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1/05/2014

per il poeta Pier Luigi Bacchini


   
Da Visi e foglie: 
   "Gli spazzini fanno mucchi umidi, / gialli e marroni e rossastri - vinacce, e un verde macerato / fresco, e se io mi coricassi su quei mucchi ad abbracciare / l'alba, / a sentire tutta quella bellezza morta, come uno straccio, gli spazzini / potrebbero / farmi interrogare. E allora come potrei dire / questo mio amore inconsulto / per le panchine, che hanno sopportato tanta pioggia / e tante foglie, e tanti sederi di amanti e di vecchi / e di sentimentali come me - Questi viali. Ma non sentite / che questo viale è un urlo? E' lungo. Non vedete non udite che è troppo lungo per una capacità di sopportazione / umana / - molti si arricchiscono / dentro le loro botteghe con le mani unte e le guance rosse." (...)


All'età di 86 anni se ne è andato questa mattina il poeta Pier Luigi Bacchini, il cantore della Natura e della scienza che alcuni mesi fa Mondadori aveva celebrato con un Oscar. Bacchini viveva sulle colline di Medesano (Parma), un luogo che aveva scelto e che amava tantissimo. Nel 2005 aveva ricevuto il Premio Sant'Ilario.
Era un meraviglioso poeta, soave e tenace, e mi onoravo della sua amicizia e stima come di un bene inestimabile. I suoi haiku (Cerchi d'acqua) mi fecero capire che con Giovanni Pascoli era il più padano dei poeti orientali, e proprio come un Basho o un Ryokan si era da tempo ritirato sulle colline di Medesano, che d’autunno assomigliano agli orizzonti delle chine cinesi. Non era solo un poeta di cose vegetali, minerali, creaturali. Le poesie di Visi e foglie dicono il desiderio di sprofondare nei mucchi di foglie gialle prima che gli spazzini le portino via, il nostro comune “amore inconsulto per le panchine”, mentre “molti si arricchiscono / dentro le loro botteghe con le mani unte e le guance rosse”, la nostra comune meravigliosa disperazione urbana in una città (parlo di Parma) unica al mondo ad avere il miracolo toponomastico di un «viale delle Rimembranze».


