Scrissi anni fa in un
racconto: «Avevo dimenticato il Teatro Politecnico, e gli alti, vertiginosi
palazzi che ne circondano il cortile d’entrata. Ci andavo tanti anni fa a prendere
un’attrice, giovane quasi come me e già orfana di un mondo, l’avanguardia
teatrale degli anni '70. Lei recitava ragazza al Beat 72, io volevo essere un
poeta beat (...) e forse pensavo a lei quando più tardi dissi questa frase: sei
un prato di periferia che è sopravvissuto. Quando imparai che a brillare di più
sono le stelle spente. Anche il Politecnico ha l’aria di uno spazio superstite,
e dimenticare, oggi, si dice “salvare in memoria”...». L’attrice in questione è
Rossella Or, che ha percorso ogni via: il “teatro immagine”, concettuale,
quello analitico-esistenziale e il teatro di parola, e da anni va in scena al
Politecnico. Lo aprì nel 1974 il coltissimo drammaturgo, regista e attore Mario
Prosperi (già sceneggiatore de l’Odissea
e l’Eneide televisive), con un testo
dal titolo Frantz Fanon psichiatra in Algeria (da un capitolo de I dannati
della terra). Ristrutturato negli anni, è nell’elenco dei teatri storici da
salvaguardare. Ieri vi sarebbe iniziata una rassegna dal titolo “L’Islam e noi”,
patrocinata dal Comune di Roma (primo spettacolo, I fiori del Corano di
Marc-Emmanuel Schmidt). Ma la sala di via G. B. Tiepolo (Flaminio) è stata
sigillata dall’ufficiale giudiziario dieci giorni fa. Mario Prosperi non può
rientrare a recuperare le sue carte. Non scompaiono solo gli insegnanti, le
scuole, forse i giornali, ma da anni i teatri. Il loro elenco sul giornale, un
tempo, era una pagina. Ora si dà quasi per scontato che il teatro non esista
più. Sparito quello “di ricerca”, le “cantine” inventate negli anni Sessanta
sull’esempio di Carmelo Bene. Ora, se fare teatro è già in sé avere a che fare
coi fantasmi, che ne è di quelli spenti, chiusi e abbandonati?
Da tempo pensavo di
commemorare i teatri scomparsi, i teatri fantasmi, non in cerca d’autore, ma di
destino. Ma teatro è anche da sempre simbolo di democrazia, come la piazza.
Cosa resta di quella democrazia proliferante, disseminata, dei teatri che hanno
fatto il fervore di un' epoca, quegli anni Sessanta e Settanta che non furono
di piombo ma di carne? Lo scorso maggio, all’università la Sapienza, un
convegno coordinato da Silvia Carandini era dedicato alle “Memorie dalle
cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ‘60 e ‘70”, con la partecipazione
di testimoni e protagonisti, Mario Prosperi e Rossella Or compresi. Ironia
della sorte, il convegno si teneva al glorioso Teatro l’Ateneo (vi venne tra
gli altri il Living Theatre), oggi chiuso e spento.
Oltre al Politecnico,
sono chiusi o in procinto di esserlo il teatro di Ostia Lido, il Tordinona, forse
il Vittoria. Che si aggiungono a un elenco molto lungo. Eppure, dal Teatro
Laboratorio di Carmelo Bene - nel cortile al n. 23 di Piazza San Cosimato,
chiuso nel '63 dalla polizia per atti osceni - i teatri ricavati da cantine,
cortili e garage furono una sperimentazione vitale di espressioni e linguaggi
senza cui non si sarebbero sviluppati la poesia, il cinema, la danza. Personalmente
conto tra i primi incanti estetico, sorta di risveglio, l’odore di sandalo
emanato dal corpo di un’attrice in scena, che mi rivelò l’evidenza della natura
fisica, erotica del teatro.
È nei piccoli teatri
che si percepisce il volto - mi dice Prosperi - «il primo piano degli attori
come al cinema, il loro respiro e tremore». Il nostro pellegrinaggio inizia col
Beat 72, al civico 72 di via G. B. Belli, di fronte al Visconti Palace. Lo
inaugurò nel '66 Carmelo Bene con Nostra
Signora dei Turchi, Rossella Or vi debuttò in Pirandello chi? di Memè Perlini nel ‘73. Lo gestivano Simone
Carella e Ulisse Benedetti, organizzatori del primo festival di poesia a Roma.
