Ieri a Roma alla Galleria la Nuova Pesa si è presentato un nuovo libro del mio vecchio amico critico e saggista Paolo Lagazzi - un libro sulla poesia dal bel titolo La stanchezza del mondo. Era previsto un mio intervento, e di fatto anche se non c'ero (sono a Calcutta), pare che fossi presente con questo intervento che, mi dicono, ieri è stato letto. E ora offro qui in lettura.
Caro
Paolo,
spesso i libri dei critici
sulla poesia sono solo un pretesto per parlare dei poeti, questo o quell’altro,
in una paradossale autoreferenzialità per interposta persona. È bello che il
tuo libro faccia eccezione: i poeti in cui ti sei imbattuto nella vita sono
occasione per parlare di qualcosa che ci riguarda tutti e che non serve a nulla,
e che forse per questo ci è così strettamente, famelicamente necessario; di parlare
insomma di “quello che resta”, come scrivi nell’introduzione, che “resiste”, come
dico io, cioè la poesia.
C’è una tensione ecologica in questo tuo
libro - un’ecologia della mente, non dei panda o delle quote - e mi fa venire
in mente quando nella primavera del 2010 (io ero sulla “nave dei libri” diretta
a Barcellona per la festa di Sant Jordi, festa dei
libri e delle rose) un’eruzione vulcanica nel ghiacciaio
islandese dell’Eyjafjallajoekull paralizzò il traffico aereo, perché il vulcano
dal nome impronunciabile sbuffò una nube di cenere così grande e intensa da far
chiudere i cieli. Pensa: fumo e cenere
che mettono in scacco tecnologia, scienza e aviazione. Fu lì, in un’intervista
sulla nave, che ricordai come i poeti, “costruttori di vulcani” (cito quasi senza
volere il libro del poeta Carlo Bordini), sanno bene l’importanza di cose
trascurabili come le nuvole, il fumo, la cenere, tutti sinonimi di poesia
- cose che non servono a niente, ma guai a provocarne l’intensità e la forza.
C’è qualcosa dicevo di ecologico nel tuo
libro, cioè di quella consapevolezza di cui ha parlato spesso un nostro amico per
spiegare la miracolosa educazione avuta dal padre (tuo poeta prediletto):
riconoscere la poesia in quello che aveva intorno, e soprattutto viceversa. La
«rosa bianca» cantata dal padre Attilio come dedica alla moglie, Bernardo
Bertolucci la scopriva, dice, nel giardino, così come il «rosone tiepido» da
cui entra il raggio di sole nella stalla, o «la posta del mattino azzurra fra
le mani». Aprire gli occhi e ritrovare la poesia - risonanza di ciò che (r)esiste
e accade.
Le idee sono dappertutto, la mente è molto
più ampia del solo cervello, «l’erba ha bisogno del
cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba»,
diceva Gregory Bateson. Il tuo amato Attilio, senza saperlo, trasmetteva
un’educazione non diversa dall’ecologia della mente del mio amato Bateson, per
il quale tutto è connesso con tutto, gli organismi
viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici,
il gioco e il sacro, «il granchio con
l’aragosta e l’orchidea con la primula e tutte e quattro con me, e me con voi». La lingua di questa struttura che connette credo sia la
poesia. E a ognuno di noi accade il corto circuito che accadeva a
Bernardo tra parole e cose, e idee, anche se siamo sempre più intossicati e sommersi
da un linguaggio alienato, cioè più sottomesso a uno scopo, non importa se
politico, pubblicitario, scritto su una scatola di biscotti o detersivo, o su
un romanzo a trama…
Ti chiederai forse quale sia in questo
momento il mio personale cortocircuito, sapendomi a Calcutta (Bengala, India). Non
che importi dove io sia, ma forse ricordi la frase di Thomas S. Szasz: «Se
parli a Dio stai pregando, se Dio ti risponde, allora sei schizofrenico». Diciamo
quindi che sono dove sono per meglio confondermi nella folla di poeti e
schizofrenici, anche se proprio stamani, mentre voi facevate colazione, mi
riposavo all’ombra del giardino della casa natale di Sri Aurobindo, un’oasi nel
brusio perenne della città (non molto distante da quella in cui undici anni prima era nato Tagore),
e dove appoggiando le mani sulla superficie di marmo ricoperta di petali di
fiori ogni giorno freschi di vita nuova, e sentendo sotto quel marmo, tra api
gentili e delicate, la forza che vi scorre sotto come un oceano, ho capito improvvisamente
il senso della parola samadhi, "raccoglimento", che
non è la morte, che non è la tomba, ma che tradurrei con una bellissima parola
misteriosa della nostra tradizione, deposizione,
nella continuità dell’anima e quindi della vita. Come «l’amore realizzato del
desiderio che resta desiderio», definizione di poesia secondo René Char.
Caro Paolo, anche a occhi nudi, anche a
occhi chiusi, tutto quello che resta è poesia, sorriso dell’anima.
Haribol!!!
Kolkata, 20 novembre 2014
P.S. Qui si può vedere e capire un po' il Samadhi di Sri Aurobindo nello Sri Aurobindo Ashram, (Pondicherry, Tamil Nadu)
1 commento:
bello, commovente. a me la parola samadhi piace già nella sua spoliazione grammaticale: mettere insieme. un abbraccio. sergio
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