1/26/2011

Rewind: una lettera di Giulia Niccolai sui maestri (Porte senza porta)

Alcuni anni fa, nell'ipotesi di ripubblicare una nuova edizione dell'ormai esaurito feltrinelliano Porte senza porta (ora Il libro dei maestri. Porte senza porta rewind) ebbi l'idea di chiedere alla mia amica Giulia Niccolai, già protagonista di una bellissima puntata della trasmissione che ai Maestri avevo dedicato su Radio 3 (riproposta nel cd abbinato al libro), una prefazione: lei aveva pratica, insieme, di scrittura e di meditazione, di sottomissione ai maestri e di indipendenza. Ma, giustamente, la sintesi a cui Giulia era pervenuta irreversibilmente, la sua vita nuova, non permetteva la complicità che lei ha immaginato le chiedessi, e che io avevo probabilmente immaginato di chiederle. Mi scrisse invece una lettera personale da cui mi sentii benevolmente trafitto, e che da allora mi accompagna. Ebbi da lei, in una parola, il dono della severità.
L'ho riletta tante volte, fino a pensare (con il consenso di Giulia) che forse potrebbero leggerla giovandosene anche altri, altri magari che come me si dibattono tra alcune delle contraddizioni che lei indica nel suo testo. Senza dire che nel frattempo potrei essere già altrove, e altre cose così retoriche (mi sono già espresso nella nuova "Prefazione alla presente edizione" del Libro dei maestri), anche se scrivere è per me un mestiere, nel senso più artigianale della parola - un divenire sempre per non diventare mai, un divenire altro, non certo un diventare scrittore - ciò non toglie che io mi senta ancora spesso (e faccia) l'orso ammaestrato...
Voglio infine ringraziare un altro amico poeta, Francesco Forlani, a cui devo in fondo l'idea di rendere pubblico questo testo "privato": lui ha da poco scritto su "nazione indiana" un commento - A prose is a prose: Giulia Niccolai - a un libro molto bello di Giulia Niccolai, Esoterico biliardo, su cui scrissi una specie di recensione su l'Unità quando uscì (pure riportata su NI). E, si sa, una cosa, tira l'altra...


