7/30/2007

Intervista

(l'Unità, 30 luglio 2007)

Henri (fatto) a pezzi
Una vita oltre Diana


di Paolo Di Paolo

Alla sola figura «interamente, banalmente umana» della tragedia che dieci anni fa costò la vita a Lady Diana e a Dodi Al Fayed, Beppe Sebaste ha dedicato un romanzo strano e commovente, appena tornato in libreria: H.P. L’ultimo autista di Lady Diana (pagine 258, euro 11,00 Einaudi Stile Libero). Passò per responsabile dell’incidente, Henri Paul; fu bollato dai giornali come alcolizzato; il suo corpo, dopo la morte, fu ostaggio «di perizie e controperizie legate alla costruzione di una verità ufficiale» (la più facile, e forse proprio la meno attendibile). Nella casa del signor Paul, lasciata in ordine quella sera di agosto del 1997, c’erano delle baguette fresche in cucina, e un curioso biglietto in soggiorno: «Non fidatevi della stampa». Da qui - da una ricerca di tracce - comincia il romanzo di Sebaste, guidato dalla imprevista simpatia-empatia provata per questo «signor nessuno» schiacciato da una storia (un «gioco mondiale di Tarocchi») troppo più grande di lui. Nel rumore attorno alla morte della Principessa, chi si è preoccupato di salvaguardare la dignità dell’esistenza ordinaria di H.P.? e chi l’ha sentito il dolore della sua famiglia, stretta in una ingiuriosa morsa mediatica? Sebaste, portandosi dietro questi interrogativi (oltre a quello, il più angoscioso, di Celan: «Chi testimonia per i testimoni?»), tenta con coraggio un atto di restituzione. Mette in gioco sé stesso (i sentimenti non lo spaventano) e si fa accompagnare da H.P. in quel tunnel de l’Alma (ovvero dell’Anima), il cui nome, a posteriori, pare un’indicazione decisiva. Così compone un romanzo che è insieme indagine, testimonianza, diario; un libro straordinario in cui entra molta vita, che «è già senso»: ciò che di noi - di H.P. e di tutti; di tutti gli H.P. della Terra - si deposita qui (oggetti, gesti, parole; nelle case, negli occhi di chi resta). Perché «è solo parlando di qualcuno in particolare - da cui sei stato scelto, per così dire, piuttosto che aver scelto - è solo parlando della vita di qualcuno, senza illudersi di esaurirla, che si può far sì che chiunque possa riconoscersi».
H.P. L’ultimo autista di Lady Diana è un libro che coinvolge, commuove - e fino alle lacrime, a tratti: fa piangere perché, con il respiro della compassione, ci avvicina il valore delle nostre vite ordinarie, la complessità preziosa del nostro «privato». Sebaste riflette, domanda, ricorda; e spende di sé amori, passioni, incontri (appaiono con la forza di rivelazioni intuizioni e atti di Lévinas, di Derrida, di molti maestri, filosofi e scrittori) - per capire. Chiede molto alla letteratura, ne avverte (ne rinnova) la necessità. E senza schematismi o indici alzati, mostra - empiricamente - a molti suoi colleghi quali e quante domande essenziali hanno smesso, da troppo tempo, di porsi.
Beppe Sebaste, quando apparve per la prima volta, nel 2004, questo suo libro sembrò inaugurare, almeno in Italia, un genere nuovo, ibrido. Che cosa c’è dietro questo singolare approdo?
«Il tentativo di partecipare a una ricerca nuova che investe letterariamente sugli apporti di ciò che si chiama testimonianza, archivio, documentario. Porzioni intere di realtà vengono impastate di narrazione soggettiva, finendo col risultare - come hanno evidenziato in molti - più romanzesche di qualunque romanzo di finzione. È una modalità di scrittura che si sta affermando a livello planetario, e non solo in letteratura. Penso anche al cinema, a quanta vitalità intellettuale e sentimentale scaturisca dai documentari, lirici o avventurosi che siano. La scelta del documentario rappresenta una fortissima e necessaria reazione alla pervasività e all’invadenza di una cattiva dimensione narrativa, simulacrale, di vera finzione, prodotta da quegli organi che dovrebbero essere teoricamente deputati al racconto della verità. Sto parlando, va da sé, dei media. Immersi come siamo in una tale inutile, a volte nauseante, finzione-simulacro fine a se stessa, paradossalmente proprio chi che era deputato a raccontare storie, a produrre finzioni, mondi immaginari (lo scrittore) si trova invece a dover raccontare la realtà. C’è dunque una valenza politica in questa scoperta non solo italiana della dimensione documentaria nella fiction, di contro a una “finzionalizzazione” della realtà (e della politica)».
Pensa che la definizione di «romanzo» vada stretta a questo suo libro?
«No. H.P. è a tutti gli effetti un romanzo; ha partecipato al Premio Strega, che è un premio per romanzi. Lo si può considerare naturalmente il risultato di una evoluzione del genere. E d’altra parte, il romanzo non vive se non evolvendosi (da Balzac a Proust, da Joyce a Robbe-Grillet). È quando resta uguale a se stesso, che diventa para-letteratura, non-letteratura. O, tutt’al più, letteratura da stazione».
«H.P.» però non racconta un personaggio ma una persona. Questo non complica le cose?
