12/16/2011

Per festeggiare B.B.

   Oggi ho rivisto un amico di nuovo al lavoro (in questi ultimi tempi ci eravamo un po' persi di vista a causa, anzi grazie a questo) e che sprizzava di felicità. Si era messo il cappello marrone a falde larghe, un po' da vecchio cow boy elegante, come ha sempre fatto durate le riprese dei film: non per bellezza, ma per ripararsi, mi ha confidato, anche proprio in senso fisico, da quello che (ac)cade mentre gira un film. Il luogo era magico - lo studio labirintico e senza finestre dell'artista Sandro Chia, adibito a set cinematografico e trasformato in cantina, ecc. ecc. . La storia che vi si racconta è tratta dal romanzo Io e te di Niccolò Ammanniti, e l'amico è Bernardo Bertolucci, arrivato alla fine delle riprese del suo nuovo film dopo un'interruzione di una decina d'anni. C'è di che festeggiare.
   Il resto lo leggerete domani, penso, su tutti i giornali, visto che critici e giornalisti vari sono stati poi invitati a una conferenza stanpa, dove l'amico regista irradiava gioia e intelligenza. Una cosa sola tra le tante voglio ricordare, detta da Bernardo Bertolucci in risposta a una domanda sull'uso del 3D, prima ventilato e poi abbandonato dopo alcuni provini (“Il 3D rallenta enormemente le riprese, io ho tempi più veloci quando giro”) per tornare al vecchio 35 millimetri. La cosiddetta definizione non è tutto, ha detto dopo avere raccontato i tentativi fatti anche col digitale. Mi sembra una posizione poetica importante. La retorica della "definizione" mi ha fatto pensare a quella sulla comunicazione di questi ultimi anni di vertiginose innovazioni tecnologiche: a cosa serve poter comunicare così bene se non si riesce ad avere nulla da dire? - che in questo caso diventa: a cosa serve definire così "altamente", perfettamente, se non c'è niente da vedere, e se di ciò che è importante non si riesce più a vedere niente? "Cinema", mi ha detto più di una volta Bernardo Bertolucci, "vuol dire aprire gli occhi"...
(Il film lo vedremo tutti a maggio dell'anno prossimo. Qui di seguito, il pezzo che Stefania Scateni de l'Unità, che era con me oggi, ha scritto per il giornale di domani (se alcune parole coincidono con le mie, è perché ne abbiamo parlato assieme. Buona lettura).