"Poema" (1975) scultura di Giulia Niccolai

Lettera di Giulia Niccolai
Carissimo Beppe,
                           questa è una lettera [...], non la nuova prefazione che mi hai chiesto, perché a dire il vero, anche se sono lusingata del fatto che tu abbia pensato a me, mi considero la persona meno adatta per farla. E in questa lettera (che potrebbe anche essere piuttosto lunga), spero di riuscire a spiegartene le ragioni.
Prima di scriverla, ho voluto rileggere il tuo bellissimo Porte senza porta che mi ha affascinato come mi affascinò la prima volta che lo lessi. E’ un libro pieno di entusiasmo e di gioia e te li trasmette quasi a ogni riga, per la felicità e la centratura con la quale i diversi Maestri (Maestri nei più disparati settori), parlano del loro lavoro e delle persone (spesso dei giovani) ai quali lo insegnano. E per l’autenticità, il piacere e l’empatia con i quali tu riferisci tutto ciò a noi lettori, assieme alle osservazioni, ai pensieri, alle rivelazioni che hai avuto parlando e discutendo con loro.
   Ho voluto rileggerlo per vedere se riuscivo a spiegarti le ragioni del mio rifiuto, soprattutto citando ciò che ti avevano detto i Maestri. Perché il fatto di servirmi delle tue stesse parole (e delle loro), sarebbe suonato più convincente e valido per te, e a me avrebbe dato un piacere particolare.
   [...] L’insistenza con la quale mi hai richiesto uno scritto per la nuova edizione di Porte senza porta, mi ha fatto pensare che tu possa trovarti a una svolta nella tua vita, probabilmente in un momento di crisi profonda dopo la morte prematura del tuo grande amico, Giorgio Messori. E che una parte di te speri di trovare un qualche conforto o una via d’uscita dall’impasse in ciò che io (discepola di Lama tibetani da vent’anni, e monaca del Buddismo Mahayana da sedici), possa dirti. Ma non è così.
   Oppure, il problema sta nel fatto che tra due-tre anni ne compi cinquanta e ti stai già chiedendo cosa hai combinato nella vita?
   Del Dharma i Maestri tibetani dicono: 1). che va studiato, 2). che va studiato subito, 3). e che si deve studiare solo il Dharma.
   Sull’argomento della morte spiegano: 1). che la morte è certa, 2). che è incerto il momento della morte, 3). che al momento della morte solo il Dharma può esserci d’aiuto.
   In quei due “solo” in corsivo si evidenzia il valore assoluto che il Dharma (la legge) deve avere per il discepolo. Nonché il fatto che, diventando il perno della tua esistenza, il Dharma, l’insegnamento, sia anche il principale punto di riferimento di tutte le tue esperienze.
   C’è naturalmente una grossa differenza tra studente e discepolo. Così come c’è anche tra un Prof. che insegni Buddismo (o religioni comparate) e un vero e proprio praticante.
   In Porte ti definisci “un discepolo o studente di zen perpetuamente debuttante”, e (a parte l’insicurezza tra il definirsi discepolo o studente), quel “perpetuamente debuttante” è l’ammissione di sentirsi come una sorta di turista del Buddismo, qualcuno che comunque non è “entrato nel sentiero”, non ha definitivamente praticato la Rinuncia, primo e fondamentale passo per il triplice sentiero di Rinuncia, Bodhicitta (la mente altruistica di illuminazione) e Vacuità (la non esistenza inerente dei fenomeni, bensì la loro esistenza dipendente).
   Sei un uomo di cultura intelligente e curioso, sempre alla ricerca di qualcosa, che si è occupato di Buddismo come di Ebraismo o di Cristianesimo. Lo dici e lo dimostri nel tuo libro.
   I Lama definiscono la Rinuncia una “Rinuncia alla sofferenza”, ed è paradossalmente corretto, perché effettivamente si smette di soffrire, ma solo dopo aver sofferto. Si soffre mentre si sta abbandonando (lentamente e nel tempo) tutto ciò per cui si aveva eccessivo attaccamento, o eccessivo odio, dovuti alla nostra ignoranza di cosa sia il Dharma. Odio, attaccamento e ignoranza sono i “tre veleni” che causano le nostre rinascite incontrollate nella ruota del Samsara.
   Man mano che il Dharma entra in noi (sì, anche nelle cellule e nelle ossa), diminuiranno il nostro odio e il nostro attaccamento, finché non ci ritroveremo liberi, veramente liberi delle nostre passate afflizioni mentali. Se il Dharma non ci cambia, non può essere definito Dharma, e uno studente che segua gli insegnamenti di un Lama senza cambiare, senza migliorare, sta ascoltando il Maestro solo intellettualmente, come si può ascoltare un esperto che tenga una conferenza. In altre parole, non si sta purificando e non sta accumulando energia positiva che gli permetteranno di raggiungere il sentiero della visione, della meditazione e del non più apprendimento. In tutto, cinque livelli del sentiero (essendo i primi due quelli della purificazione e dell’accumulazione).
   In Porte citi diverse volte il Sutra del Cuore e mi è sembrato di capire che tu ne sia piuttosto affascinato, e che l’aspetto enigmatico del suo insegnamento ti stia molto “a cuore”. A questo proposito, voglio riferirti il meraviglioso, “paradossale” commento di un Lama proprio a questo Sutra: solo essendo noi un’illusione, possiamo migliorare o peggiorare. E ancora: proprio perché la vita è come un’illusione, ha un senso!
   Ti confesso che a volte mi sembra di capire e a volte no.
   Bene. Ma ora torniamo a noi e al tuo libro.
