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Diceva il filosofo Emmanuel Levinas che l’assenza è la modalità
della presenza degli altri in quanto “altri”. Fate dunque conto che io sia
un altro, semplicemente. Il mio tempo è attualmente “fuori luogo”, come il traduttore
Pannofino ha genialmente tradotto il romanzo dal titolo shakespeariano di
Philip K. Dick, Time out of joint, Tempo fuori luogo (“the time is out
of joint”, esclama Amleto). Come quasi tutte le sue storie parla di un
dis-astro, di un deragliamento che comincia in modo impercettibile, di una vita
che deve trasformarsi...
La vita di Philip K. Dick fu un fitto percorso di dis-astri,
sconnessioni, tempi fuori luogo e fuori asse. Voi stessi non potete essere
sicuri che questi stand farciti di libri e illuminati a giorno siano davvero
reali, e non un’allucinazione creata dal malin génie di Cartesio,
cui basta un black-out e hop, tutto scomparso, svelando un inquietante,
silenzioso, polveroso nulla. O un Tutt’Altro... Quella ragazza che
accarezza gli scaffali, quella alla cassa, l’uomo appena entrato col berretto
da baseball, l’educato barbone fuori nel piazzale, il cane bastardo zoppicante
intorno ai taxi: sono forse emissari di Dio, e incontrarli sarebbe cruciale per
la vostra vita, ne dipende forse la sorte del Mondo, questo o uno degli
innumerevoli altri.. Forse anche Dio è in pericolo, forse Dio è schizofrenico,
e tutto ciò che accade, i conflitti, le catastrofi, quelle strane slogature
della realtà, quei dettagli vagamente fuori posto, quell’inquietante famigliarità
(Unheimlich), che ogni tanto salta agli occhi, non sono che indizi di
un’immane battaglia la cui posta è riunire le due metà della psiche di Dio,
della vita stessa, la vita del tutto. Pochissimi lo sanno, un bambino, un
animale che parla, un topo che suona il flauto, un profeta dall’aria stupida,
un focomelico, un tossico, una Cassandra qualsiasi. O uno qualsiasi di voi...
Ho cercato di evocare alcuni racconti di Philip Dick, che come
ogni grande scrittore dice ciò che non si vede nascosto da ciò che si vede, e
mette in discussione il concetto di realtà. La letteratura è romantica, e
sovverte il mondo, perché la sua vocazione è spargere il dubbio, esaltare i
“mondi possibili”, che non sono più soltanto gli enunciati controfattuali nella
logica modale: sono gli universi della narrativa, ma anche le utopie e i
progetti di vita.
Leggere oggi Philip Dick è un’esperienza duplice. Da una parte
sembra un documentario, perché molti suoi incubi sono diventati realtà, dalla
dittatura dei pubblicitari alla manipolazione delle menti. Dall’altra, come la
migliore letteratura, continua a prestarci uno sguardo lucido e fraterno non
solo per vedere il mondo e leggere la Storia, ma per resistere e trovare
consolazione. La sua influenza è immensa. La trilogia di Matrix non
sarebbe esistita senza di lui. Non solo per la rappresentazione della vita
finta, il simulacro iperreale alla Truman Show o l’allucinazione collettiva, ma
per cose più sottili, come la figura dell’”Oracolo”, sorta di divinità del
Bene, incarnata nel film da una gentile signora grassa di colore che offre
biscotti appena sfornati all’eroe che ne deve ricevere l’iniziazione: puro
Philip Dick.
Ho provato molte volte a definire lo speciale pathos che si
prova nel leggerlo: credo che stia nel mostrare che la più alta trascendenza si
trova nel massimo dell’immanente, e che le rivelazioni mistiche proliferano
nella “banalità” quotidiana; così come la disperazione descritta nei suoi
romanzi e racconti sprigiona in realtà un’immensa speranza. E’ nei suoi
personaggi emarginati e santi. Come Stephen King dopo di lui, gli eroi di Dick
sono sempre in qualche modo dei disadattati, oppure dei bambini, gli unici
capaci di sconfiggere il Male.
Quanto alla sua umanità, prima che diventasse un maestro della controcultura
in California, si legga la folgorante rievocazione della sua vita scritta, per
introdurre una raccolta di racconti, due anni prima della morte a 50 anni.
Mentre di giorno si serviva di carne di cavallo alla macelleria Lucky Dog,
spiega, la notte scriveva romanzi di fantascienza per articolare meglio i
propri dubbi e paure. Naturalmente il macellaio era ignaro che quella carne di
cavallo, “ad esclusivo consumo animale”, la mangiassero Philip e la sua
compagna, e mai lui l’avrebbe confessato, per paura di incorrere in una
punizione. A parte l’estrema povertà, scrive, “ridotto all’osso il problema è
questo: ho paura dell’autorità, ma allo stesso tempo sono pieno di
risentimento, per l’autorità e per la mia paura... Così mi ribello. Scrivere
fantascienza è un modo per ribellarsi (...), la fantascienza è una forma d’arte
ribelle, e ha bisogno di scrittori con cattive inclinazioni, come quella di
chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l’ha detto?
Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L’universo
è qualcosa di reale?, oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?”
Oppure prendete questo altro avvio di romanzo ai trecento
all’ora, eppure così pervaso di calma: “L’esaurimento nervoso di Horselover Fat
cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli
chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei
rispose che aveva intenzione di uccidersi.” E’ Valis, romanzo teologico
ma anche autobiografico. Mentre nel precedente La trasmigrazione di Thimoty Archer
appare un commovente Alan Watts (colui che diffuse lo Zen negli anni ’60)
elargire perle di saggezza nella sua barca ormeggiata al molo di San Francisco,
augurando agli squattrinati discepoli di essere venuti non per ascoltarlo, ma
per il panino che avrebbero ricevuto alla fine.
Philip Dick era anche un divoratore di libri, un coltissimo e onnivoro
autodidatta, e
questo è un bello spunto per un Salone del Libro. La sua immaginazione aveva a che fare con
quel “moderno” immaginario scaturito dal sapere che il filosofo Michel
Foucault, in un saggio su La tentazione di Sant’Antonio di Gustave
Flaubert, definisce “fantastico da biblioteca”. Così come il libro di Flaubert
era una fantasmagoria di personaggi deliranti, ognuno portatore di teorie ed
eresie cristiane, paleo-cristiane o precristiane, i romanzi di Philip Dick
attingono a un repertorio vastissimo che va dai Vangeli Gnostici di Nag Hammadi
ai manoscritti di Qumran, dai Sufi al Tao, da Eraclito allo Zen, da Basilide
all’I Ching. Vale per Dick quello che Foucault scrisse per Flaubert:
“Per sognare, non si devono chiudere gli occhi, si deve leggere. La vera
immagine è conoscenza”.
Sappiate che Philip Dick è perfino risorto: non so quante volte,
ma una è documentata: per combattere e vincere l’ultima battaglia contro
l’odiato Richard Nixon, simbolo del Male, nel romanzo di Michael Bishop, L’Alternativa,
dove il “fantasma” di Dick sopravvive a forza di caffè bollente.
Ok, buona conversazione. Vorrei tanto ordinare un caffè anch’io.
2 commenti:
...e allora beppe
ordinane due
arrivo
piumalarga
perfetto...
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