   "Il luogo è magico, non solo come sempre sono i set dei film durante le pause delle riprese, come scenografie di un teatro pirandellianamente vuoto, col tempo sospeso. Ma perché le caratteristiche del luogo rendono speciale: il labirintico studio senza finestre dell’artista Sandro Chia, a due passi dall’Orto botanico di Roma, trasformato nella cantina dove si rifugia il protagonista (come nel romanzo di Niccolò Ammaniti da cui è tratto il film...), con sofà semisfondati, vecchi mobili ammucchiati, attrezzi di ferramenta e biciclette dismesse. Alla fine del tour, ecco alla magia aggiungersi la naturalezza di un miracolo: «Soltanto un anno fa non avrei pensato di fare un altro film e ora che sono terminate le riprese di Io e te mi sembra incredibile essere qui, seduto sulla mia sedia elettrica, come chiamo la sedia a rotelle, a parlare di un nuovo film. Eppure allo stesso tempo lo sento come un’assoluta normalità».
   "Bernardo Bertolucci è radioso, e ha di nuovo il cappello a falde larghe sulla testa, amuleto e riparo (anche fisico, come poco prima confidava a un amico) durante la lavorazione di tutti i suoi film. Erano dieci anni che non lo indossava, tanti quanto è durata la sua pausa di regista. Ed è deciso a tenerlo in allenamento quel cappello. «Oltre a montare Io e te, le prossime settimane e i prossimi mesi saranno tutti alla ricerca di cosa fare subito dopo», annuncia in conferenza stampa.
   "Parla dal set del suo nuovo film, la cantina «di» Lorenzo, il quattordicenne protagonista della storia. Ancora l’adolescenza negli interessi del regista, fase della vita in continuo cambiamento, «materiale umano che va catturato in quel momento altrimenti sfugge». Le meravigliose e poderose potenzialità dell’esistenza impongono il caleidoscopio di un’età che seduce Bertolucci da tempo. «Resisto poco quando si parla di adolescenti in crescita. Il passare del tempo in quell’età è per me una cosa irresistibile», dice il regista di Io ballo da sola, The Dreamers. E il perché, lo spiega citando versi di un Rimbaud quindicenne: «A diciassett'anni non si può esser seri.(…) /Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare».
   "Ma non dev’essere stata una passeggiata l’esperienza dei due: Jacopo Olmo Antinori, alla sua prima esperienza cinematografica nei panni di Lorenzo, e Tea Falco, fotografa e videoartista, nel ruolo della sorella Olivia. «Li vampirizzo», scherza Bertolucci, spiegando che nel lavoro è attratto dalla vita intima degli attori, dal carattere, dal loro bagaglio, desideri, segreti: un apporto di umanità che nutre i personaggi del film.
   "Il lavoro con il Maestro, quindi, può avere un effetto terapeutico secondario. Traspare dai brevi e appassionati interventi dei due protagonisti. Appassionato quello di Tea Falco, e evidente pur se emozionato quello di Jacopo Olmo Antinori: «Mi ritengo molto fortunato: sono qui per caso ma non per caso». La storia di svolge a Roma quasi tutta in interni (la cantina, appunto); i pochi esterni sono stati girati nei quartieri Parioli, Prati e delle Vittorie. Lorenzo, solitario e problematico come tutti gli adolescenti, si rifugia in cantina facendo credere ai genitori di essere partito per la settimana bianca. Vuole stare in perfetta solitudine, dimenticare almeno per qualche giorno le regole del mondo. L’arrivo della sorellastra, 10 anni più di lui, tossica, ribelle, vitalissima sconvolgerà tutti i suoi piani. Io e te, iniziato di girare in ottobre, sarà pronto a maggio, si dice l’11, forse in tempo per il Festival di Cannes. Il film era stato annunciato in 3D, ma Bertolucci ha abbandonato il progetto: «Il processo delle riprese in 3D è incredibilmente lento, mentre io ho tempi molto più veloci quando giro. Ho anche esplorato il digitale ma mi sono imbattuto nella sconcertante e diabolica definizione di questa tecnologia, che non permette di realizzare alcuna tentazione impressionistica. È curioso: ho ricercato la definizione delle immagini per tutta la vita e poi, nel momento in cui l’ho trovata in maniera assoluta, non mi interessa più»."
Stefania Scateni

12/10/2011

Ritorno all'evidenza. "A piedi nudi sulla terra" di Folco Terzani

“Un passo verso il meno è un passo verso il meglio”, scriveva, mentre lo scopriva, il grande scrittore-viaggiatore Nicolas Bouvier. Se il viaggio è una forma di ascesi spirituale, di spogliamento di sé, tanto più lo è (stato) quello verso l’India - meta tra gli anni ’60 e ‘70 del variopinto mosaico del movimento hippie. Molti si persero, in ogni senso. Molti, nella sperimentale evasione dal mondo inautentico dell’obbligo e delle merci (estasi, dice l’etimologia) naufragarono sulle rive infernali dell’eroina. Ma vale per quelle generazioni di drogati la dedica di Philip K. Dick: erano come bambini che giocavano per strada e a cui nessuno insegnò che vi passavano i camion. Fu un’epoca e un movimento in cui il ritorno all'evidenza - che è il modo occidentale di designare l'illuminazione, misto di nudità, autenticità, libertà – segnò un punto di ascesi spirituale spesso inattesa; una religione della religiosità, distacco e rinuncia. In India si chiamano sadhu quei ricercatori spirituali che “rinunciano”, e a cui non manca nulla; che viaggiano a piedi nudi e dormono in grotte naturali, vivono di offerte (non denaro), passano il loro tempo nella devozione del Divino a cui dedicano riti e gesti precisi, come ravvivare il fuoco; che fanno il loro “tempio” nella jungla, che è il vero senso della parola “contemplare”; che conoscono tutto del mondo che li circonda, la natura. All’opposto di noi che, con le nostre presunte conoscenze, non saremmo in grado di sopravvivere una settimana in un mondo in cui si dovesse contare sulle proprie concrete competenze.

