(uscito su Venerdì di Repubblica del 18 maggio '12)
“Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono
altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di
abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari
a battaglioni affiancati, di librerie neanche una”.
Così iniziava un mitico pungente reportage da Vigevano che
Giorgio Bocca firmò su Il Giorno, 14 gennaio 1962. Vi descrive la
nascita del self made man italiano, i laboriosi industriali fai da te, i primi
evasori fiscali. Descrive cioè il particolare miracolo dentro al miracolo
economico italiano della produzione di scarpe di Vigevano. Ma a richiamarne
l’attenzione fu l’uscita di un piccolo grande libro, Il maestro di Vigevano del trentenne Lucio Mastronardi,
coscienza libera e inquieta della città. Il successo del romanzo (primo di una
trilogia che comprende Il calzolaio di
Vigevano e Il meridionale di Vigevano)
fu alimentato dal film di Elio Petri con Alberto Sordi.
Ora, se parliamo di Vigevano, di Mastronardi e del reportage di
Bocca a cinquant’anni dalla loro pubblicazione, e dall’esplosione dei fuochi
d’artificio del neocapitalismo italiano, è grazie all’uscita di una bellissima
“vita di Lucio Mastronardi”. Titolo: La
rivolta impossibile. Si legge come un romanzo, e l’ha scritta dopo un
annoso lavoro il giornalista e scrittore Riccardo De Gennaro. Le cose arrivano
quando devono arrivare, e la sincronia è perfetta: come già per la denuncia del
consumismo di Pasolini, forse solo oggi capiamo integralmente la verità attuale
della descrizione del mondo capovolto che Mastronardi ci ha dato, il fallimento
umano del capitalismo, la vita alienata e il mito del denaro, e l’impossibile
uscita dalla caverna. De Gennaro non racconta solo la storia di un magnifico
perdente (Mastronardi si suicidò gettandosi nel Ticino nel 1979), ma una
provincia universale che ci riguarda tutti.
Stralunato maestro elementare, Mastronardi raccontò l’atroce e
grottesco costo umano della corsa all’arricchirsi dei suoi concittadini, uomini
e donne, e la conseguente messa al bando di ogni valore che non fosse il
profitto o la “fabbrichetta”, e il disprezzo verso ogni altra attività, come
l’educazione, la scuola o la cultura. “L’unico posto a Vigevano dove non si
fabbricano scarpe è il carcere, lì si fabbricano penne a sfera”, disse (avendo
conosciuto sia il carcere che il manicomio) a un critico letterario. Pubblicò
nei prestigiosi “Coralli” di Einaudi grazie all’interessamento di Elio
Vittorini prima, di Italo Calvino poi. Nel generale impazzimento il diverso
divenne lui, e la sua marginalità, la sua umanissima rivolta – simile a quella
che a Milano visse l’altro grande scrittore provinciale, Luciano Bianciardi,
che di Mastronardi fu intimo amico – virò in quella follia poetica e walseriana
che è il modo di dire la verità, sguardo e stile visionari, da “provincia
matta”, che lega Pietro Ghizzardi a Gianni Celati, passando per Cesare
Zavattini.
Cinquant’anni dopo eccomi dunque a Vigevano per un molteplice
omaggio, e la prima cosa che faccio per strada è guardare i piedi della gente.
Lo disse Mastronardi a Sordi: a Vigevano alla fermata dell’autobus ognuno
guarda i piedi dell’altro e lo giudica dalla pelle delle scarpe. Gli abitanti
hanno superato i 60.000 grazie agli extracomunitari, ma gli operai sono
vistosamente calati. Al mattino i treni da Vigevano si riempiono di pendolari,
terziario e precariato diretto a Milano o dintorni. La città di Mastronardi era
amministrata dalla sinistra, Pci compreso, fino agli anni ‘90. Ora è governata
dalla Lega. E’ buffo, e in qualche modo mastronardiano: estrapolando frasi
sulla città dai libri del suo figlio ribelle, di recente il Comune ha creato un
percorso letterario visivo e sonoro, quasi una guida turistica. Ovviamente non
manca la bellissima Piazza Ducale coi colonnati e i caffè, e la splendida
facciata barocca del Duomo che, come una quinta teatrale, la chiude da un lato.