Il 12 settembre 2003, su l’Unità, scrissi un articolo dal titolo "Gli splendidi haiku padani di Bacchini". Ma il 25 giugno 2002, sulle stesse pagine della cultura de l’Unità, fu pubblicato questo intervento di Pier Luigi Bacchini (“Con lei la morte diventa pietas”) nella serie-dibattito sulla poesia - “Così inutile, così sovversiva” - partita da un mio scritto. Riporto qui il testo di Bacchini:
   Un fiato di morte che ci inseguisse in ogni momento, tanto da improntare i nostri atti, sarebbe insostenibile: ci ridurrebbe al fallimento, all’immobilità. Tuttavia un ripetuto memento mori potrebbe essere salutare per le nostre ammorbate città, ammansirebbe la «lupa», limiterebbe l’«usura» e la mancanza d’amore che rende «desolata la terra». Ma è la natura stessa con la fertilità dei suoi cicli vitali che si oppone a questa consapevolezza, e ci carica di avida violenza, aumentando così i mali dell’esistere. Eppure i cicli vitali si continuano nella morte, e il vortice che trascina l’universo nei processi evolutivi (cosmico, geologico, vegetale, animale, spirituale) contiene il seme della distruzione. Quella composizione poetica dunque che non emanasse pensiero di morte, quale metro per intendere la vita, mancherebbe della fondamentale verità, darebbe una rappresentazione falsata della vita. Nell’autentica poesia c’è l’intima presenza meditata della morte. Poiché la poesia è bellezza, gioia (essa è vita), sùbito viene appresa dall’uomo e con lei la coscienza continua della morte, che penetra in lui col vigore appunto dell’amata vita. Così il pensiero di morte, rifuggito dall’uomo, si trasforma in ritmica memoria, e diviene naturalmente giusta misura e guida delle sue azioni. La morte attraverso la poesia si trasforma in pietas: «...Ecco/i funebri poeti, rattristano la forza/bisbigliano all’orecchio dei legislatori».
BIOGRAFIA: Pier Luigi Bacchini, nato a Parma nel 1927, dopo la maturità classica intraprende studi di medicina, poi interrotti per la carriera letteraria. Esordisce nel 1954 con una raccolta poetica «Dal Silenzio d’un nulla» (Schwarz, Milano) che ha come premessa l'autorevole giudizio di Francesco Flora. Seguono le raccolte «Canti familiari» (De Luca, Roma, 1968) e «Distanze fioriture» (La Pilotta, Parma, 1981, Premio Pontano, Napoli ) . Con la raccolta «Visi e foglie» (Garzanti, 1993), gli viene assegnato all'unanimità il prestigioso Premio Viareggio per la poesia. Nel 1999 pubblica «Scritture vegetali» (Mondadori) che si aggiudica i premi San Pellegrino 2000, Insula Romana, Rhegium Julii, Ragusa e altri. Nel 2003 pubblica «Cerchi d’acqua» (Garzanti) che merita il premio Giuseppe Giusti (Monsummano Terme). Al 2009 risalgono i Canti territoriali e nel settembre 2010 con i "Canti territoriali" si aggiudica il Premio Brancati. E nel 2013 è arrivato il volume degli "Oscar Mondadori" a lui dedicato. Alcuni suoi scritti sono stati accolti nell'Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1978), nell'antologia Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori, 2004) e in altre antologie (Garzanti, Einaudi, Crocetti). Suoi versi sono stati più volte editi dalle maggiori rivisti letterarie italiane come «Paragone» e «Nuovi Argomenti» e da quotidiani come il «Corriere della sera» . La sua opera narrativa «L'ultima passeggiata nel Parco», edita da Mup (Monte Università Parma) è stata pubblicata nel 2003, ed è entrata nella collana dei «Narratori parmigiani», che è stata venduta insieme con la Gazzetta. Ha conosciuto e avuto la stima di diversi poeti come Salvatore Quasimodo, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Giovanni Giudici e di Cesare Garboli. Ha tenuto (anche su iniziativa del Ministero dei Beni Culturali) incontri, letture e conferenze in varie città d'Italia, e, all’estero, all'università di Lund (Svezia).

