da Venerdì di Repubblica del 29 giugno 2012:
"Passeggiando con J.-J. Rousseau a Ginevra trecento anni dopo, tra utopia, spiritualità, banche e orologi"
Ho vissuto
anni sullo sponde del lago di Ginevra, e un lungo solitario inverno su quello
di Bienne, cittadina bilingue a nord di Neuchâtel che ha la coincidenza di
essere luogo natale di Robert Walser e teatro della Quinta Passeggiata
di Rousseau, la più bella delle sue Rêveries, Le passeggiate del
sognatore solitario. Al centro del lago di Bienne sorge un isolotto che
porta il nome di Rousseau, perché vi soggiornò in esilio. Laghi e isole hanno
costellato la vita del filosofo e scrittore ginevrino, costantemente in fuga e
affamato di luoghi, tra nostalgia e utopia: isole, les îles, in francese
suona come l’esilio, l’exil.
Anche per
questo il terzo centenario della nascita di Rousseau è un tripudio di luoghi di pellegrinaggio “bucolico
e romantico”, come recita l’invito alla casa-museo delle Charmettes, nelle Alpi
sopra Chambéry, dove Rousseau soggiornò spesso negli anni ’30 del Settecento.
Per non parlare del lussureggiante parco
di Ermenonville (detto Parco J.-J. Rousseau), non lontano da Parigi, creato dal marchese René de
Girardin nel 1765 seguendo la filosofia della natura di Rousseau, e dove questi
trascorse le ultime settimane di vita scrivendo le sue Passeggiate.
Festeggiare Rousseau è un invito alla
vacanza, ma ricordarlo significa passarne in rassegna le numerose,
contraddittorie etichette. A Grenoble, una mostra sugli avatars di Jean-Jacques Rousseau ne
confronta il ventaglio di presunte reincarnazioni: rivoluzionari del 1789,
ecologisti, romantici a vario titolo, resistenti della seconda guerra mondiale,
musicisti, scrittori, perfino psicanalisti. Ma Rousseau fu molto di più: il
primo dei romantici e il pensatore politico che inventò la democrazia (per
alcuni anche lo stato totalitario); l’inventore dei “diritti dell’uomo” (“e del
cittadino”: precisazione che li limitò allo Stato-nazione, e quindi al
fallimento nel mondo globalizzato) e il fanatico della sincerità, antesignano
del mito della trasparenza di Assange e Wikileaks; pedagogista ed educatore
civico, fondatore dell’etnologia e dell’antropologia con le sue Confessioni, scrittore ecologista che
praticò l’equivalenza del vagabondare coi piedi e con la mente, anticipatore
della Wanderung, l’erranza dei romantici tedeschi; infine il critico
della civiltà che non anticipò solo la denuncia dell’alienazione di Marx, ma
quella della “società dello spettacolo” di Guy Debord, il dominio del tempo
libero nel capitalismo maturo. Ci si potrebbe fermare a questo, alla devastante
critica di Rousseau all’ottimismo illuminista nel suo primo discorso (Discorso
sulle scienze e sulle arti) e nella Lettera a d’Alembert sugli
spettacoli, requisitoria sul potere di corruzione dello “spettacolo” come
strumento perverso di coercizione. Come molta avanguardia del XX secolo, di
Rousseau affascina anche la contraddizione di scrivere contro lo scrivere,
denunciare con romanzi il potere di corruzione dei romanzi - così come Debord,
ma in fondo anche Godard, hanno fatto cinema contro il cinema.
Capii meglio
Rousseau grazie all’incanto che provavo la sera, a Ginevra, vedendo i poetici riflessi di luce
di tutti i colori sull’acqua del lago, seguito dal disincanto del guardare la
fonte di quella fantasmagoria, i neon cubitali e aggressivi di banche e
multinazionali di tutto il mondo, da Hong Kong a Chicago all’Arabia Saudita.
Pensavo all’iperrealtà dei simulacri e alla donchisciottesca lotta di Rousseau
contro l’alienazione e l’inautentico, che lo invischiava sempre di più in ciò
contro cui si scagliava. Del magistrale studio di Jean Starobinski su Rousseau,
La trasparenza e l’ostacolo, restano
illuminanti quei due verbi giustapposti, “accusare e sedurre”, con cui spiegò
la critica alla società condotta da Rousseau, paradigma di future critiche
politiche, ma anche delle avanguardie artistiche. “Accusare e sedurre sembra
essere il limite e la condanna di ogni movimento rivoluzionario”, mi ha
ripetuto di recente Starobinski. Difficile una resistenza culturale nell’epoca
della ragione pubblicitaria che assoggetta ogni linguaggio. “Ricchezza e
potenza della società del benessere rendono l’uomo estremamente fragile, al
punto di non avere più un’esistenza sensata”.