Vi accedo dall’antico portone visconteo,
dopo via Cairoli e via XX settembre, dove c’è il palazzo liberty, già albergo
Canon d’Oro, in cui nacque Eleonora Duse, e dove la libreria “Nutrilamente” è
sparita un anno fa, insieme alle uniche quattro panchine del centro.
Ricordo le tante descrizioni della Piazza di Mastronardi,
inadatte allo sguardo turistico: il fare la vasca degli arricchiti
ingioiellati, il loro tempo vuoto e vano
la sera “stravaccati sulle poltroncine”, l’operaio seduto con l’industriale,
entrambi soddisfatti, “come se la ricchezza e la potenza dell’industriale si
riflettessero su di lui”. Seduto qui, Mastronardi ripeteva ai giornalisti che lo
intervistavano: “Sì, questa è una bella piazza, ma i vigevanesi la torre del
Bramante neanche la guardano, pensano solo alle scarpe. Chi non fa scarpe è
considerato un inetto, un uomo superfluo, che non è utile alla famiglia né alla
città”.
Sotto la
guida colta e gentile di Mario Cantella, giornalista e uomo di lettere, vedo
che il bar Sociale di Mastronardi è
stato sostituito dalla Pizzeria Re di
Napoli: i meridionali di Vigevano si sono presi una rivincita,
mentre i cinesi volevano comprarsi (il proprietario non ha ceduto) lo storico
bar Commercio. C’è il bar Bramante, ma più frequentato mi sembra il bar
Colombo: molte signore benestanti ai tavolini. In piedi (il caffè al tavolo costa pur sempre
2 euro) i pensionati parlano di calcio e di politica. Sul lato opposto c’è il bar Haiti, dove si
respira ancora a tratti un’umanità mastronardiana (qualche saputo chiacchierone
locale, eco del giornalista Pallavicini, il paroliere di Mille bolle blu, parodiato nel Maestro
di Vigevano). Ma la sera, dopo l’aperitivo, sono gli extracomunitari ad
abitare i tavolini della piazza, mentre le donne col velo e la carrozzina
passeggiano coi figli. Il sabato e la domenica sono i giorni dei turisti e dei
milanesi.
In piazza
c’è una Feltrinelli, ma al posto della libreria Mondadori c’è ora un negozio di
scarpe Geox, che beffardamente si producono in Veneto. Dal lato opposto al
Duomo c’è la statua di San Giovanni Nepomuceno, dove un tempo ci si sedeva
sugli scalini: un’ordinanza del vicesindaco lo ha severamente proibito. Salgo
per via del Popolo, che porta alla chiesa quattrocentesca di San Pietro
Martire. I negozi eleganti della prima metà della strada cedono il posto a
laboratori di cinesi che lavorano senza orari e a negozi di kebab (un altro ha
aperto proprio di fronte al Municipio governato dalla Lega). A proposito di
cinesi: appartengono a loro molte fabbriche di componenti di calzature
(tomaifici, suolifici, giunterie), anche se non ancora calzaturifici, come è
successo a Prato con la manifattura. Ma l’intrattenimento culturale è quasi
intenso nel Castello Sforzesco: incontri su “la città ideale” di Leonardo (uno
dei numi culturali di Vigevano, che vi soggiornò), su una rivista di storia, e
una mostra sullo stato indiano del Chhattisgarh. Leggo infine di una mostra
d’arte contemporanea in un ex calzaturificio: le fabbriche di Vigevano sono
ormai storia, anzi, archeologia industriale.
Su argomenti connessi puoi vedere anche: http://www.beppesebaste.com/articoli/luciano_bianciardi.html