7/15/2011

Parma è cotta

    Nel geniale romanzo The Dome, Stephen King ha descritto l’instaurarsi in una città isolata di un potere arrogante e accentratore, un feudalesimo provinciale che assomiglia al regime politico-mediatico dell’Italia in questi anni. A Parma, ultima città di indignati in ordine di tempo, dopo Napoli e Milano, un potere del tutto simile si sta sfaldando, anche se nessun Pisapia è all’orizzonte.
    Una città intontita da anni di governo di destra all’insegna della modernizzazione, tra truffe e crac finanziari, omertà e corruzioni, si sveglia soffocata dai debiti prima che dagli scandali, sull’orlo del baratro economico, se già non cammina sospesa sul vuoto come nei cartoni animati. Parmalat non ha insegnato niente. Se, come titolava The Economist, Berlusconi è “l’uomo che ha fottuto un Paese” (“The man who screwed an entire country”) il sindaco Vignali pare l’uomo che ha fottuto (screwed) una città. Di fronte all’arresto dei suoi uomini più fidati, dirigenti del Comune, ha detto soltanto: “non lo sapevo”. E questo, dopo anni di passività da spettatori televisivi, ha fatto davvero arrabbiare i parmigiani. In una pagina su Facebook (“Vignali non lo sa”) fanno a gara nell’attribuirgli frasi più vere che finte: “I dirigenti del Comune da lui nominati intascavano mazzette. Vignali: non lo sapevo”.Costruire un inceneritore in stato di abuso edilizio è reato. Vignali: non lo sapevo”. “Hanno incastrato Roger Rabbit. Vignali: non lo sapevo”...
   "Popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli ne Il paese del melodramma. Con quelle parole e un sospiro di nostalgia terminavo tre anni fa un reportage da Parma all’epoca del pestaggio da parte dei vigili urbani dello studente ghanese Emanuel Bonsu, reo di attraversare un parco per recarsi alle scuole serali. La trasformazione dell’ex capitale, ducale ma antifascista, in una cittadina dell’Alabama, produsse le prime crepe. Ma era anestetizzata dalla movida e dall’happy hour, la sbronza globalizzata nelle vie del centro storico. Che erano poi, unite al culto televisivo dell’immagine, i modelli culturali del sindaco Vignali, già PR di una discoteca. La movida c’è ancora, ma è ormai una deriva. Gli indignati di Parma, giunti il 5 luglio alla loro terza manifestazione contro “ladri, corrotti, arroganti e affaristi”, hanno promosso un “cacerolazo parmigiano” (da cacerola, “pentola per stufato”), forma sudamericana di protesta con pentole, coperchi e cucchiai di legno. Quale miglior simbolo degli utensili di casa per riappropriarsi della città?
    Ritrovo a Parma una tensione palpabile malgrado l’afa e il silenzio, malgrado il clima di festa finta, le kermesse reclamizzate dai totem sparsi per il centro, come se fosse il palinsesto di un tv commerciale o un portale di Internet. C’è consapevolezza nell’aria dei quasi 700 milioni di debiti, in larga parte nascosti nei bilanci delle società partecipate del Comune, come l’STT (Società per la Trasformazione del Territorio: ha sponsorizzato tra l’altro il film di Vittorio Salemme girato a Parma sui vigili urbani per riabilitarne l’immagine). L’opposizione l’ha saputo solo pochi giorni fa: anche la sinistra qui è imbalsamata, incapace di proporre diversi modelli culturali, stili di vita e di abitare. L’assessore alla cultura (a Parma tutt’uno coi “grandi eventi”) ha dato le dimissioni, ma lo spettacolo più partecipato è la piazza, il dato politico nuovo nella città – sottolinea William Gambetta, storico dei “movimenti” nell’Archivio omonimo: “un movimento trasversale, di cui le centinaia di cittadini che manifestano incarnano un sentire diffuso”.
    Dopo la notte degli undici arresti – quella di San Giovanni, in cui a Parma si mangiano i tortelli d’erbetta e si aspetta la rugiada - mentre la Guardia di Finanza era negli uffici del Comune, la gente si radunò spontaneamente sotto i portici del municipio: operai, insegnanti, liberi professionisti, mamme coi bambini o col cane, di fronte ad agenti in tenuta antisommossa. Protestavano contro lo sperpero di denaro pubblico e chiedevano le dimissioni del sindaco, barricato fino a tarda sera nel suo ufficio. Un cartello diceva: “San Giovanni svela gli inganni”. Gli arrestati, uomini scelti dal sindaco, facevano la cresta su tutto, dal verde pubblico ai canili, dalle luminarie di natale alle rose sui viali; oppure intascavano tangenti per lavori mai eseguiti. Gli indignati hanno portato mazzi di rose: ”Le rose che avete rubato ve le regaliamo noi”.
