7/30/2011

Rendere vivi i binari morti

   Possiedo un catalogo aggiornato delle ferrovie dismesse, alcune divenute piste ciclabili, dal Trentino alla Puglia. Sono percorsi e pezzi di mondo sottratti all’uso e allo sguardo, carichi spesso di grande suggestione. Binari morti: da mesi pensavo a un libro che raccontasse un mio viaggio a piedi lungo alcune di queste linee dismesse, a volte panoramiche e bellissime: ciò che si vede e si prova lungo un tragitto nato per altre percezioni, che collegava un luogo ad un altro secondo una logica e un valore d’uso agli antipodi della retorica del turismo e dell’alta velocità. Una passeggiata nel paesaggio italiano vero e dismesso, un territorio autentico ma minacciato di estinzione. Occasione di riprendere una tradizione che risale almeno alle Passeggiate di Rousseau, quella di affiancare il vagare alla reverie, o vagare con la mente, cioè un percorso di pensieri parallelo a quello che si fa coi piedi. E - non ultima componente - con quella sottile sensazione di pericolo virtuale che si avverte nel camminare in mezzo a una rotaia, tra binari arrugginiti. Ma quel diavolo di Paolo Rumiz (che qui calorosamente saluto) ha avuto la stessa idea, e ha già intrapreso il viaggio. Vuol dire che mi accontenterò per ora della metafora, che non è meno consistente.

   Se già i binari si prestano alla geometria del parallelismo e dell’incrocio, “binario morto” è anche evidentemente una metafora terribile e potente oggi in Italia, dove tutto, o quasi, appare “binario morto”, dalla politica alla democrazia, dalla legalità alla cultura, dalla letteratura alla scuola. Non è questo ciò che sentiamo e pensiamo durante la lettura sempre più desolante del giornale quotidiano? Ecco: vorrei salutare così i lettori di questa rubrica: anch’essa entra in un periodo di dismissione, o forse solo una pausa. Per rendere vivi i binari morti, dare una nuova salute mentale alle parole.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità del 31 luglio 2011)