   Folco Terzani, quarantenne inquieto e cosmopolita, figlio del giornalista Terzano, nello scrivere A piedi nudi sulla terra, una storia documentaria che si legge d’un fiato come un romanzo, è partito da questa evidenza negativa: “uso il computer ogni giorno ma non ho la più pallida idea di come funzioni, l’aeroplano non so come faccia a volare, l’iPod a ricordarsi tutta quella musica o l’economia a fluttuare. Sono circondato di meccanismi che non capisco. Fra i sadhu invece ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi del’Himalaya, stando accucciato davanti alle fiamme di un fuoco, respirando spazio”.
   Il libro racconta con onestà la storia di Baba Cesare, un sadhu italiano con un passato di hippie e di tossico, e che per questo riesce “a fare da ponte fra me e quel modo di vivere che d’istinto mi attraeva, ma mi sembrava irraggiungibilmente lontano”, scrive Folco. “E’ un percorso visto dal di dentro, con gli occhi di qualcuno che ci si è messo in gioco non per una settimana, un mese o un anno, ma per una vita”. L’erranza è un’ascesa, un cammino di santità, ovvero semplicità, quell’evidenza che è parola chiave e ricorrente: tornare all’evidenza, arrendersi all’evidenza. A pensarci, un programma politico e di esistenza oggi drammaticamente attuale. “L’uomo ha perso più conoscenza negli ultimi cento anni di quanta ne ha acquistata”, dice Baba Cesare. “Io cercavo gli insegnamenti dell’evidenza, e l’evidenza erano i guru: come si muovevano, come parlavano, come comunicavano”. Il punto è che, dice, quando li vedi in India hai un’evidenza di religione, come da noi coi nostri preti non abbiamo più.

   E’ la storia di un discepolo che diventa maestro, dove casualità e ricerca, come sempre, si mescolano. “Immaginati un sentiero senza ‘dove’, che uno vede strada facendo”, dice il sadhu della propria vita. “Da tutto quello che è successo ho tratto insegnamento. Tutto, sia il positivo e il negativo, è stata una scuola. Sono tutte evidenze che dio ti porta nella vita giusto per farti arrivare a un certo tipo di idea”. Quanto all’idea di Dio, “è una pazzia, un sogno, una visione. (...) E’ un’energia ad alto livello, senza forma e senza nome. E noi ci siamo dentro. Cioè, non puoi leggere una spiegazione di dio in un libro, capito? Ci devi arrivare per stadi, prendendo coscienza di quello che sei. Cosa siamo? Noi siamo terra, il fermento della crosta terrestre. Ci dobbiamo identificare col pianeta, non con noi stessi, perché questo identificarci con noi stessi è illusorio”.

(una versione di questa recensione, con qualche taglio, su l'Unità di domenica 11 dicembre 2011)

12/07/2011

Caffè sospeso: giornata del dono (anonimo)

Il dono, scriveva Jacques Derrida, è un paradosso: per essere dono dev'essere sconosciuto sia da chi lo fa che da chi lo riceve. Entrambi dovrebbero ignorarlo (poiché nemmeno l'inconscio si sottrae al circuito economico del debito/credito, dell'obbligo e dell'obbligazione). Ora, non dico che la gloriosa tradizione napoletana del caffè "sospeso" riesca a sfuggirvi, però è la cosa a  mia conoscenza che più si avvicina al dono (a parte l'elemosina zen, che offre agli altri la possibilità di offrire): lasciare un caffè in sospeso (quindi offrire alla cieca) per il prossimo (anonimo) che entra nel bar... Per questo volentieri pubblico e promuovo:


10 DICEMBRE - GIORNATA DEL CAFFÈ SOSPESO

La “Rete del Caffè Sospeso” promuove il recupero di una antica usanza solidale, nei bar, nella cultura… nella vita.
   A Napoli c’era in passato un’usanza molto curiosa: quella del “Caffè Sospeso”. Chi era meno abbiente poteva trovare al bar un caffè in omaggio pagato da un precedente avventore, che lo lasciava in ‘sospeso’ per persone meno fortunate che non potevano permetterselo. Non si trattava di elemosina ma di un atto di condivisione dei problemi, solidarietà e comprensione.
   La “Rete del caffè Sospeso - festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” invita i bar ed i locali d’Italia a riprendere l’antica usanza napoletana che consisteva nel lasciare un caffè ‘sospeso’ per chi non poteva permetterselo… Una pratica che la Rete promuove anche nella cultura e nella vita quotidiana
http://www.caffesospeso.wordpress.com/
   La “Rete del Caffè Sospeso - festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” è nata a Napoli il 14 novembre 2010 da 7 festival italiani che hanno deciso di unire le forze e fare rete scambiandosi idee, progetti e prodotti culturali per sopravvivere o addirittura crescere in questi difficili tempi di crisi economica e tagli alla cultura.
   In poco più di un anno di vita la Rete ha creato significativi scambi e condivisioni fra i 7 festival, ha ottenuto diverse nuove adesioni ed ha ora deciso di istituire, in concomitanza con la Giornata Internazionale dei Diritti Umani, il 10 dicembre - Giornata del Caffè Sospeso, iniziativa che si pone l’obiettivo di proporre la ripresa dell’antica usanza partenopea in bar e locali d’Italia e di conseguire nuove adesioni alla Rete attraverso la diffusione, nel settore della promozione culturale e nella vita quotidiana in genere, della filosofia solidale su cui si fonda. Il 10 dicembre alcuni festival e associazioni della Rete organizzeranno degli eventi.
   In www.caffesospeso.wordpress.com è possibile trovare maggiori informazioni, curiosità e consultare la lista di associazioni, festival e locali che hanno fino ad ora aderito alla Rete.

12/02/2011

V per Violenza - "Ho ventotto anni, e sono incazzato... " (sulla manifestazione del 15 ottobre, e altro)

Qualche giorno dopo la manifestazione del 15 ottobre (quella famosa perché "hanno sfasciato tutto") ho raccolto questa testimonianza. Ha un sapore e una tonalità (un'autenticità) diverse da quelle uscite a caldo sui giornali (e sulle quali molti dubitano). E' rimasta in sonno qualche tempo, ma ora eccola, sul Venerdì di Repubblica di oggi, 2 dicembre 2011, forse più attuale che mai. Ho preferito che le parole di "Valerio" non fossero interrotte da nessuna interlocuzione, e chiudere le virgolette solo alla fine. Al monologo segue poi un mio breve commento.

   Ho ventotto anni...

   "Mi chiamo Valerio, ho 28 anni, laurea in Scienze politiche a 24 e un master a Londra, oltre a un liceo classico alto borghese dove ho sgobbato fin da ragazzino, e sono disoccupato da anni in cerca di una prima occupazione che non arriva mai. Ho provato, campando di espedienti, a prendere con altri una casetta al Pigneto, quartiere di fighetti dove ormai tutto è carissimo, anche un tè o un bicchiere di vino. Sono addirittura tornato dai miei genitori, che pure tra l’altro la crisi la stanno sentendo: la carta di credito è diventata come un bancomat, se non hai i soldi sul conto non struscia più. Mi rode il culo che con tutto quello che ho studiato non trovo niente, anzi sono incazzatissimo, tant’è che scendere in piazza per me è un’occasione anche di sfogo. Vorrei che fosse occasione per una prospettiva, un progetto, ma il 15 ottobre me lo sono vissuto solo a sfasciare tutto.

