Tra poco è Pasqua, e comunque c'è aria di smobilitazione un po' ovunque. Non so cosa farò né se mi sposterò. E comunque, trattandosi qui di viaggi immobili e intensivi, come la scrittura, poco importa. Forse passero qualche giorno a leggere e a mettere a posto cose e idee: "beata solitudo, sola beatitudo".
Col consueto ritardo segnalo un mio pezzo su l'Unità di mercoledì scorso (4 aprile) dedicato a Edgar Morin, Mauro Ceruti e soprattutto l'utopia (di questo, temo, si tratta) di riformare la scuola, o meglio, come scriveva Morin, riformare l'insegnamento e riformare il pensiero. Ero infatti presente l''altro giorno quando, al cospetto del ministro Fioroni, Morin e il suo discepolo italiano Ceruti hanno presentato le linee guida di una riforma radicale della scuola, dei saperi da trasmettere e la loro organizzazione in rete, fino all'educazione a una "nuova cittadinanza" e a un "nuovo umanesimo". Con un forte richiamo alla fecondità del dubbio, all'educazione all'incertezza, alla consapevolezza ecologica del legame fondamentale tra tutte le discipline e i mondi di senso - tra la poesia e la fisica, per esempio. Sono le idee che, prima ancora di Morin, sosteneva il grande Gregory Bateson. Presuppongono la trasformazione degli insegnanti in "maestri", nel senso più ampio e bello della parola. Ma chi forma i formatori? Come resettarli? E poi: avete presente le scuole? E il lavoro di immane, donchisciottesca fatica dei bravi insegnanti che, come ha detto tempo fa in tv Marco Lodoli, vanno di fatto contro a tutto il sistema dei valori dominanti, quelli del mondo extra-scuola? Era bello ascoltare la voce di anziano di Morin predicare una concatenazione dei saperi, scientifici e post-cartesiani (olistici, si dice), insieme alla poesia e alla letteratura, e l'arte e la bellezza, e tutta la soggettività della condizione umana. Eppure, in fondo in fondo, dentro di me risuonava il detto, disperatamente lucido (e ludico) di Jean-Luc Godard: "Cultura = regola, arte = eccezione; è il proprio della regola volere eliminare l'eccezione". E avevo anche un altro pensiero, rispetto alla bellezza (alla politica della bellezza, scriveva Hillmann): come si fa a parlarne in un luogo così brutto e deprimente come il contenitore in vetro e cemento armato, grigio, della Biblioteca Nazionale a Roma, e ancora peggio fuori, nel piazzale, con la vista altrettanto grigia di via Castro Pretorio? Tutto questo, per vari motivi, non compare nell'articolo che vi linko.
10 commenti:
dal nord, ti auguro quella beata
solitudine che ti auguri per questi
giorni.
Marino
Ho letto il tuo articolo sull'"Unità", e anche l'intervista slla "Repubblica", e ho chiesto che la biblioteca del Liceo dove insegno acquisti i libri di Morin. Ho già scritto, in un altro post su questo blog, che ritengo la questione della scuola un'emergenza nazionale (o forse continentale, o meglio di tutta la civiltà: ma, e lo dico con poca ironia, le prospettive troppo ampie rischiano di generare smarrimento, e allora limitiamoci pure al nostro paese). La scuola - perdonatemi la banalità - è lo specchio dell'esistente, il sedimento del passato (dei passati) e il preannuncio del futuro; e in tutte e tre queste immagini trovo motivi di allarme. Da insegnante - tale per scelta e per passione - mi sento una "resistente", impegnata nel compito difficilissimo di indicare la regola e insieme celebrare l'eccezione, la sua bellezza e al sua necessità; e, insieme, di insegnare che mettere un apostrofo al punto giusto è anche un gesto di rispetto, e che leggere la poesia è un atto di responsabilità amorevole e di attenzione civile. Ha ragione Lodoli, non è facile, quando tutto, fuori (e non esiste un fuori e un dentro, è ovvio), preme contro, afferma disvalori, impone conformismi. E' un discorso complicato, ed è bene cominciare a farlo.
milvamaria
da parigi...
anche la mia pasqua è senza parenti, pranzi, agnelli...
però un uovo mi è arrivato lo stesso, da lontano.
bello questo post, sono perfettamente d'accordo.
sono d'accordo, e soprattutto sull'apostrofo di cui parla milvamaria. non solo perché "dio" è nei dettagli. ma perché ogni istruzione e disciplina è sempre prima di tutto veicolo di un'educazione. e l'educazione cos'è? tutte quelle cose lì che dice morin e non solo morin...
ho passato un anno chiuso nella biblioteca nazionale a leggere testi di un gesuita genovese del 600. tra i tanti ce n'era uno in cui Agostino Mascardi, il gesuita in questione, tracciava la parata di consacrazione di papa Barberini. un testo glorioso, infarcito di allegorie di ogni genere. oggi parto per l'italia e mi diverto a preparare un piccolo corso per un ragazzo francese che parte per roma: la sua prima volta, o quasi. provo a fargli immaginare nella roma di ora la roma di allora, e mi dico che quel vecchio testo polveroso ha resistito ai secoli perche la mia voce lo rende a qualcuno. mi dico che la polvere delle biblioteche cosi si aerea un po'e che tra il dentro e il fuori una relazione esiste, e con questo pensiero me ne parto piu leggero.
buona pasqua a tutti.