   Nel capitolo su Fausto Taiten Guareschi, egli cita una frase straordinaria detta dal suo Maestro a un pastore protestante: “C’è qualcosa che vi brilla davanti agli occhi, e vi è indispensabile. Solo nel momento in cui questo scintillio scomparirà (quando non ne avrete più bisogno) potrete capire il vero Zen”.
   Riconosco perfettamente quello scintillio e per me (come credo anche per te), rappresenta la scrittura. Tutto ciò che di bello, autentico, e mai banale ha rappresentato lo scrivere, il mondo degli scrittori, l’intelligenza, l’introspezione, la comprensione della vita e dell’animo umano che i grandi scrittori ci hanno trasmesso. Ecco. Finché ci nutriamo di tale illusione, ci crogioliamo in tale compiacimento, abbiamo una tale ammirazione per loro e una tale aspirazione a imitarli, non potremo capire il vero Zen.
   Dopo che ebbi incontrato il Buddismo tibetano nel 1985, i Lama mi tennero così occupata (per una decina d’anni), che non ebbi più il tempo fisico per scrivere. Come dicono le date sotto i capitoli di Esoterico biliardo, riuscii al massimo a scrivere un capitolo l’anno. In più, i Lama mi sfottevano chiedendomi: ma quand’è che ti rimetti a scrivere? (I Lama sfottono spesso e volentieri).
   Nel 1993 fui invitata a Marsiglia per tre mesi dall’Assessorato alla Cultura. Mi davano uno stipendio mensile, un appartamentino nel Panier (quel montarozzo tra il Vieux Port e i nuovi Docks, senza traffico e dove sembra di stare in campagna), e non dovevo fare altro che scrivere un testo che la loro Casa della Poesia avrebbe poi pubblicato nelle proprie edizioni.
   A dirla così, sembra una situazione ideale e privilegiata. In pratica, la vissi come una sorta di galera per la sua estraneità al mio quotidiano, e perché tutta la situazione mi appariva falsa e forzata. Ogni giorno che mi mettevo a tavolino per lavorare, provavo una vera e propria nausea nei confronti della scrittura e dovevo smettere. Iniziavo così le mie pratiche di meditazione che, come in un ritiro, sarebbero durate tutta la giornata. Alla fine di due mesi capii che ciò che in passato aveva inquinato la mia scrittura era il desiderio di riconoscimento e di successo e scrissi questo breve Frisbee: “Ho la quasi certezza di essere stata una foca in un circo in una precedente incarnazione. Andavo matta per il pesce e gli applausi. Andavo matta per il pesce e gli applausi? Bene, in questa vita ho imparato a farne a meno”.
   Ma ho dovuto scrivere un secondo libro in prosa, Le due sponde, prima di poter dire con convinzione e certezza, ora (dicembre 2006), che sento di essermi liberata del desiderio e del bisogno di scrivere e che vivo questa “novità” come un’assoluta liberazione!
   Ma, come ho cercato di spiegare, questa trasformazione è passata attraverso diverse fasi, anche molto dolorose e ci ho impiegato venti anni. Venti anni di duro lavoro “in miniera” da parte mia, con preghiere, ritiri e lunghe meditazioni quotidiane. Certo non con la bacchetta magica.
   Nel capitolo su Bruno Munari, discutete spesso sulla sua “curiosità” quale molla indispensabile dietro tutta la sua opera di design. Quella di Munari appare dunque come una curiosità “pura e pulita”, che riguarda sempre le forme degli oggetti o delle associazioni poetiche tra le stesse. Ma c’è anche una curiosità inquinata, più “morbosa” direi, più ossessiva, che non ti lascia mai in pace e ti fa sempre essere altrove con la mente. Bene. Anche della curiosità sono riuscita a liberarmi completamente, ma so che il dirlo verrebbe subito frainteso quasi da tutti.
   Nel capitolo su Kar Fung Wu-Santaro, insegnante di qi gong, scrivi che “Nella tradizione classica cinese un ‘letterato’ è il ‘custode della memoria’”. Verissimo, ma vorrei togliere un altro strato alla cipolla, raccontandoti questa esperienza personale.
   Esoterico biliardo può essere considerato un libro di memoria. Come ho appena scritto, ci ho messo più di dieci anni a farlo. Prima di mettere “nero su bianco” ricordavo perfettamente tutte le date nelle quali si erano verificati i diversi episodi importanti di questa mia vita. Dopo averlo scritto, le ho dimenticate tutte. Come dire che il letterato è un custode di memoria finché non ha potuto liberarsene, passandola ad altri. Potremo allora azzardare che, prima la memoria gli pesava come una responsabilità, e poi è riuscito a viverla più impersonalmente?
   Perché appunto, questo dell’impersonalità, del viversi in maniera più impersonale (di prima) è un aspetto fondamentale del cammino spirituale che corrisponde a quella liberazione da se stessi (quale definizione del Nirvana) di cui parla Taiten Guareschi nel capitolo che lo riguarda.
   Cinque o sei anni fa, un giorno in meditazione, ebbi la percezione fisica di aver “sgomberato” un corridoio che dal terz’occhio nel mezzo della fronte porta alla pineale al centro del cervello. “Sgomberato” è il solo verbo che mi sembrasse corretto per ciò che provavo: come se mi fossi liberata di un ammasso di mobili accatastati gli uni sugli altri in cantina (forse “solaio” è più corretto, dato che sto parlando della testa).
   Sul momento non riuscii a interpretare questa sensazione. Solo un anno più tardi, mentre ero al cinema con un’amica che di colpo era scoppiata a piangere, avendogliene io chiesta la ragione, lei mi rispose: “Il film mi ricorda il mio passato”. La parola “passato” mi colpì come un pugno e subito lo associai ai mobili accatastati e al loro “sgombero”. Meditare, praticare tutti quegli anni mi era anche servito a liberarmi del passato, del peso del passato o comunque a viverlo più impersonalmente, essendomi liberata della fissazione che ognuno ha nei confronti di se stesso.
