzo svagato in scarpe da ginnastica, l’umorismo sornione e un senso acuto del grottesco (è autore di un esilarante Manuale di autodistruzione). Di ritorno da una serie di letture in Germania e in Serbia, è in partenza per la Francia, dove è stato tradotto, e un anno fa ha dato alle stampe per l’editore Sossella un delizioso librino di appunti di poeta viaggiatore in America Latina: Non è un gioco. “Al festival di poesia di Bogotà ho capito l’importanza della poesia nei paesi poveri alla periferia del mondo, il senso del sacro che la circonda e che non passa attraverso integralismi. Ogni società ne ha bisogno, ma in Colombia ho visto gente piangere ascoltando una poesia, anche soldati armati. Lì la poesia è sacra perché rientra nella ricerca del significato dell’esistenza. D’altronde è nei momenti più terribili della Storia, nei periodi di orrore, che prolifera la poesia. Come a Sarajevo durante l’assedio”. Io stesso, dice, “scrivo per dare ordine alla mia vita, per non impazzire”.
Sulla sua visibilità e invisibilità di poeta dice: “A parte che sono pochissime le figure notevoli nel campo della critica, credo che dipenda da una mia certa antiletterarietà (più apparente che reale) e da una mia supposta semplicità (anch’essa più apparente che reale). Ma confesso che non sono mai stato un campione di pubbliche relazioni. Il dato nuovo è che la mia poesia interessa ai giovani. Amo i poeti irregolari. Di quelli del secondo Novecento italiano soprattutto Roberto Roversi, Amelia Rosselli, Pasolini”. “La critica letteraria italiana - continua Bordini - è ancora legata all’idea che in poesia esistano materiali nobili e materiali ignobili - idea superata da decenni in ogni altro campo artistico, dove vale la contaminazione. La poesia da noi è ancora aulica, prevale l’elemento apollineo su quello dionisiaco. Il più grande poeta italiano, Dante, in Italia è isolato. Grandi e pensosi poeti del Novecento come Eliot e Pound hanno imparato l’italiano per leggere Dante, i poeti italiani quasi lo ignorano, a parte Pasolini”.
Il che ci riporta al legame tra poesia e inferno, l’orrore in cui la poesia si diffonde come epidemia buona. La sua, che dice la disgregazione storica e umana con stile apparentemente disgregato, è una poesia dei nervi spezzati, con tratti di moralità “stoica”, coincidenza tra stile di scrittura e stile di vita. Imparentato sia con un certo Dante che con un certo Raymond Carver, le parole che più mi vengono in mente sono quelle del capolavoro di William Burroughs, “il pasto nudo”, che potrebbero benissimo designare l’esperienza profonda e rischiosa della poesia. “Un grande artista – dice Bordini - è quello che decide di fare un viaggio, un viaggio all’inferno e in paradiso. Per fare questo libro come un’opera organica ho tolto delle poesie che non ho potuto metabolizzare, seguendo un’arte del mosaico, o meglio del puzzle. Ho voluto fare un libro cattivo, a volte feroce, con poesie che emergono come punte che feriscono”.
Gli acumina, le “punte” che feriscono, sono storicamente il connotato della poetica stoica, del suo stile morale – senza dimenticare che la stessa parola “stile” (stilos) indica in origine un coltello. La poesia Epidemia è tra quelle indicate come le più cattive. Parla della fine del mondo in tono pacato, ma “nasce come una maledizione, io vi ho scritto esattamente quello che pensavo, come un omicidio o un suicidio rituali”. Fatta all’epoca dello scandalo bio-politico della “mucca pazza” e del massacro del G8 a Genova, l’autore adopera frasi di giornali sostituendo alla parola “mucche”, abbattute perché infettate dal morbo, la parola “schiavi”. Bordini usa spesso la tecnica del collage, inserendo testi altrui, come certe avanguardie visive del Novecento. Non a caso ama il pre-surrealista Guillaume Apollinaire, con cui condivide una non appartenenza. La poesia di Bordini rientra insomma in una “strana categoria”, quella dell’intensità libera, del non codificato, del senza requie, del vulcano agli antipodi dell’ideologia.
“Io non scrivo, sono scritto. Ho imparato a diffidare delle ideologie e del senso del dovere, la realtà è infinitamente più grande, vera e libera del pensiero. Se esaminassimo tutta la letteratura civile degli ultimi 150 anni, scopriremmo che funziona solo chi, fuori dagli schemi, porta in sé un elemento di eresia”.

(da Venerdì di Repubblica del 9/7/2010 - in edicola domenica 11 luglio)

4 commenti:

Olivier Favier ha detto...

Bellissimo.

alessandra vanzi ha detto...

conosco e ammiro carlo bordini e la sua poesia hai scritto un bellissimo articolo su di lui bravo!

MariellaT ha detto...

... il contatore commenti non conta il mio, il contatore non mi conta: forse anch'io sono un fantasma ... sorrido.

Anonimo ha detto...

vi ringrazio molto (e, credo, anche a nome di Carlo B.)
(beppe)