10/10/2009

Fuori luogo (per Derrida)

Scrivo questa rubrica nell’ennesima stanza d’albergo, ma già abituato al tavolo, al letto, alla finestra (questa volta sul golfo di Napoli), e penso così alla frase di uno scrittore ebreo americano sull’attuale diaspora universale come condizione umana: essere sempre ovunque e in nessun luogo, e soprattutto mai a casa. (Forse è per questo che abbiamo così bisogno di una home page). Siamo tutti clandestini, ma anche tutto intorno a noi, stando a quello che leggo sui giornali, appare sbagliato e fuori posto, parole comprese. La democrazia è “comunista”, si lamenta il capo del governo.
Sono a Napoli, ospite dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, al convegno sul grande filosofo Jacques Derrida (di cui per anni fui allievo) a cinque anni dalla morte. Che cosa significa “grande filosofo”? Che ha insegnato di nuovo a pensare; a dubitare, prima di tutto, e a guardare in modo nuovo il mondo, compresi noi stessi, i nostri pensieri e le nostre parole. A formulare quindi nuovi modi di dire e di pensare. Come si dice di un grande scrittore, che allarga l’area del raccontare storie, del narrabile, così un filosofo allarga l’area del pensare, della teoria. Derrida parlava di continuo di cose e problemi fuori luogo (ma lui diceva, con Shakespeare, “out of jont”, fuori asse).
Forse il problema filosofico più importante è da sempre quello stesso che pone la letteratura: come tornare a casa (anche se non è mai la stessa che abbiamo lasciato alle spalle). Come sentirsi a casa. Derrida ha parlato molto del dovere etico di ospitalità e accoglienza, con discorsi paradossali e inattesi, cioè “fuori luogo”. E oggi che in Italia “essere clandestini” - che è la condizione ontologica più diffusa - è diventato un crimine oltre ad essere un pleonasma, mi chiedo cosa ne sarà del pensiero: sarà bandito anch’esso, fuori luogo e fuori legge?

(in uscita su l'Unità, domenica 11 ottobre, rubrica "acchiappafantasmi")

1 commento:

Anonimo ha detto...

bellissimo pezzo...