Lunedì 5 marzo si inaugura a Milano una mostra dei nuovi lavori di
Cathy Josefowitz,
Meditation In & Out. Sono grandi tele, a volte quasi installazioni, e anche alcune bacheche che mostreranno aperti i suoi carnet di disegni.
Ritiratissima dal mondo dei traffici d'arte e di chiacchiere sulla medesima (nonostante questa esposizione no profit avvenga nella sala espositiva di Sotheby's a Milano), Cathy Josefowitz è una pittrice che potrebbe far propria, come divisa, una frase di Merleau-Ponty su Cézanne che ho citato spesso per me (sostituendo lo scrivere con il dipingere): "Non voleva persuadere la gente, preferiva dipingere". E poiché per anni è stata coreografa e danzatrice (e si vede), la concerne totalmente anche quella frase di Paul Valery citata in un altro testo da, guarda caso, ancora Merleau-Ponty: "Le peintre apporte son corps".
Nel catalogo della mostra, oltre a una presentazione di Philippe Daverio, c'è un mio testo-dedica che offro qui in lettura in anteprima. L'ho intitolato come un suo disegno pubblicato in fondo al post (che non sono riuscito a mettere in orizzontale), "
An Angel in the Wall". Eccolo, seguito da una traduzione in inglese.
“An Angel in the Wall”
Non ho mai cessato di imparare guardando e ascoltando il lavoro di Cathy Josefowitz in oltre vent’anni di frequentazione. Che, per esempio, la danza è in ogni gesto, compresa l’immobilità. Che la pittura (la bellezza) è dappertutto. Che bisogna prendere molto sul serio i colori (che più tardi ho imparato a riconoscere come Creature). E che prendere sul serio significa giocare, giocare instancabilmente. Quando parliamo dei suoi quadri, in genere in lingua francese, Cathy J. non li chiama mai così,
tableaux, al maschile, ma
peintures, “pitture”, al femminile. Penso sia importante, e che non sia solo la traduzione dell’inglese
paintings.
Significa in primo luogo accentuare la
materia di cui sono fatti, la gestualità e la fisicità del dipingere oggi quasi desuete in un’arte sempre più immateriale - fisicità che Cathy J. ha trasportato con disinvoltura e rigore, nel corso degli anni, dalla coreografia alla pittura e viceversa. Sottintende quindi la
ritualità assorta e gioiosa del suo lavoro, cerimonia di solitudine che prelude alla creazione di mondi in uno spazio meditativo e sacro – sempre per terra, come la danza o il famoso
dripping di Pollock. Sottolinea infine la feconda e irriducibile
femminilità (che non c’entra con la partizione in uomini e donne) di tutto questo, e tutt’uno con un senso di intima e perseguita felicità: come nella candida e serissima confessione di Cathy nel film che le ha dedicato François Lévy Kuentz,
Painting Dancing: “je n’ai pas le choix, j’ai besoin de peindre”; “senza la pittura non potrei vivere”.
Guardo dunque le pitture di Cathy J. degli ultimi due-tre anni,
Meditation in and out, e vedo una straordinaria coerenza e continuità con tutto il suo lavoro, in un’ascesa e un’ascesi ulteriori. Un “trascendere”, direi etimologicamente: movimento di attraversamento (
trans) e di risalita (
scando); un oltrepassamento, un movimento che porta al di là... Che porta in uno spazio ulteriore dove la materia pittorica e il colore non solo prevalgono assorbendo forme e figure, ma il cui potere di assorbimento è tale da risucchiare anche il nostro sguardo, invitandoci a camminare o nuotare nel colore, traslocare e inoltrarsi dentro le tele, come in quel teatro o danza in cui non si distingue tra chi è in scena e gli spettatori.
Riepilogo mentalmente. Dalle forme sullo sfondo in perpetuo movimento e danza, che molti anni fa avevo chiamato scherzosamente
enjambements (rifondando in senso coreografico una figura retorica della poesia), alle
Sedie e ai
Mezzi di trasporto, il percorso di Cathy J. è una continua espansione e contrazione, sistole-diastole, dello sfondo-colore e delle forme; così come dai
Collages ballerini alle
Preghiere che avvolgono figure ormai astratte e geometriche con un simbolico
tallith - lo scialle da preghiera che vela e che svela, che mostra mentre nasconde - passando per la serie delle
Porte (“porte senza porta”) fino alle quasi installazioni di oggi: tele che proliferano, si concatenano e diventano ambiente, che invitano non solo alla contemplazione, ma all’abitarvi dentro. Ricordandoci che "contemplazione" significa proprio questo: “fare il proprio tempio”.
Questa mostra,
Meditation in and out, contiene un altro oltrepassamento: la preghiera dei corpi nel loro amplesso e il kamasutra dei muri e degli angoli; il divenire angelico degli angoli (“ton angle gardien”, le ho detto scherzosamente, "il tuo angolo custode"). La geometria dei muri prolunga la geometria de corpi in un’evocazione del “mosaico” (
Mosaica era il titolo di una mostra degli anni italiani di Cathy J., dove le variazioni del
Bacio di Rodin emergevano in una sorta di ascensione su muri e pareti di architetture romaniche). In
Meditation in and out la geometria erotica si innesta in una poetica della sparizione. Il colore seduce diventando muro e assimilando a sé le persone e le ombre, e l’invito dell’oltre rende invisibili, in un appello insistente del fuori-campo, del fuori dallo sguardo. E’ un’altra modalità del trascendere, quella ricerca estetica del “divenire fantasmi” (o angeli), in cui insisté Francesca Woodman, altra grande artista (nella fotografia) coetanea di Cathy Josefowitz. Forse per Cathy è stato proprio lo scialle,
tallith, nella sua dialettica del velo, il punto di svolta - velare svelando, svelare velando – ciò che concentra in sé pittura, femminilità e rituale, cioè preghiera.