   "Dopo la maturità ero stato a Genova cogli amici di scuola, al Carlini [lo stadio dove nel 2001 nacque il movimento de “i disobbedienti”], dove sotto le tende avevo tante aspettative… Anche quando sono entrato alla Sapienza ho gravitato per un periodo nell’area dei “disobbedienti”. Poi però quell’auletta di scienze politiche mi sembrava la piazza di un paesino tipo Albano: sempre più provinciale, un mondo chiuso in se stesso. Nel 2003/2004 di quell’ambiente che seguivo senza essere un vero militante ero deluso. Vi ritrovavo forme e rapporti di potere simili a quelli del mondo che vorremmo combattere: quell’essere leader, tenersi la poltrona per anni, sempre lo stesso portavoce che va dall’Annunziata o da Santoro, quell’essere attaccati al proprio ruolo. Ho visto sgambettarsi e sgomitare come per un posticino in un giornale o un posto di dottorato, e anche nei rapporti con l’altro sesso. Perciò ho continuato a frequentare i cortei, ma la mia palestra è stata la curva. Ho iniziato ad andare allo stadio, a volte tappandomi il naso perché hai a fianco gente che dice cose indegne, ma almeno sai con chi hai a che fare. E’ negli ambienti che dovrebbero essere rivoluzionari che hai le delusioni.

   "Con un gruppetto di amici conosciuti allo stadio e altri ci siamo un po’ più politicizzati, portandocene appresso altri a certe scadenze, come il 14 dicembre 2010 o in Val di Susa, e ci troviamo in piazza. Non è che facciamo chissà quali riunioni. Abbiamo la nostra vita, anche se abitiamo quartieri diversi abbiamo il nostro baretto dove ci becchiamo al pomeriggio, il posto per l’aperitivo e la birreria dove c’andiamo a ‘mbriacare la sera. Nelle nostre discussioni abbiamo sempre davanti la politica, anche se a volte è una politica da bar - i soli con un po’ di esperienza politica siamo io e un’altro che abbiamo bazzicato i collettivi. Agli altri conosciuti allo stadio, specialmente un gruppetto che viene da Tor Bella Monaca, la militanza politica non gliela fai digerire facilmente, e da solo non sarei capace di formare un collettivo. Più facile entrarci, in un collettivo, se trovassi una proposta.
   "Il problema è che ci stiamo tutti a interrogare sul lavoro: quelli che nonostante la laurea fanno i camerieri in quartieri tipo il Pigneto, San Lorenzo o Campo de Fiori, quelli che stanno a smazzare [spacciare] la roba a Tor Bella o San Basilio o ai palazzoni, altri come me che non vogliono smazzare e dopo tanti studi non s’arrendono all’idea di fare il cameriere, e questo perché mamma e papà mi possono ancora parare, non so per quanto, se no prima o poi dovrò fare pure io il cameriere al nero o andare a smazzà all’angolo. Ci interroghiamo su dove andremo a finire, ma io voglio campare oggi perché sono vivo adesso, mi interessa il presente non il futuro. Il futuro lo lascio a quelli che si sono nominati leader degli indignati senza che il movimento degli indignati esista. Di essere indignato non me ne frega nulla perché io sono incazzato, e anche i miei amici. Ma se esistessero dei veri indignati li rispetterei, come rispetto quelli in Spagna, come ho rispettato quelli accampati in piazza Tahrir al Cairo. Non i soliti quattro che vanno in tv e si nominano leader del movimento degli indignati. Non esiste questo movimento in Italia, ve lo siete inventato sui giornali, voi e quei leaderini post-disubbidienti cresciuti con le loro riviste culturali. Ecco, adesso siete diventati indignati, e domani? Ogni mese cambiate, siete stati quelli col passamontagna perché vi siete eletti legittimi discendenti di Marcos, ora siete gli indignati, domani che sarete, i venusiani? Vi aggregherete al dott. Spock?