Chiuso nel ‘91, ora c’è uno studio di architetti, leggo sotto il citofono.
Ricordo i muri bianchi e la moquette rossa. Rossella si ricorda il buio, e nel
buio il palcoscenico prospettico e i tre piccoli archi. Lì vicino c’era
l’Alberico. «È nato un altro teatro a Roma, è in via Alberico II, prima il
locale era un garage, adesso è un luogo doppiamente usabile: al piano terreno
una sala grande, sotto, nella buca che serviva per lavorare sotto le
automobili, è scavato un altro spazio...». Così, il 30 dicembre 1975, il
critico de l’Avanti! salutava il
debutto teatrale di Roberto Benigni. Nella “buca”, detta Alberichino, Benigni
recitò il monologo Cioni Mario, di
Giuseppe Bertolucci. Oggi è un ristorante con musica dal vivo, funky e dance,
bancone hitech. Vi vennero lo Squat Theatre di New York con Andy Warhol, Last
Love, e tanti protagonisti del teatro d’avanguardia. Frazione del Beat 72, era
gestito da Bruno Mazzali e Rosa de Lucia. La chiusura dell’Alberico, ricorda
Prosperi, fu voluta scandalosamente nell' 82 dall' allora ministro dello Spettacolo,
il democristiano D’Arezzo, per farne lui un banale ristorante. Mazzali e De
Lucia aprirono il Trianon, con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, e il gruppo
Odradek di Gianfranco Varetto (allievo di Ripellino). Oggi il Trianon è un
cinema multisala, come l’Intrastevere – anch’esso un tempo teatro dove Remondi
e Caporossi fecero cose importanti. Ma finché è il cinema a soppiantare il
teatro, in fondo è una cosa “naturale”, e forse una nèmesi per chi, come Memé
Perlini, faceva teatro pensando in realtà al cinema. Siamo ora in via Benzoni
53, una rientranza della strada che costeggia le ferrovie, sotto la Garbatella.
Qui c’era La Piramide, aperta da Perlini alla fine degli anni Settanta, chiuso
dieci anni dopo. Per un lungo periodo in quell’ex garage non vi fu nulla. Ora è
una palestra. E a proposito di nèmesi: pare che lo storico palazzo sul
Lungotevere Tor Di Nona, che ospita ora l’Istituto della Provincia per le case
popolari, di fronte al Palazzaccio, diventerà un albergo di lusso. È la ragione
dell’annunciata chiusura del Teatro Tordinona, sul retro del palazzo, via degli
Acquasparta. Chi voglia provare qualche sensazione legata ai vecchi teatri
scenda le scale e assapori la qualità del silenzio. Questo luogo appartato,
inaugurato da Pirandello, dal '79 è diretto da Renato Giordano. Vi andò in
scena Paul Newman. Vide prime mondiali di Tennessee Williams e di Fassbinder.
In via Sicilia 57-59, traversa di via Veneto, c’è la palazzina bianca, stile
razionalista come la Sapienza (è della stessa epoca), del Teatro delle Arti. Fu
qui che il giovane Carmelo Bene presentò il Caligola
di Albert Camus nell’ottobre 1959, sotto lo sguardo entusiasta di Anton Giulio
Bragaglia, geniale artista che condusse il teatro dagli anni ‘30 (e prima
ancora il Teatro degli Indipendenti). Il Teatro delle Arti è stato chiuso negli
anni 90, e da allora abbandonato al nulla.
«Il teatro è un mistero», mi dicono
Mario Prosperi e Rossella Or alla fine della passeggiata. «Quando pensi che sia
morto rinasce. Riappare e diventa popolare quando la società è a pezzi. Non ha
continuità, esiste a sprazzi, come i temporali. Come a Weimar, un paese morto e
un teatro che mai fu così vivo. Il teatro è importante nei momenti di crisi.
Non ha bisogno di grandi mezzi produttivi come il cinema, è libero, immediato,
anarchico, straordinariamente fresco e vicino agli eventi».