Che cosa è una preghiera a colori, o ai colori? (« Aux belles couleurs », amiamo scherzare da anni sognando una galleria d’arte con questo nome fanciullesco – “
aube elle coule heures”, “
oh belle cool her”, “
eaux belles coulèrent”, aubes et eaux qui coulent des couleurs maintenant et au fil des heures, etc.). Credo che sia devozione in atto. Cioè, anche, gioco.
Non esiste, mi pare, un verbo che dica l’atto della devozione, ma se ci fosse io lo immaginerei intransitivo – con la stessa grazia, gratuità, dell’intransitività del pregare, del giocare e del dipingere. Anche questo imparo dalle pitture di Cathy J.
English version:
In the more than twenty years since I have met Cathy Josefowitz, her work has been for me a constant source of learning and multi-sensory inspiration. I have learnt, for example, that dance is in every movement, including stillness. That art (beauty) is everywhere. That colour must be taken very seriously (I have learnt to recognise it as a Creature). And that to take things seriously, however, means to play, to play unceasingly. When we discuss her paintings, and that usually happens in French, Cathy never refers to them as
tableaux, using the masculine noun, but rather as
peintures, which is feminine. I believe this is important, and that it is not merely the English translation of paintings.
Firstly, it means emphasising the matter her works are made of, underlining the gestural and physical quality of paint, something which is unusual in the increasingly immaterial practice of contemporary art. It’s a physical quality which Cathy has brought over, with rigour and confidence, from choreography to painting and back. It underlies the absorbed and joyous sense of ritual in her work, a ceremony of solitude that prepares the creation of worlds in a contemplative, sacred space – always taking place on the ground, just like dance or Pollock’s drippings. It also stresses the fertile, untameable femininity (something that’s well beyond the definition of ‘men’ and ‘women’) that imbues her work. There is a quality of intimate, doggedly pursued happiness in her work, something which is evident in the confession captured by François Lévy Kuentz’s in the film about her
Painting Dancing: “je n’ai pas le choix, j’ai besoin de peindre”; “I have no choice in the matter; I need to paint”.
As I look at Cathy J.’s latest work,
Meditation in and out, I see an extraordinary coherence and continuity with all of her previous work, in a constant ascent and renunciation. Something “transcendent”, and I mean it etymologically: a movement which crosses (
trans) and rises (
scando): an overcoming, a flow which takes us beyond… And which leads us into a further space where painted matter and colour prevail not just by absorbing form and figures, but also because their power of absorption sucks in our very gaze. It invites us to walk and swim in the canvasses’ colour, move in them and settle in them, just like in dance-theatre where the distinction between viewer and performer becomes irrelevant.
To sum-up mentally: from the forms in the background in perpetual movement and dance, which, a few years ago, I jokingly named
enjambements (restating a poetic rhetorical figure with a choreographic imagery), from
Sedie to
Mezzi di trasporto, Cathy’s itinerary is one of continual expansion and contraction, a systolic-diastolic movement between background and forms. As in the
Collages dancers and the
Preghiere which envelope abstract and geometric figures with a symbolical
tallit - the praying shawl which equally veils and unveils, which reveals as it conceals - onto the
Porte series (“doors without door”) and up until the more recent quasi-installations: canvasses which proliferate, become linked to each other and create an environment, which invite us not just to contemplation but to inhabit them. This reminds us that contemplation means exactly this: “to build one’s own temple”.
This exhibition,
Meditation in and out, holds a further kind of trespassing: the prayer of the depicted bodies as they melt in each other , and the kama sutra of walls and angles; the angelic mutation of the walls (“ton angle gardien”, I told Cathy jokingly). The geometry of the walls prolongs the geometry and linearity of the bodies in a reminiscence of “mosaics” (
Mosaica was the title of an exhibition of Cathy’s “Italian years”, where the variations of Rodin’s
Etreinte emerged into a kind of ascension on Romanic architectures). In Meditation in and out this erotic geometry is mixed with a poetics of disappearance. Colour seduces us by becoming a wall and assimilating people and shadows, both of which are made invisible by the invitation to a ‘beyond’ , to something which is off-screen, out of our gaze’s reach. It is another modality of transcendence, this aesthetic exploration of the “becoming ghostly” (or angelic), something much similar to Francesca Woodman’s work, another great artist ( a photographer) and contemporary of Cathy’s. Perhaps the turning point for Cathy was the tallit, the shawl – the veiling, unveiling, revealing by obscuring; the element that concentrates in itself painting, femininity and ritual – that is, prayer.
What is a prayer in colour, or to colours? (« Aux belles couleurs », for many years we have dreamingly joked about opening a gallery with such childish names - “aube elle coule heures”, “oh belle cool her”, “eaux belles coulèrent”, aubes et eaux qui coulent des couleurs maintenant et au fil des heures, etc.). I believe it’s devotion in the making. That is, play.
I don’t believe a verb apt to describe the act of devotion exists, but if it did exist, I would imagine it as intransitive – with the same grace, gratuity and 'objectlessness' of the acts of praying, playing, and painting. This, too, is what I learn from Cathy’s oeuvres.