   Ma vedi, anche questo concetto può essere veramente compreso solo da chi ne ha fatto l’esperienza. E viene frainteso da tutti gli altri. Tu prova a dire a qualcuno: “Mi sono liberato del passato”. Indignato, quel qualcuno ti giudicherebbe un barbaro senza cuore e potrebbe anche toglierti la sua amicizia.
   “Gom” tibetano per “meditare”, letteralmente vuol dire “fare esperienza”. Da quanto ho capito, in meditazione, mentre la vita passata ti scorre davanti agli occhi come in una moviola, riesci finalmente a decifrare e a dare il giusto nome a tutte quelle emozioni che ti avevano sopraffatto mentre, trafelata e con la lingua fuori, rincorrevi la vita tentando di non fartela sfuggire di mano. “Vita” che va sempre troppo in fretta perché uno riesca a starle dietro. L’ordine e questa inedita consapevolezza delle proprie passate e caotiche emozioni rende più liberi e leggeri.
   Ti cito dal capitolo su Elizabeth Bing: “Credo fermamente che raccontare un’esperienza significhi viverla pienamente, e che non viviamo davvero ciò che non riusciamo a raccontare”.
   Da ciò che ho appena scritto, risulta che scrivere possa essere considerato come un primo passo verso il meditare?
   Un ultimo accenno a spazio e tempo. La sensazione di “liberazione” alla quale ho accennato diverse volte può anche venire descritta come una sensazione di spazio interiore che si amplia all’infinito, con flessibilità e naturalezza, mentre prima, a volte, ci si poteva sentire quasi senza fiato e soffocati. Credo che questa differenza dipenda dall’aver abbassato le pretese e la petulanza dell’Ego.
   Sempre durante una seduta di meditazione, per pochi attimi, e per una decina di volte in vent’anni, ho vissuto, in diverse forme, un assoluto sconfinamento temporale che, ad esempio, mi riportava di colpo ai miei cinque anni. Non è che ricordassi un momento particolare di me che avevo cinque anni, semplicemente tornavo lì, avevo di nuovo cinque anni, scavalcando in un sol balzo (con degli stivali delle Sette Leghe), tutti quegli anni che mi separavano dai cinque anni di allora. Queste esperienze di pochi secondi ti regalano però un senso di meraviglia e di devozione infiniti e ti fanno pensare di aver “assaggiato” un attimo di eternità. Eternità, ovvero “assenza di tempo”.
   Secondo Einstein e la sua teoria della relatività, è la massa (la materia) a essere assoggettata alla legge del tempo.
   La mente (definita dai tibetani) “chiara limpida e senza forma”, non è materia, e come tale può sconfinare dalla linearità del tempo.
   Ecco. In definitiva, è come se tu abbia vissuto i Maestri in un modo e io in un altro, in maniera diversa. Dunque, è solo per questa ragione che non me la sento di fingere e di parlare del tuo libro - che trovo splendido – come se fossimo compagni di strada.
   Lo siamo, lo siamo stati per quanto riguarda la scrittura, da quando negli anni Settanta, tu ancora liceale venisti a trovare Spatola e me che facevamo la rivista di poesia Tam Tam a Mulino di Bazzano. Non ricordo se quella prima volta fosti solo o ci fosse anche Giorgio Messori. Ricordo che comunque siete stati da noi anche assieme, e con Daniele Benati. Ci siamo poi rivisti a Bologna, quando frequentavi l’università e condividevi un appartamento con Aldo Costa. Ci eravamo venuti con Corrado? Poi c’è sempre stata la tua generosità nei miei confronti: i tuoi inviti alle letture di poesia, a Parma per Di versi in versi, all’università di Ginevra e a Fidenza con Taiten Guareschi. Hai voluto che presentassi un tuo libro alla Mondadori qui a Milano e mi hai fatto collaborare all’Unità. Per tutto ciò io ti sono profondamente grata e l’attrazione che abbiamo da sempre, entrambi, per i giochi di parole e la magia della sincronicità ha agito da validissimo collante nella nostra amicizia e complicità anche se non ci siamo mai visti più di una volta all’anno o ogni due. Tu sei comunque, per me, un solido punto di riferimento.
   Ma so che la scrittura è ancora una ragione di vita per te, che non vi hai rinunciato e non saresti disposto a farlo. Questo è ciò che ora ci rende diversi e che mi impedisce di scrivere il testo che mi hai chiesto. Ti prego di scusarmi. E io ti invio i miei più affettuosi auguri per il nuovo anno e la nuova, “felice” uscita di Porte senza porta, tua Giulia.

5 commenti:

Rossland ha detto...

Grazie di averla condivisa, una lettera su cui meditare...

beppe s. ha detto...

ciao ross, grazie a te

Anonimo ha detto...

caro beppe
avevo letto questa lettera già l'altroieri, è bellissima, hai fatto bene a pubblicarla. I rari commenti al tuo post (e il mio ritardo a rispondere) confermano che tanta sincerità e coraggio spaventano.
E' tenera e commovente, soprattutto costringe il lettore (me in questo momento) ad una sorta di autoanalisi verso la coerenza. Grazie e a presto
piumalarga

beppe s. ha detto...

caro sergio, mi ci ritrovo nelle tue parole, grazie...

Beppe Sebaste ha detto...

P.S. La stessa lettera col mio preambolo è uscita anche su nazione indiana, seguita da alcuni commenti...