7/15/2011

Parma è cotta

    Nel geniale romanzo The Dome, Stephen King ha descritto l’instaurarsi in una città isolata di un potere arrogante e accentratore, un feudalesimo provinciale che assomiglia al regime politico-mediatico dell’Italia in questi anni. A Parma, ultima città di indignati in ordine di tempo, dopo Napoli e Milano, un potere del tutto simile si sta sfaldando, anche se nessun Pisapia è all’orizzonte.
    Una città intontita da anni di governo di destra all’insegna della modernizzazione, tra truffe e crac finanziari, omertà e corruzioni, si sveglia soffocata dai debiti prima che dagli scandali, sull’orlo del baratro economico, se già non cammina sospesa sul vuoto come nei cartoni animati. Parmalat non ha insegnato niente. Se, come titolava The Economist, Berlusconi è “l’uomo che ha fottuto un Paese” (“The man who screwed an entire country”) il sindaco Vignali pare l’uomo che ha fottuto (screwed) una città. Di fronte all’arresto dei suoi uomini più fidati, dirigenti del Comune, ha detto soltanto: “non lo sapevo”. E questo, dopo anni di passività da spettatori televisivi, ha fatto davvero arrabbiare i parmigiani. In una pagina su Facebook (“Vignali non lo sa”) fanno a gara nell’attribuirgli frasi più vere che finte: “I dirigenti del Comune da lui nominati intascavano mazzette. Vignali: non lo sapevo”.Costruire un inceneritore in stato di abuso edilizio è reato. Vignali: non lo sapevo”. “Hanno incastrato Roger Rabbit. Vignali: non lo sapevo”...
   "Popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli ne Il paese del melodramma. Con quelle parole e un sospiro di nostalgia terminavo tre anni fa un reportage da Parma all’epoca del pestaggio da parte dei vigili urbani dello studente ghanese Emanuel Bonsu, reo di attraversare un parco per recarsi alle scuole serali. La trasformazione dell’ex capitale, ducale ma antifascista, in una cittadina dell’Alabama, produsse le prime crepe. Ma era anestetizzata dalla movida e dall’happy hour, la sbronza globalizzata nelle vie del centro storico. Che erano poi, unite al culto televisivo dell’immagine, i modelli culturali del sindaco Vignali, già PR di una discoteca. La movida c’è ancora, ma è ormai una deriva. Gli indignati di Parma, giunti il 5 luglio alla loro terza manifestazione contro “ladri, corrotti, arroganti e affaristi”, hanno promosso un “cacerolazo parmigiano” (da cacerola, “pentola per stufato”), forma sudamericana di protesta con pentole, coperchi e cucchiai di legno. Quale miglior simbolo degli utensili di casa per riappropriarsi della città?
    Ritrovo a Parma una tensione palpabile malgrado l’afa e il silenzio, malgrado il clima di festa finta, le kermesse reclamizzate dai totem sparsi per il centro, come se fosse il palinsesto di un tv commerciale o un portale di Internet. C’è consapevolezza nell’aria dei quasi 700 milioni di debiti, in larga parte nascosti nei bilanci delle società partecipate del Comune, come l’STT (Società per la Trasformazione del Territorio: ha sponsorizzato tra l’altro il film di Vittorio Salemme girato a Parma sui vigili urbani per riabilitarne l’immagine). L’opposizione l’ha saputo solo pochi giorni fa: anche la sinistra qui è imbalsamata, incapace di proporre diversi modelli culturali, stili di vita e di abitare. L’assessore alla cultura (a Parma tutt’uno coi “grandi eventi”) ha dato le dimissioni, ma lo spettacolo più partecipato è la piazza, il dato politico nuovo nella città – sottolinea William Gambetta, storico dei “movimenti” nell’Archivio omonimo: “un movimento trasversale, di cui le centinaia di cittadini che manifestano incarnano un sentire diffuso”.
    Dopo la notte degli undici arresti – quella di San Giovanni, in cui a Parma si mangiano i tortelli d’erbetta e si aspetta la rugiada - mentre la Guardia di Finanza era negli uffici del Comune, la gente si radunò spontaneamente sotto i portici del municipio: operai, insegnanti, liberi professionisti, mamme coi bambini o col cane, di fronte ad agenti in tenuta antisommossa. Protestavano contro lo sperpero di denaro pubblico e chiedevano le dimissioni del sindaco, barricato fino a tarda sera nel suo ufficio. Un cartello diceva: “San Giovanni svela gli inganni”. Gli arrestati, uomini scelti dal sindaco, facevano la cresta su tutto, dal verde pubblico ai canili, dalle luminarie di natale alle rose sui viali; oppure intascavano tangenti per lavori mai eseguiti. Gli indignati hanno portato mazzi di rose: ”Le rose che avete rubato ve le regaliamo noi”.
    Rose e Rosi. Tra gli arrestati c’è il comandante dei famosi vigili urbani, il romano Jacobazzi, che oltre a intascare mazzette si sarebbe fatto restaurare a spese dei contribuenti parmigiani il suo giardino a Santa Marinella. L’accusa di concussione viene da intercettazioni telefoniche che mostrano la sua sottomissione ai potenti (parole del procuratore La Guardia): si scusò coll’avvocato del patron di Parmacotto, il roseo industriale del prosciutto Marco Rosi, per una multa comminata al suo “dehors” - veranda in ferro e vetro con tavoli, e l’insegna della sua salumeria - e redarguì l’onesto funzionario. L’avvocato Cecilia Cortesi Venturini, una degli indignati, mi dice la sua amarezza nell’apprenderlo: fu lei a promuovere la petizione contro quell’abuso edilizio, e di fronte all’ignavia del Comune mosse una causa civile al Tar. Simulacro anche suo malgrado dell’arroganza dei potenti, quel dehors dell’ex presidente degli industriali è stato costruito dagli stessi architetti del nuovo criticatissimo volto di un altro simbolo di Parma, l’antico mercato della Ghiaia, quasi un’agorà; cancellato per far posto a un incrocio tra la pensilina di un autobus e uno skilift.
    Parma è cotta, come il prosciutto, e per salvarla occorre una ricetta nuova. Non una di quelle per riciclare gli avanzi, ma una nuova davvero, con un nuovo ingrediente. Oltre al malaffare e al cattivo gusto, qualcos’altro ha creato tensione e offeso la città Medaglia d’oro della Resistenza. L’apologia del fascismo di una lapide ai caduti della Repubblica di Salò collocata nel cimitero della città; l’apertura di una Casa Pound nel popolare e rosso quartiere Montanara, dove qualche giorno fa è stata imbrattata una lapide a ricordo dei partigiani, sono segnali gravi. Né si dimentica la foto del consigliere regionale Pdl Luigi Giuseppe Villani, vicepresidente della potente società partecipata IREN (il cui direttore è tra gli arrestati di giugno) che fa il saluto romano a Predappio.
    La comprovata sottomissione dell’amministrazione politica ai poteri economici, che già controllano l’informazione, fa di quello di Parma "un potere feudale basato su rapporti fiduciari”, conferma lo scrittore Valerio Varesi. “Se sei eletto non rispondi ai cittadini, ma come un vassallo al tuo capo, a chi ti ha messo lì, al potere”. Non contano le istituzioni, le leggi, la re-pubblica, ma un uomo al comando che sceglie e coopta. Fa eccezione il giornale online www.parma.repubblica.it , che da tre anni svela scandali e ospita segnalazioni e denunce dei lettori: un gruppo di professionisti per strada legati da incontri e tecnologie, senza redazione né carta, svincolati dai poteri. Coincidenze: il suo responsabile Antonio Mascolo era cronista giudiziario all’epoca dello scandalo urbanistico a Parma negli anni ‘70, reso pubblico dalla lenzuolata di Cristina Quintavalla, e a cui l’attuale scandalo è spesso paragonato. L’allora sostituto procuratore era Gerardo Laguardia, che oggi ha in mano l’inchiesta tangenti dell’amministrazione Vignali.
Intanto, al Teatro Regio c’è un concerto di Ornella Vanoni, al Teatro Due il festival ParmaPoesia: successo di Claudio Santamaria nel reading musicale “La Realtà”, su testi di Pier Paolo Pasolini. La realtà? Quella di Parma è nel suo scollamento: tra le parole e le cose, tra la cultura e la politica, tra entrambe e la vita della gente. La movida continua, i giovani si ubriacano, felici come palline da flipper, e le loro foto escono su riviste patinate. Nuovi locali glamour vengono aperti (non si dice più osteria, ma wine bar) a riempire vuoti con un pieno apparente, a dissolvere passato e futuro in un perpetuo alcoolico presente. La statua recente di Guido Picelli, eroe delle Barricate, giace in un angolo dell’omonima piazza, tra gli extracomunitari e le panchine. All’inizio di via Farini un ragazzo di colore, garbato e ben vestito, vende copie di “Lotta comunista”, coi modi gentili, suadenti e incongrui di un Testimone di Geova.