    Rose e Rosi. Tra gli arrestati c’è il comandante dei famosi vigili urbani, il romano Jacobazzi, che oltre a intascare mazzette si sarebbe fatto restaurare a spese dei contribuenti parmigiani il suo giardino a Santa Marinella. L’accusa di concussione viene da intercettazioni telefoniche che mostrano la sua sottomissione ai potenti (parole del procuratore La Guardia): si scusò coll’avvocato del patron di Parmacotto, il roseo industriale del prosciutto Marco Rosi, per una multa comminata al suo “dehors” - veranda in ferro e vetro con tavoli, e l’insegna della sua salumeria - e redarguì l’onesto funzionario. L’avvocato Cecilia Cortesi Venturini, una degli indignati, mi dice la sua amarezza nell’apprenderlo: fu lei a promuovere la petizione contro quell’abuso edilizio, e di fronte all’ignavia del Comune mosse una causa civile al Tar. Simulacro anche suo malgrado dell’arroganza dei potenti, quel dehors dell’ex presidente degli industriali è stato costruito dagli stessi architetti del nuovo criticatissimo volto di un altro simbolo di Parma, l’antico mercato della Ghiaia, quasi un’agorà; cancellato per far posto a un incrocio tra la pensilina di un autobus e uno skilift.
    Parma è cotta, come il prosciutto, e per salvarla occorre una ricetta nuova. Non una di quelle per riciclare gli avanzi, ma una nuova davvero, con un nuovo ingrediente. Oltre al malaffare e al cattivo gusto, qualcos’altro ha creato tensione e offeso la città Medaglia d’oro della Resistenza. L’apologia del fascismo di una lapide ai caduti della Repubblica di Salò collocata nel cimitero della città; l’apertura di una Casa Pound nel popolare e rosso quartiere Montanara, dove qualche giorno fa è stata imbrattata una lapide a ricordo dei partigiani, sono segnali gravi. Né si dimentica la foto del consigliere regionale Pdl Luigi Giuseppe Villani, vicepresidente della potente società partecipata IREN (il cui direttore è tra gli arrestati di giugno) che fa il saluto romano a Predappio.
    La comprovata sottomissione dell’amministrazione politica ai poteri economici, che già controllano l’informazione, fa di quello di Parma "un potere feudale basato su rapporti fiduciari”, conferma lo scrittore Valerio Varesi. “Se sei eletto non rispondi ai cittadini, ma come un vassallo al tuo capo, a chi ti ha messo lì, al potere”. Non contano le istituzioni, le leggi, la re-pubblica, ma un uomo al comando che sceglie e coopta. Fa eccezione il giornale online www.parma.repubblica.it , che da tre anni svela scandali e ospita segnalazioni e denunce dei lettori: un gruppo di professionisti per strada legati da incontri e tecnologie, senza redazione né carta, svincolati dai poteri. Coincidenze: il suo responsabile Antonio Mascolo era cronista giudiziario all’epoca dello scandalo urbanistico a Parma negli anni ‘70, reso pubblico dalla lenzuolata di Cristina Quintavalla, e a cui l’attuale scandalo è spesso paragonato. L’allora sostituto procuratore era Gerardo Laguardia, che oggi ha in mano l’inchiesta tangenti dell’amministrazione Vignali.
Intanto, al Teatro Regio c’è un concerto di Ornella Vanoni, al Teatro Due il festival ParmaPoesia: successo di Claudio Santamaria nel reading musicale “La Realtà”, su testi di Pier Paolo Pasolini. La realtà? Quella di Parma è nel suo scollamento: tra le parole e le cose, tra la cultura e la politica, tra entrambe e la vita della gente. La movida continua, i giovani si ubriacano, felici come palline da flipper, e le loro foto escono su riviste patinate. Nuovi locali glamour vengono aperti (non si dice più osteria, ma wine bar) a riempire vuoti con un pieno apparente, a dissolvere passato e futuro in un perpetuo alcoolico presente. La statua recente di Guido Picelli, eroe delle Barricate, giace in un angolo dell’omonima piazza, tra gli extracomunitari e le panchine. All’inizio di via Farini un ragazzo di colore, garbato e ben vestito, vende copie di “Lotta comunista”, coi modi gentili, suadenti e incongrui di un Testimone di Geova.