«Ma in realtà Henri Paul, famoso per caso, è stato per la stampa esclusivamente un personaggio. E in fondo il titolo di questo libro accetta, con una certa amarezza, il cliché giornalistico: l’autista di Lady Diana. Quando lui non era né un autista, né tanto meno di Lady Diana. Era una persona normale, che faceva un mestiere affascinante: il responsabile della sicurezza dell’Hotel Ritz, il più complesso e leggendario albergo d’Europa. Proprio perché non sono un giornalista, ma uno scrittore, ho cercato - con i mezzi della letteratura (con il suo approccio “lento”, non semplicistico) - di far tornare persona un personaggio. L’intuizione che dietro quel colpevole designato, quel capro espiatorio ci fosse una persona, per la quale ho sentito empatia, mi ha guidato nel raccogliere testimonianze su di lui e, quasi senza soluzione di continuità, anche su me stesso».
Raccogliendo le tracce dell’esistenza di Henri Paul, qual è stato il sentimento in lei dominante?
«Forse lo stupore. “Che cos’è lui per me? chi sono io per lui?”, mi chiedevo. Queste stesse domande risuonano nell’Amleto di Shakespeare, in uno dei passi che mi emozionano di più. Quando viene messa in scena, davanti al principe, la morte di Ecuba, e l’interprete si commuove. “Che cosa è Ecuba per lui? Chi è lui per Ecuba?”, si domanda Amleto. Ecco, questa è l’etica della letteratura, della finzione che non è più finzione: perché le lacrime sono vere. Per me, la letteratura è un incontro infinito, di uno stupore infinito e senza nessuna traccia di pregiudizi, con l’umano, che è inesauribile. Attraversare e farsi attraversare dall’umano: questo è scrivere».
E quel «no trespassing» («non oltrepassare») che lei richiama nel libro - la frase che, nel film «Quarto potere», sta a protezione del privato del protagonista Kane - come lo si aggira, come va inteso?
«Il no trespassing indica l’impossibilità di incontrare l’umano attraverso il voyeurismo giornalistico, che è l’equivalente della pornografia. Il giornalismo, soprattutto quello televisivo, nella sua pretesa di penetrare tutto e dappertutto, in realtà non penetra niente. L’umano è irriducibile alle modalità di racconto dominanti. Mentre invece oltrepassare quella barriera, quella frontiera del “privato”, qualunque cosa significhi, non solo è possibile, ma è il dovere della letteratura, perché la letteratura non parla d’altro. E l’ambito, l’esperienza dell’umano oltre questa frontiera è talmente inesauribile che coincide con l’inesauribilità, l’illimitatezza della letteratura stessa».
Di verità e sconfitta della letteratura si dice nella quarta di copertina. Perché «sconfitta»?
«Sconfitta in senso politico. Se fosse vincente questo modo di accostarsi all’umano, se fosse la modalità diffusa, ci sarebbe una tale consapevolezza nel mondo, che non esisterebbero forse molte inutili sofferenze, molti inutili conflitti. Vivremmo nella reciproca comprensione e compassione, intesa in senso non religioso, ma più ampio, universale. “Sconfitta”, dunque, perché la letteratura non è un valore dominante. Penso a molti nostri politici. Hanno un’idea della complessità umana e della realtà quotidiana? Riescono davvero a capire, a sapere che cosa sono le persone ordinarie?».
Proprio la riflessione sulle esistenze ordinarie è stato uno dei moventi di questo libro.
«Riconoscere la commovente ordinarietà di una vita diventa più facile in uno scenario così fuori dal comune, così eclatante perché coinvolgeva la morte pubblica non tanto di una persona ma di un’icona, appunto Lady Diana. Una vita ordinaria, diceva Lévinas, richiede più coraggio di quella di un samurai».
Un altro dei temi del suo libro è quello dell’ingiustizia. Ma un destino umano può essere ingiusto?
«Non è ingiusto il destino di Henri Paul, nessun destino è ingiusto: ingiusto può essere invece il racconto che ne viene fatto, ingiuste le menzogne che occultano il senso di una vita. Ingiusto è stato che sui giornali di tutto il mondo Henri sia stato oltraggiato come ubriacone, come responsabile di una tragedia. Era invece una persona brillante, coscienziosa: due giorni prima di morire aveva superato un esame di volo molto complicato; suonava il piano, era uno splendido amico per i suoi amici. Dunque il motivo dell’ingiustizia riguarda anche la consapevolezza di come una famiglia - la famiglia di H.P. - possa essere spezzata, ammutolita dal dolore non solo per la morte di un figlio, ma per il modo in cui questa morte è stata trattata: un modo non “democratico”, nel senso di una democrazia radicale, biologica, necessaria. Farsi parte civile, in circostanze come questa, è un altro dei doveri della letteratura».

INTERVISTA CON LO SCRITTORE Beppe Sebaste che nel romanzo H.P. L’ultimo autista di Lady Diana indaga sul capro espiatorio della morte della principessa e sulla inesauribilità dell’esistenza umana

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho praticamente "bevuto" H.P.Iniziato lo scorso venerdì, l'ho chiuso sabato sera. Solo pausa caffè. E da allora non ho niente da dire. O forse è talmente tanto che è ancora a girarmi in testa. Intenso.Così intenso da aver bisogno, io, di smaltirlo un attimo per poterlo rileggere con calma.Intenso ed emotivo. Nella mia personale top ten 2007, sta al secondo posto, subito dopo "Leggere Lolita.." di Azar Nafisi.

Anonimo ha detto...

Grazie, è un'intervista molto bella e ricca di cose. Mario.