(reportage uscito su Venerdì di Repubblica col titolo "Parma: la nuova rivolta civile" il 15 liuglio 2011)

7/01/2011

Ruby e l'orgia del potere

   Penso da tempo che l’horror sia il genere che meglio descriva il nostro Paese. E’ horror mischiato a documentario quello di Videocracy di Erik Gandini, dove si vedono e ascoltano (filmati col metodo e la pazienza che ebbe Claude Lanzmann nel film Shoah) alcune delle cozze abbarbicate al viscido scoglio del potere berlusconiano, come Lele Mora. Il libro-verità di Piero Colaprico (Le cene eleganti, Feltrinelli, pp. 256, euro 16) sullo scandalo politico e sessuale del bunga bunga nella reggia privata del Capo, con Emilio Fede e Lele Mora nel ruolo di ruffiani, e sulla minorenne Ruby-Karima che l’ha fatto esplodere, richiama trame e ambientazioni alla James Ellroy, ma si sente l’eco di certi ossessivi personaggi di Stephen King, banali e perturbanti.

   Il libro è farcito di verbali di interrogatori e intercettazioni telefoniche. E diciamolo subito: le intercettazioni di conversazioni private sono, non solo per noi scrittori, l’insostituibile documento del degrado dell’Italia negli ultimi vent’anni, ovvero di quei crimini linguistico-morali che non cadranno mai in prescrizione. Un pizzico di Storia: Ruby-Karima è nata nel 1992, l’anno di “Mani pulite” nella Milano craxiana (cioè già berlusconiana) e dell’assassinio di Falcone e Borsellino. A 13 anni ebbe da un medico una diagnosi che prefigura violenza: “una minore adultizzata”. Al suo primo incontro con Ruby, Berlusconi citò la raccomandazione di Lele Mora (che ne aveva fatto richiesta di “affido”) di “trattarla bene”, perché “le vuole bene come a una figlia”. La pagò generosamente per fare bunga bunga. Ma quante profanazioni già contiene quella frasina sorridente del presidente del consiglio? Questa è una storia di parole. Tutte ruotano intorno all’uomo pubblico che disse di Eluana Englaro, da anni in coma irreversibile, che poteva “restare incinta”: a chi altri sarebbe venuto in mente? Lo stesso uomo di cui parlano le avide e infelici ragazze che cercano, in cambio di prestazioni sessuali sempre più convulse, un posto nella società dello spettacolo, non importa se in tv o in Parlamento.
   C’è Chiara, aspirante meteorina portata ad Arcore da Emilio Fede, che rimane “terrorizzata”. Maria “inorridita”: “quello che ho visto era anni e anni lontano da quello che immaginavo potesse essere una cena a casa di un presidente del Consiglio”. “Allucinante”, dice Melania, amica laureata della Minetti, invitata per via dei suoi studi alla Sorbona a risollevare la “desperation” (parola della Minetti) delle serate di Arcore. L’indomani confida al telefono: “è molto più triste di ciò che scrivono i giornali che lo massacrano”. “Non è Eyes Wide Shut, il film con Tom Cruise, no”, c’è “quello con la pianola che canta e, a un certo punto, non si sa bene come o perché, qualcuno ha iniziato a far vedere il culo (...) come se fosse naturale (...) quando vedi una persona che ha così tanto potere, così tanti soldi, cioè che veramente potrebbe fare qualunque cosa, che si riduce a questo…”
   Non è nemmeno Salò di Pasolini, no: è in continuità estetica con la trivialità spacciata per anni dalle sue reti (ancora, per gli smemorati, si veda Videocracy). La vergogna del capo di governo si riversa sugli Italiani che hanno finto di ignorare chi fosse il loro eletto. Per non parlare dei ministri, e uno fra tutti: il responsabile dell’educazione nazionale, ministro Gelmini, che a difesa del suo ruolo non ha preso un centimetro di distanza da questa realtà.
(una versione ridotta uscxita oggi 1 luglio 2011 su Venerdì di Repubblica)