Copio qui una frase di Max Weber da "Il lavoro intellettuale come professione", molto citata di recente perché ricordata da Aldo Nove in un suo libro:
“Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato da il suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: ‘Non importa, continuiamo!’, solo un uomo siffatto ha la ‘vocazione’ per l’insegnamento”.
milvamaria
E' un tema bello e serio quello sviluppato dai vostri commenti. la coitazione di max weber mi fa venire in mente che uno dei migliori insegnanti che io abbia conosciuto, il mio amico scomparso Giorgio Messori, di cui parlo in un post giù in basso (si può cliccando ingrandire l'immagine). recensenso il mio libro sui maestri, un paio d'anni fa concita di gregorio riportà su Venerdì un decalogo sulla sacrittura che giorgio fece da insegnante. E' bellissimo, e provo a linkarlo qui: http://www.dweb.repubblica.it/dweb/2005/03/12/attualita/attualita/040die44140.html
Non ha funzionato. Lo incollo qui. Dunque, sulla scrittura, sull'insegnare, e su Giorgio Messori. Da un articolo di Concita De Gregorio su Venerdì:
"Ho trovato nell'ultima pagina di un gran bel libro quello che mi sembra un piccolo tesoro, vorrei condividerlo. È il "decalogo per un corso scolastico di scrittura creativa" scritto da Giorgio Messori, insegnante di lettere in una scuola dell'Emilia. Siccome scrivere significa nominare ciò che sentiamo e viviamo non è un'esagerazione dire che mi è parso un decalogo per affrontare l'esistenza. Basta sostituire a "scuola" qualunque altro luogo, e a "scrivi" qualunque altra azione. Va bene per l'amore, la vita politica, le relazioni con gli altri, per gli affari e per la meditazione solitaria. Va bene sempre. Dunque eccolo. 1) Dimentica di essere a scuola. 2) Non farti mai condizionare dai sensi di colpa o da ipotetiche minacce di ritorsione. 3) Se c'è qualcosa che, mentre scrivi, ti fa paura o ti fa sentire in imbarazzo, buttati dentro a questa cosa perché forse ci troverai molte ragioni ed energie per scrivere qualcosa di interessante anche per gli altri. 4) Cerca di essere sincero e preciso. 5) Non essere mai astratto, scrivi sempre di cose concrete, vere, che ti sono vicine. È più interessante scrivere di una pozzanghera o di ciò che vedi in una passeggiata sotto il sole che non della minaccia nucleare che incombe sul mondo. Tra l'altro fai un miglior servizio alla causa contro il pericolo nucleare scrivendo di cose molto concrete che non ripetendo frasi rimasticate in discorsi fatti da altri. 6) Impara ad essere un po' stupido, cioè a non esercitare un eccessivo controllo su te stesso e a non cercare sempre argomenti intelligenti. 7) Scrivi immaginando di rivolgerti a una persona che ami. 8) Se racconti qualcosa, non spiegare quali sensazioni hai provato, non dare tante spiegazioni. Mostra le situazioni che hai vissuto o immaginato senza mai dichiarare o spiegare nulla. 9) Fidati del tuo orecchio quando rileggi ciò che hai scritto, senza preoccuparti troppo delle regole grammaticali. 10) Rileggendo, impara a cancellare ciò che non ti piace molto e a lasciare solo ciò che ti piace di più. Il decalogo chiude il libro che Beppe Sebaste ha pubblicato ormai otto anni fa per Feltrinelli, Porte senza porte. Sono 14 racconti di altrettanti incontri con "maestri", coloro che insegnano a imparare. Uno sciamano, un vasaio, un filosofo, un fotografo. Persone che vorresti aver incontrato nella vita quotidiana, perché esistono attorno a noi, e che per fortuna incontri almeno qui. Nell'introduzione Sebaste scrive, come di passaggio: "Questo libro nasce anche da una deriva di sofferenza. Ha accompagnato il tentativo dell'autore, nel corso di un suo disorientamento, di trascorrere dalla passione alla pazienza rendendosi egli conto che non si tratta che di due declinazioni dello stesso verbo. Due effetti (affetti) del patire". Dalla passione alla pazienza: viene voglia di scrivere, con quelle dieci regole, la storia di questo viaggio."
E' un bellissimo decalogo, Beppe. Lo appenderò in sala docenti.
Vorrei aggiungere che sarebbe bene che un insegnante avesse sempre in mente questi due obiettivi, ai quali approssimarsi: essere un maestro, nel senso che tu dici; essere un intellettuale (nel senso inteso da Benjamin quando scriveva "L'importante non è tanto rinnovare l'insegnamento mediante la ricerca, quanto la ricerca mediante l'insegnamento".
Un saluto - milvamaria
ti "linko" (bruttissimo neologismo, ma funzionale e breve) nel mio blog che cerca di mostrare come si formano gli educatori o coloro che dovrebbero DIRIGERLI (o digerirli, come sostengo)...a presto
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