11/21/2014

Tutto quello che resta (lettera da Calcutta sulla poesia)

Ieri a Roma alla Galleria la Nuova Pesa si è presentato un nuovo libro del mio vecchio amico critico e saggista Paolo Lagazzi - un libro sulla poesia dal bel titolo La stanchezza del mondo. Era previsto un mio intervento, e di fatto anche se non c'ero (sono a Calcutta), pare che fossi presente con questo intervento che, mi dicono, ieri è stato letto. E ora offro qui in lettura.

Caro Paolo,
                     spesso i libri dei critici sulla poesia sono solo un pretesto per parlare dei poeti, questo o quell’altro, in una paradossale autoreferenzialità per interposta persona. È bello che il tuo libro faccia eccezione: i poeti in cui ti sei imbattuto nella vita sono occasione per parlare di qualcosa che ci riguarda tutti e che non serve a nulla, e che forse per questo ci è così strettamente, famelicamente necessario; di parlare insomma di “quello che resta”, come scrivi nell’introduzione, che “resiste”, come dico io, cioè la poesia.
   C’è una tensione ecologica in questo tuo libro - un’ecologia della mente, non dei panda o delle quote - e mi fa venire in mente quando nella primavera del 2010 (io ero sulla “nave dei libri” diretta a Barcellona per la festa di Sant Jordi, festa dei libri e delle rose) un’eruzione vulcanica nel ghiacciaio islandese dell’Eyjafjallajoekull paralizzò il traffico aereo, perché il vulcano dal nome impronunciabile sbuffò una nube di cenere così grande e intensa da far chiudere i cieli.  Pensa: fumo e cenere che mettono in scacco tecnologia, scienza e aviazione. Fu lì, in un’intervista sulla nave, che ricordai come i poeti, “costruttori di vulcani” (cito quasi senza volere il libro del poeta Carlo Bordini), sanno bene l’importanza di cose trascurabili come le nuvole, il fumo, la cenere, tutti sinonimi di poesia - cose che non servono a niente, ma guai a provocarne l’intensità e la forza.
   C’è qualcosa dicevo di ecologico nel tuo libro, cioè di quella consapevolezza di cui ha parlato spesso un nostro amico per spiegare la miracolosa educazione avuta dal padre (tuo poeta prediletto): riconoscere la poesia in quello che aveva intorno, e soprattutto viceversa. La «rosa bianca» cantata dal padre Attilio come dedica alla moglie, Bernardo Bertolucci la scopriva, dice, nel giardino, così come il «rosone tiepido» da cui entra il raggio di sole nella stalla, o «la posta del mattino azzurra fra le mani». Aprire gli occhi e ritrovare la poesia - risonanza di ciò che (r)esiste e accade.
   Le idee sono dappertutto, la mente è molto più ampia del solo cervello, «l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba», diceva Gregory Bateson. Il tuo amato Attilio, senza saperlo, trasmetteva un’educazione non diversa dall’ecologia della mente del mio amato Bateson, per il quale tutto è connesso con tutto, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco e il sacro, «il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula e tutte e quattro con me, e me con voi». La lingua di questa struttura che connette credo sia la poesia. E a ognuno di noi accade il corto circuito che accadeva a Bernardo tra parole e cose, e idee, anche se siamo sempre più intossicati e sommersi da un linguaggio alienato, cioè più sottomesso a uno scopo, non importa se politico, pubblicitario, scritto su una scatola di biscotti o detersivo, o su un romanzo a trama…
   Ti chiederai forse quale sia in questo momento il mio personale cortocircuito, sapendomi a Calcutta (Bengala, India). Non che importi dove io sia, ma forse ricordi la frase di Thomas S. Szasz: «Se parli a Dio stai pregando, se Dio ti risponde, allora sei schizofrenico». Diciamo quindi che sono dove sono per meglio confondermi nella folla di poeti e schizofrenici, anche se proprio stamani, mentre voi facevate colazione, mi riposavo all’ombra del giardino della casa natale di Sri Aurobindo, un’oasi nel brusio perenne della città (non molto distante da quella in cui undici anni prima era nato Tagore), e dove appoggiando le mani sulla superficie di marmo ricoperta di petali di fiori ogni giorno freschi di vita nuova, e sentendo sotto quel marmo, tra api gentili e delicate, la forza che vi scorre sotto come un oceano, ho capito improvvisamente il senso della parola samadhi, "raccoglimento", che non è la morte, che non è la tomba, ma che tradurrei con una bellissima parola misteriosa della nostra tradizione, deposizione, nella continuità dell’anima e quindi della vita. Come «l’amore realizzato del desiderio che resta desiderio», definizione di poesia secondo René Char.
   Caro Paolo, anche a occhi nudi, anche a occhi chiusi, tutto quello che resta è poesia, sorriso dell’anima.
   Haribol!!!
Kolkata, 20 novembre 2014


P.S. Qui si può vedere e capire un po' il Samadhi di Sri Aurobindo nello Sri Aurobindo Ashram, (Pondicherry,  Tamil Nadu)


1 commento:

Anonimo ha detto...

bello, commovente. a me la parola samadhi piace già nella sua spoliazione grammaticale: mettere insieme. un abbraccio. sergio