   "Tornando al corteo, col gruppo mio ci siamo portati quattro zainetti, con serci [sassi], bomboni e martelli... Io non ho il mito della violenza, e nel gruppo mio neanche quelli che vengono da situazioni più disagiate hanno un mito della violenza, per quanto se la vivano tutti i giorni e ci mettano un attimo a fare a botte. Però ci rode il culo che anche se hai un progetto ti sentono solo quando usi la violenza e fai rumore. Io ci credo e spero che prima o poi qualcosa possa accadere, che la gente si sollevi, ci sia un insurrezione, e comunque quando ci sono cambiamenti la violenza c’è sempre. Anche se vai con le mani alzate, come Ghandi o Martin Luther King, la lotta per i diritti civili o la liberazione coloniale in India sono costati un botto di morti, perciò la non violenza non può essere la scusa per non fare un cazzo.
   Non condanno le forme di violenza perché sono stato anch’io in piazza. Dico soltanto che una macchina che non mi serve per fare una barricata, e che non è di lusso, io non la brucio, e specialmente mentre passa il corteo: metti che abbia la bombola perché va a gas, se zompa fa male a chi sta nel corteo. Certe stronzate il gruppetto mio non le fa, neanche i più agitati e fulminati di noi. Così come non lasci una tanica di benzina per dar fuoco a un palazzo. Perciò esagerazioni e sbagli sì, ci sono stati. Io la macchina di un poveraccio non la brucio. Brucio una macchina solo se sono costretto a chiudere la strada perché c’ho dietro le gazzelle della polizia o i blindati. Ma non le macchine parcheggiate, come ho visto a San Giovanni. Le vetrine di bar, negozi, banche si possono rompere, come i macchinoni di lusso: io li sfondo.

  "Io e altri due, quelli che hanno un po’ più studiato, abbiamo provato a far leggere al gruppo un libro di un collettivo invisibile che viene da Parigi, si chiama L’insurrezione che viene, per me una delle letture più importanti di questo periodo, e in Francia tra l’altro un grande successo editoriale. Qualcosa capivano, tra una birra e una canna, tant’altre volte dicevano “aoh, che cazzo vuol di’?’”. Alla fine gli ho fatto leggere l’ultimo libro di Marco Philopat, almeno due risate se le sarebbero fatte, ho pensato, e mi han detto: “Portaci un altro libro che faccia ridere così”. Seguo le cose che ancora escono su siti come Indymedia, Uninomade, Info Aut, ma faccio fatica a tradurle al gruppo. Più facile portarli a vedere V per Vendetta, e sicuramente più istruttivo. Giornali? Giusto ogni tanto il manifesto per leggere cosa fanno al cinema, e il Corriere dello sport.
   "Lo stadio comincia ad essere un campo chiuso: ci hanno cacciati con la “tessera del tifoso” voluta da Maroni, anche se ci si continua ad andare, e ci ritroviamo di più per strada. Ma devo dire, nella mia ignoranza, che una crisi così non c’è mai stata, neanche quella petrolifera dei primi anni ‘70 era sentita così. Poi c’è quello che sta accadendo in tutto il mondo, nei paesi arabi, in Grecia, quello che è successo l’autunno scorso in Italia, in Inghilterra con gli studenti delle gang di periferia. Cose grosse stanno succedendo in tutto il mondo, in Spagna, negli Stati Uniti, l’altro giorno le cariche a Oakland, ma da quant’è che non c’erano cariche a Oakland? Forse neanche ai tempi delle Pantere Nere. Perciò penso sia un momento in cui occorre farsi sentire, anche senza un progetto alcuni nodi stanno venendo al pettine, bisogna agire, anche se certo il nostro è un agire un po’ random...
   "Io provo questo grande disagio: alla fine questa società borghese ha abbandonato i suoi stessi figli, che non possono strisciare la carta come i genitori, che si sono abituati ad averci le Nike, l’IPhone, e che per lavorare devi avere il Lap-top portatile, tutte cose che non sono un lusso, ma sono diventati beni necessari. Noi che siamo cresciuti con questa roba, ci ritroviamo che non l’abbiamo più, e ci sale una grande incazzatura. Lo so, lo capisco che manca un progetto, non solo io che ho studiato, anche quelli meno avvezzi alla politica o che non hanno studiato. Perché anche loro la sera tornando a casa si dicono: mo che famo? Oggi abbiamo rotto tutto, domani che facciamo? (Pausa). Alla fine è dura".