(reportage uscito su Venerdì di Repubblica col titolo "Parma: la nuova rivolta civile" il 15 liuglio 2011)

6/18/2010

For Ever Young (per Bob Dylan a Parma)

   Mi fa un certo effetto che Bob Dylan - uno dei più grandi poeti contemporanei, il musicista che ha aperto la strada e indicato gli orizzonti (come disse John Lennon), quello di cui ho imparato le poesie (le canzoni) a memoria prima di quelle dell’obbligo, la voce che mi accompagna da sempre dandomi degli occhi per vedere e percepire il mondo, e che ho seguito per anni nei tour in Europa con una banda di altri dylaniati come me, da Luigi Ghirri (inventore del neologismo) a Giorgio Messori a Carlo Feltrinelli – mi fa effetto dicevo che lui suonerà stasera sotto le finestre della casa in cui ho abitato fino a pochi anni fa, nel Parco Ducale. E sarò ad ascoltarlo, forse un po’ imbarazzato di condividerlo col pubblico educato della nostra città, in quel giardino ordinato che una volta era un parco.
   Sarò tra il pubblico col figlio della mia compagna, Martino, tredici anni e fan di Dylan da due: ne ha letto tutti i libri e ascoltato tutti i dischi. Lo interpreta già con la chitarra, come facevamo noi tardo-adolescenti. Perché ti piace, gli ho chiesto, perché lo trovi speciale? “Perché le sue mi sembrano poesie cantate”, ha detto pensoso. “Ma soprattutto mi sembra che negli anni, con tutti i cambiamenti che ha avuto, sia rimasto sempre lui”.
   E’ vero. Per quanto io sia disincantato, per quanto Dylan, maestro beffardo del disincanto, abbia ininterrottamente decostruito se stesso, il suo stile e le sue stesse canzoni fino a renderle irriconoscibili (nel tour dell’anno scorso sembravano allegre marcette), c’è una continuità, una fedeltà a se stesso che va oltre la coerenza, percepibile anche da chi si accosta a Dylan per la prima volta. C’è una costante, una permanenza in tutti i suoi passaggi e trasformazioni, in tutte le sue ‘conversioni’, da quelle religiose a quelle musicali, come il famoso passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, fischiato al Newport Folk Festival nel 1965 (Pete Seeger era furioso) e l’anno dopo a Londra e Manchester, in quel meraviglioso concerto (The Bootleg Series vol. 4) in cui, prima di attaccare Like a Rolling Stone, grida con voce umida di lacrime a un suo detrattore: “You’re a liar”, “sei un bugiardo”. E la costante, forse indefinibile, è l’essere insieme se stesso e poeta. “Come definirebbe il suo stile?”, gli chiese un dj svedese nel ’66. “Non ho mai sentito nessuno che suona e canta come me, quindi non lo so”, rispose Dylan.
   L’ultimo scandalo è l’album di canzoni natalizie dell’inverno scorso, Christmas in the Heart: tra campanelline e coretti femminili stile radio anni ’40, con tanto di Adeste fidelis metà in latino e metà in inglese, e immagini kitsch di slitte e babbi natale, la sua voce rauca non cela l’ironia e il divertimento. Ma pochi sanno che i proventi delle vendite sono stati integralmente destinati agli homeless e alle associazioni non governative che combattono la fame, e l’unica intervista concessa dopo anni è stata a riviste free press di senza casa in America e in Europa. Alla domanda se lo shock dato da quest’album fosse pari alla svolta elettrica per i conservatori del folk, Dylan ha risposto: “Dicono che avrei dovuto essere più irriverente nei confronti di questo repertorio di canzoni. E’ un’affermazione irresponsabile. Non c’è già abbastanza irriverenza nel mondo? Ancora oggi i critici non sanno che farsene di me”.
Il suo essere sempre misteriosamente e autorevolmente se stesso fu sintetizzato dalla comica esclamazione di un giornalista negli anni del massimo successo (quando era uguale a Cate Blanchett che lo interpreta in I’m not there): “Alla fine si tolse gli occhiali scuri ma, non si sa come, riuscì a sembrare assolutamente uguale”. Con tutte le sue pose, Dylan non è mai stato in posa. Dietro i suoi atteggiamenti contraddittori, le sue maschere nude, il volto e l’arte di Dylan sono sempre gli stessi. Tratto magistrale: bisogna aver percorso molte strade per accorgersi di non avere mai lasciato la stessa strada.

