4/13/2012

Scrivere e non morire a Baku (sul libro di un amico: Olivier Rolin)

Olivier Rolin è un amico, e uno degli scrittori che leggo più volentieri. Ho con lui un'elettiva afffinità nello scrivere (perdersi, trovarsi, viaggiare spostandosi nello spazio o anche no, parlare di sé per parlare di altro, molto altro, ecc.
Baku, derniers jours, è stato ora tradotto in italiano da Barbès: leggetelo, vale la pena. E leggete anche il suo Il cacciatore di leoni (già edito da Barbès).
Il mio commento qui di seguito è uscito oggi, 13 aprile 2012, su Venerdì di Repubblica.

  Nel 2003, di ritorno da un viaggio in Afghanistan per l’emittente France Culture, Olivier Rolin fa scalo a Baku. Resta qualche giorno in “un grand hotel in stile sovietico che portava il nome della quasi isola su cui è costruita la città di Baku: Absheron”. Stava ultimando una raccolta di storie su altrettante camere d’albergo sparse per il mondo, Suite a l’hotel Crystal. L’assonanza tra il nome dell’albergo di Baku e il fiume dei morti della mitologia greca, l’Acheronte, gli fa immaginare lì il suo suicidio. La biografia sulla copertina del libro uscito nel 2004 riportava così luogo e data di nascita e di morte dell’autore: “Boulogne-Billancourt, 1947 – Baku, 2009”. “Dal 2004 ero dunque morto a Baku nel 2009, nella camera 1123 dell’hotel Absheron, con un colpo di pistola Makarov 9mm”.
   Gioco forza, nel 2009 lo scrittore decide di andare a soggiornare a Baku per dare qualche chance al potere profetico della scrittura. Come se fosse la vita a modellarsi sulla scrittura, non viceversa. Scrittore abilissimo e curioso, sperimentatore di forme che ha fatto del disincanto un ulteriore incanto (era tra gli artefici del maggio ’68 a Parigi, descritto nel suo Tigre di carta, per schifarsi poi di ogni comunismo realizzato), Rolin racconta il grottesco soggiorno nell’ex capitale del petrolio, già teatro di una lussuosa mondanità e ora fatiscente ai margini del mondo. Tecnicamente è una autofiction, cronaca-meditazione sulla vita, la scrittura, l’attesa della morte. Di fatto, Baku è uno dei libri più liberi e pieni di humour che si possa leggere da anni.
   Lo scrittore vaga per la città sotto un cielo color malva, tra le torri del centro storico che sembrano “pezzi di scacchi o macinapepe”, sul lungomare chiamato “bulvar”. Cena in ristoranti sinistri, fa incontri improbabili, studia il russo e la guerra tra gli Azeri e gli Armeni. Le sue digressioni, i pensieri in apparenza più eccentrici, sono magicamente equidistanti dal centro - il qui e ora dello scrivere e del suo ironico stupore. In ciò che vede, legge, pensa e descrive, risuona “la cupa seduzione di coloro che cercano la propria scomparsa”, che si tratti di Esenin o del suo traduttore francese Armand Robin, di Michaux, Hemingway o Pasolini; o delle discariche fumanti in un groviglio paleoindustriale, i sacchi di plastica al vento, le ruggini abbandonate e le nubi di polvere, la zona industriale in rovina, “un paesaggio devastato, sinistro, magnifico”. Ma anche un modesto museo intitolato al poeta Esenin, appunto, che a Baku soggiornava spesso, e le antiche ville di Mardakan, su viali alberati che evocano un’armonia perduta, simile a quella scritta da Nabokov in Parla, ricordo.
   L’interno della moschea di Shuvalan, appena fuori Baku, è “rivestito di migliaia di specchietti uniti a formare stelle e rosoni”, un “caleidoscopio sfavillante, “un brulichio di riflessi”. E’ una buona definizione della prosa di Olivier Rolin, e non solo di questo romanzo: scrittura come specchio e rifrazione del costante stupore di trovarsi nel mondo.


Olivier Rolin Baku, ultimi giorni, edizioni Barbès, 2012
Su Olivier Rolin potete leggere anche: 
http://beppesebaste.blogspot.it/2010/04/il-cacciatore-di-leoni.html

4/07/2012

Astratti furori e acqua nelle scarpe. Che cosa è contemporaneo. (Omaggio a Elio Vittorini)

   
     Sto rileggendo, dopo anni, un romanzo molto contemporaneo. E' stato scritto nel 1937, più  o meno quando Picasso dipingeva Guernica. E' Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, il più lirico dei narratori italiani realisti, e forse anche il più sperimentale. Vorrei che questo famoso incipit del romanzo, che offro come segno di complicità ai lettori di questo blog, facesse anche capire in parte perché attualmente, e apparentemente, io stia scrivendo poco in pubblico (e quasi nulla di politica). Non è solo perché sto scrivendo privatamente, ma perché cerco di guadagnare una distanza che mi permetta di vedere meglio il mondo. E questa prima pagina del libro di Vittorini è quella più attuale e vicina che io abbia trovato al mondo di adesso, e al mio sguardo. Ieri ho riletto Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, altro grottesco e attualissimo capolavoro che descrive come tutto sia iniziato (i soldi, la crisi, il consumismo, la miutazione antropologica e la disperazione, il capovolgersi del mondo). Devo quest'ultima rilettura al lavoro benemerito dell'amico Riccardo De Gennaro, autore di una biografia di Mastronardi che tra un mese uscirà. Ne riparleremo). Intanto, buona lettura di Vittorini. E buone feste. A presto.
   Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire e vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
(Elio Vittorini, incipit di Conversazione in Sicilia, pubblicato a puntate nel 1938)