V per violenza (e "l'insurrezione che viene")
  
   Il 15 ottobre fui turbato, più che dalle auto in fiamme, dal video dell’incappucciato che usciva da un portone con una statuina della Madonna e la frantumava per terra prendendola a calci (altri del corteo lo inseguirono indignati). Un gesto di puro fascismo, in linea con gli ultimi 15 anni di un’ideologia al potere che ha disprezzato ogni valorizzazione non immediatamente economica. Quel gesto era l’opposto di un cartello che pure stava nel corteo: “La poesia è anticapitalista”. Nel suo provocatorio candore ricordava la forza sovversiva dell’“inutile” – come la poesia, appunto, la scuola, l’educazione o la bellezza, e come l’azzurro del manto di quell’inutile deliziosa madonnina di gesso. Provai rabbia e pena per il terribile equivoco di quel giovane disgraziato, ammalato da anni di diseducazione versata come napalm da anni di cinismo di governo. La violenza diffusa è proporzionale alla disperazione e all’assenza di orizzonti. E le parole di Valerio, che non definirei mai un black bloc, sono ampiamente condivise. Valerio è un ragazzo come tanti, e la durezza del tono e la voce arrochita non ne nascondono la simpatia. Lo sfogo della violenza non è del resto una prerogativa dei soli maschi, ma equamente ripartito tra ragazze e ragazzi: la rabbia e la precarietà come condizione esistenziale realizzano un’amara parità di genere.
   Parafrasando il famoso libro di Pessoa, Una sola moltitudine, quella dei giovani è oggi una varia solitudine, difficile a raccontarsi perché “precarietà” è soprattutto perdita di un senso narrativo della vita. La politica si è disgregata o dissolta, e la solitudine ne è la spoglia. La loro rabbia è individuale come quella dell’eroe del film V per Vendetta, tratto dal fumetto di Alan Moore, riferimento oggi dominante del loro immaginario. (Ironia della storia, il personaggio con pizzetto e cappello ricalca l’inglese Guy Fawkes, cattolico papista e reazionario, autore nel 1605 della “congiura delle polveri” per far saltare in aria il re Giacomo I e il Parlamento protestante).
   L’insurrection qui vient – “L’insurrezione che viene” – è invece un pamphlet politico firmato nel 2007 in Francia da un “comitato invisibile”, aggiornato nel 2009 e pubblicato dall’editore Hazan. Circola in Internet, così come traduzioni italiane anch’esse anonime. Spiega a modo suo alcune cose, altre le anticipa. Consiglierei di dargli un’occhiata, tra una notizia e l’altra di aumenti dello spread, e soprattutto di trasformazione della miseria e dell’esclusione sociale in problema di ordine pubblico. Se il dissenso è criminalizzato, e la politica che si affaccia viene irrisa o minacciata sul nascere (come con le allusioni dell’ex ministro Sacconi al terrorismo che scaturirebbe dalle critiche verbali), non stupiscano le forme violente di protesta. All’annuncio di migliaia di licenziamenti in Grecia hanno risposto giorni fa ad Atene centinaia di persone col più massiccio esproprio di un supermercato. Nicolas Demorand, su Libération del 2 novembre, ha posto per primo il problema dell’emergenza democratica dietro l’emergenza finanziaria. Lo ha fatto a proposito del referendum in Grecia, “avanguardia della disperazione”. Esso ha turbato l’Europa perché pone “l’unica vera questione, totalmente tabù e finora perfino rimossa, impossibile da formulare tanto è vertiginosa e terrificante per chi ci governa: che cosa pensano i popoli della brutale cura di austerità che sta per abbattersi su di essi?”
   Al corteo degli studenti del 17 novembre ho sentito discorsi più preparati di quelli di molti parlamentari. “La crisi va pagata da chi l’ha provocata”, dicevano gli striscioni. E mentre gli studenti gridavano di volersi riappropriare del futuro, bloccati a due passi dal Senato, all’interno il premier del “governo tecnico” (la freddezza della formula risaltava a fianco della calda empatia degli studenti), chiedeva la fiducia.

(uscito su Venerdì di Repubblica, 2 dicembre 2011)