   Poi però Martino ha rivolto a me la stessa domanda. Perché mi piace così tanto Dylan? Dopo la sua, mi resta una sola, grande risposta, quella che sintetizza il cuore invisibile di ogni grande riuscita estetica (e quindi morale): il tono.
   Nel concerto in provincia di Padova l’altra sera Bob Dylan ha fatto un blues impeccabile, ironico e inatteso, con la sua celebre Masters of War, dedicata ai mercanti d’armi e di morte (praticamente tutto il G8 e oltre). Avevo meno di 13 anni quando nel corridoio della scuola media “Pascoli” feci leggere a una ragazza che mi piaceva tantissimo la mia traduzione gonfia di retorica di Signori della Guerra, lasciando intendere che avrei potuto scriverla io. Mi davano un brivido profondo quelle canzoni dette allora ingenuamente di “protesta”, più delle poesie di Brecht o di Jacques Prévert. Non sapevo ancora che la vera protesta era parlare delle cose vicine, non di quelle lontane, e la libertà di sperimentare, sacrare e dissacrare e ancora risacrare, usare la parola “mamma” in una canzone (Tell Me, Momma), parlare delle sfumature dell’amore con urgenza e rabbia (Baby, Let Me Follow You Down) e del disamore con dolcezza (Don’t Think Twice it’s Allright). Non sapevo insomma che la cosa più autentica e rivoluzionaria di Bob Dylan (che ha dedicato a Sant’Agostino una delle canzoni del suo album più metafisico, John Wesley Harding), fosse il tono della sua voce.
   Difficile da definire. Se la grana inconfondibile della sua voce era “sabbia e colla”, come disse David Bowie, il tono è una scabrosità ondulata, una curva dell’anima che si sente nel cuore e nelle viscere. Una modulazione di cui si avverte tutta la fisicità, la corporeità, e allo stesso tempo la spiritualità, immanenza e trascendenza fuse insieme. Anni fa scrissi in un racconto che le canzoni di Dylan trasformano ogni cosa in paesaggio, anche un volto, ma che è per il fatto di rendere volti i paesaggi che non lo si può ascoltare a occhi chiusi. In realtà è un poeta da interni, si può dire di lui che mette il cielo in una stanza: lo ascolti, e la stanza si espande, avvicina e allontana, come una sistole e diastole, i corpi tra loro. Le sue sono canzoni d’amore anche quando parlano di tutt’altro, perché il loro tono è tattile, fa sentire lo spazio tra le persone. Ed è sempre il misterioso potere del tono quello che, come nella letteratura e nelle arti plastiche, ben oltre le tecniche e il soggetto, è alla radice delle nostre emozioni estetiche, cuore segreto di quel nostro riconoscere e aderire alla verità di un’opera: “sì, è così, è proprio così!”.
   Non a caso il più grande fotografo italiano, tra i più emozionanti autori di immagini del mondo, Luigi Ghirri, non smetteva mai di ascoltare Dylan, a casa o in macchina. Alla fine degli anni ’80 pensammo di fare un libro di immagini e testi datici da chi, tra amici e amici degli amici, riconosceva Bob Dylan come molto importante nella propria formazione ed educazione sentimentale. Il titolo doveva essere (al plurale) Simple twists of fate. Fernanda Pivano, in preda all’entusiasmo, lo recensì sul Corriere prima ancora che uscisse. Non uscì mai. Per uno scherzo (o svolta) del destino, Luigi Ghirri sparì all’improvviso. Non più feste di compleanno di Dylan il 24 maggio, con lo striscione For Ever Young appeso al balcone della sua casa rurale. O forse sì, perché sono entrambi giovani per sempre.
   Fu Luigi Ghirri a farmi leggere per la prima volta quel testo che Bob Dylan scrisse per l’amata Joan Baez: "Joan Baez in Concert, Part Two") E’ una lettera, una confessione, un manifesto di poetica: “Quand’ero ragazzo ero solito inginocchiarmi / su un campo ferroviario vicino a casa di mia zia / strappavo via i ciuffi d'erba dalla terra / selvaggiamente con tutte le radici / passavo ore intere a contarne i fili / e macchie di verde mi si spandevano sulle mani / aspettando di udire il suono / dei vagoni pieni di ferro delle miniere che arrivavano / i binari avrebbero cominciato a tremare ed io a mordermi / le labbra / strettamente mentre il fischio ululava...” Vengono in mente gli anni in cui era facile anche nella nostra città, prima delle tangenziali delle rotonde e del traffico, uscire con la macchina o la bicicletta, e subito trovarsi in una campagna che ricordava le copertine dei dischi americani degli anni ’60 e ‘70. Ma è importante il seguito di quello che scrive Dylan: “Lasciai che i simboli prendessero forma / e creassero per me un nemico da combattere / contro cui scagliare la lingua e ribellarmi / (...) / E il mio primo simbolo fu la parola ‘bello’ / Perché le ferrovie non erano belle / Erano nere per il fumo e dal colore di fogna / E puzza e fuliggine e polvere / Avrei giudicato la bellezza secondo queste regole / Accettandola solo se era brutta / E se potevo toccarla con mano / Perché solo allora avrei compreso / Dicendo ‘questo sì che è reale’...”. Ecco da dove vengono il suo tono, la sua coerenza, la sua stessa idea conflittuale della bellezza: dalla vita nuda, da uno sguardo che non discrimina mai ciò che è vero. Col tempo, ha scritto ancora Dylan, è riuscito ad accettare la bellezza anche della voce di Joan Baez, la pura bellezza senza conflitti; le vite degli altri, la bellezza sognante del sentirsi al mondo, lo stupore di abitare. Non mi ha meravigliato che un anno fa Dylan fosse stato arrestato nel New Jersey perché, vestito come un barbone, spiava con curiosità dalle finestre la casa in cui abitò Bruce Sprengsteen.
   Ancora oggi, quando ascolto Bob Dylan, mi sento come quando piove in estate. Alla fine della pioggia l’odore si sparge nella luce del giorno, e provo un’emozione intensa e dolce a camminare sui viali di foglie con le scarpe più grosse, quelle di fuori stagione; discrepanza che diventa così sinestesia, figura retorica sentimentale, la percezione insieme di un tempo abitato e un altro sognato. Come il mio essere a Parma, stasera. Ieri sera, dove scrivevo queste parole, ha piovuto un po’, e ho pensato: “nessuno sente nessun dolore / stasera” (nobody feels any pain)