Tra tutti i
luoghi è quindi giusto ricordare Rousseau passeggiando a Ginevra. Non solo ci è
nato il 28 giugno 1712, come ricorda la targa paradossale sul muro di un grande magazzino,
sorto al posto della casa natale di Rousseau dopo la sua demolizione. Questa polis, città-Stato, si presta a immaginare
utopie, e Rousseau se ne ispirò nel suo Contratto sociale. Ma c’è
qualcosa di specifico in questa città, e nella Svizzera in generale (“una repubblica
platonico-alberghiera”, la definì Guido Morselli) che riguarda Rousseau ma anche altri illustri svizzeri, da Amiel a
Jean-Luc Godard: un misto di pulsioni centrifughe - il viaggio a oltranza, il
nomadismo o l’auto-esilio; e centripete - l’autobiografia più estrema, la
confessione, il viaggio intorno alla propria camera. Racchiusa da protettive
montagne, cosmopolita e provinciale insieme, è una città di una comodità
tossica, di una disciplina e ordine nevrotizzanti, ma che spinge a forti
avventure interiori. Ci si potrebbe chiedere come mai proprio qui abbiano
scelto di stare a un certo punto della loro vita avventurieri come Joseph
Conrad, Jorge Luis Borges o Corto Maltese, alias Hugo Pratt. Se io stesso ho
resistito anni in questa città è forse per questo, il fascino di essere
sradicati-residenti, il gusto del “falso movimento” (come il film di Wim
Wenders).
Nei mesi estivi sembra la
Costa azzurra, e le aiuole e i giardini pubblici sono ovunque sgargianti di
fiori, dall’Orto Botanico al Jardin Anglais. Si può fare una nuotata nella
pausa dal lavoro, prendere il sole e poi tornare in ufficio. E gli alberi
secolari nella collina di Cologny tappezzata di ville sono sontuosi. Nel resto dell’anno però il colore dominante è il
grigio nebbioso che unifica lago e cielo in un silenzio freddo e compatto, e
sembra che la Svizzera sia solo questo gelo, scandito da un’inflessibile
cortesia. La città vecchia, che si arrampica intorno alle guglie della
cattedrale, a parte qualche rifugio di avvinazzato diventa così triste che
nemmeno la musichina straziante di un carosello per bimbi su una salita può
peggiorarla. Soffia la bise, una specie di bora freddissima che
raggiunge il culmine se attraversi a piedi la rada su uno di quei ponti silenziosi
che attraversano il lago, che poi ridiventa fiume, il Rodano. Uno di questi
ponti, di fronte all’Hotel des Bergues, si densifica nell’isola Jean-Jacques
Rousseau, con la statua del filosofo seduto su una sedia, a sua volta posata su
una pila di libri, e guarda davanti a sé. Ecco, tra le opere per il centenario
c’è stato il riposizionamento della statua, che prima dava le spalle alla città
guardando il lago e l’aperto, ora è girata. Ho attraversato il ponte e cammino
nelle rues basses, il centro commerciale di banche e uffici che
alle cinque del pomeriggio è deserto, periferia nel cuore della cité. “Oggi
Ginevra è una città fantasma, avvolta da una nebbia bancaria. Le persone escono
dalle gioiellerie cariche di diamanti, ma la ricchezza è invisibile, custodita
da guardiani protestanti”, mi dice l’amico ginevrino, poeta bilingue, Vince
Fasciani. E’ l’essenza del calvinismo: non ostentare, non mostrare il lusso, e
nello stesso tempo non mascherarsi (per questo il carnevale qui è proibito). E
mi accorgo che le scritte torreggianti dei neon sui palazzi intorno al lago
sono cambiate, la globalizzazione è sparita o si è nascosta: tranne Toshiba,
Hermès e Chanel, sono solo di banche svizzere e assicurazioni, gioielli e
orologi “locali” – Pax Assurances, Piaget, Chopard, Rolex, Patek Philippe, LGT
Banque (Suisse). Aspetto di vederne i colori tremolare sul Lemano.