3/04/2010

Andare al Liceo classico a Parma negli anni Settanta

Ieri mi ha telefonato il nuovo direttore di un giornale di Parma (non la tradizionale Gazzetta), Emilio Piervincenzi, ex di Repubblica, per chiedermi se collaboravo in generale e se in particolare già ieri gli mandassi un mio ricordo del Liceo classico G.D. Romagnosi (di Parma), dove pare stia scoppiando un casino rimbalzato sui giornali nazionali (Preside contestata dagli studenti, e ora anche dagli insegnanti: v. La Stampa di ieri). Era un invito sentimentale da cui non potevo esimermi. In fretta, verso sera, ho scritto questa cosa qui, che appare oggi sulla prima pagina di Polis (www.polisquotidiano.it). E'dedicata in generale agli anni Settanta, mi pare...

Fu il periodo della vita in cui mi sono sentito più adulto: una promozione esistenziale, un punto d’arrivo, accompagnato da un senso di superiorità euforizzante. Ero grande, ero al ginnasio. Parlarne, però, è di una difficoltà esorbitante: come è possibile dire gli anni del liceo, fase finale dell’adolescenza in cui si scopre tutto con un’intensità irripetibile, e di fronte a cui la vita successiva appare come una serie di repliche con commento? Se poi penso che erano gli anni Settanta, epoca feconda e tuttora impensata, ma la più banalizzata dai media (alla tremenda formula “anni di piombo” contrappongo sempre quella di “anni di carne” e d'anima - di idee, di passioni, di sperimentazioni di linguaggi, di poesia), il mio senso di aurora della vita si ispessisce. Facevo parte, al Romagnosi, non solo del “collettivo” degli studenti, ma di un gruppetto culturale che si riuniva in un’aula al pomeriggio a leggere testi filosofici europei, mischiati alla “controcultura” americana. Qualcosa vuol dire se nessuno degli autori che scoprivamo allora mi sembra superato dai fatti, tanto meno dalla teoria; e che, nella musica, la maggior parte della produzione recente è una cover (replica con commento) di quella degli anni Settanta.
Dunque, il Liceo Ginnasio “G. D. Romagnosi”. Dalle foto che ho scorso sul sito Internet (una palestra scintillante, un’aula di informatica), credo proprio che non ne riconoscerei gli interni. Ma da fuori è sempre quello, rosso e bianco che si sporge sul Lungoparma, a due passi da uno storico ponte. Rivedo le grandi finestre a pianterreno, a sinistra dell’ingresso, la cui progressione segnava quella delle classi del Liceo, sezione B. E’ posto all’indirizzo più parmigiano di tutti, Viale Maria Luigia 1, anche se, nato e residente di fronte al Collegio Maria Luigia (che appariva allora il simbolo un po’ arrogante dell’autosufficienza dei ricchi), non ci facevo caso.
Ricordo le lezioni sussiegose dell’anziano insegnante di Italiano e Latino, che mi si confondono nella testa con le frasi farcite di aggettivi del gergo critico dell’antologia, dove il verso del poeta è sempre “potente”, il suo “ripiegamento” (ovviamente “interiore”), è sempre “virile”, e così via. Ricordo che, per evitare non so più quale punizione del preside per non so più quale infrazione, scrissi una lettera apologetica usando un fraseggio buono per una dissertazione su Petrarca (“cosa è mai quello che ho fatto di fronte all’eternità, e alla fragilità effimera delle cose terrene?”). Funzionò, incredibilmente. Avevo distratto l’autorità con la forma delle parole. Nonostante la si vivesse come scuola di retorica (ma anche la retorica è una cosa vertiginosamente seria), il Liceo Classico, ne sono convinto, è la miglior scuola che c’è, comunque sia l’unica il cui curriculum studiorum poggi su un’idea. E questo è tanto più attuale di fronte allo svilimento del linguaggio (che precede e sempre quello verso le persone), dell’educazione, del sapere, di tutto ciò che, in nome del profitto a breve termine, viene a torto e ciecamente considerato inutile. Il mio insegnante preferito era quello di greco, che col suo antico accento pugliese faceva sentire il suono della lingua di Omero, e per il quale volentieri s’imparò a memoria buona parte del Canto VI dell’Odissea. Ma, si sa, a scuola ciò che si impara, ciò che emoziona davvero, è altro dal programma di studi.
Ricordo le riunioni del collettivo trainate dalla verve di A. C., e la presenza di R., la ragazza dal volto sognante che incarnò per anni quello che mi piaceva e mi commuoveva di più: se, per dire, vedevo il mitico film Zabriskie Point, naturalmente era lei la ragazza della scena d’amore nella Death Walley col blues di Jerry Garcia. Lei faceva l’ultimo anno, io il primo, e si capisce quanto platonico potesse essere il rapporto. (Ma poiché le promesse importanti si mantengono tutte, lo vissi anni più tardi, come se avessimo preso una macchina del tempo).
Ricordo un mio gilet largo e azzurro pallido che mi sembrava bellissimo, una giacca di pelle marrone alla Bob Dylan di cui mi accorgevo solo io. Ricordo un’altra ragazza che mi prestò Killing me softly cantata da Roberta Flack (ben prima dei Fugees), e il tentativo precocemente ridicolo di farmi crescere la barba. Ricordo la prima volta che, ginnasiale, presi la parola balbettando all’assemblea generale. Era importante, l’assemblea. Erano importanti (leggi formativi) anche i conflitti. Facevo il Romagnosi quando scrissi, e pubblicai, le mie prime poesie. Volevo essere un poeta beat.
L’adolescenza è l’epoca delle più potenti sinestesie, figure retoriche che consistono nel mischiare le sfere sensoriali, e che si apprendono a scuola con Dante (più tardi con Baudelaire e Rimbaud). Esse svelano però il loro senso vivo dopo una pioggia d’estate con l’odore dell’asfalto bagnato e perdi il senso del calendario, o l’odore di piscina sui capelli della compagna di scuola che ti piace, quando la incontravi “per caso” alla solita panchina dello Stradone. O nel languore erotico di una riunione del collettivo degli studenti a casa di lei in cui si parla di sciopero, con un’aria di innocente carboneria che è in realtà il tentativo di rifondare lo sguardo e il mondo, cioè se stessi, con un senso di comunione che non impediva di preservare la propria solitudine. Ero al mio primo anno al Romagnosi l’inverno fiabesco del ’73, quando grazie all’austerity le città scoprirono nuovi modi e sobri di vivere lo spazio senza auto, e in Piazza Garibaldi vidi passare una carrozza con cavalli: proprio quella domenica mattina in cui vi fu la riunione in casa di lei, dove arrivai in anticipo e restai a lungo beato. Immaginate una città piena solo di biciclette, però a colori sgargianti, non come nei documentari sulla Liberazione.
In un’epoca, quella di oggi, in cui la politica si confonde con la pornografia, ha senso solo ciò che è in vendita e l’unica realtà condivisa si chiama reality, è difficile spiegare queste emozioni. Erano anni in cui i social network non erano dietro lo schermo in plasma di una vita virtuale, ma un’esperienza fisica e spaziale, nelle piazze, quando ci si poteva sedere sui gradini dei monumenti e si era cittadini a pieno titolo invece che clienti. Nella piazza si mescolavano anziani col cappello portatori di memoria, e giovani dai capelli lunghi portatori di utopie da realizzare. Erano anni in cui la politica stessa era erotismo, non pornografia; e l’erotismo, proprio come deve essere, era tutt’uno con la cultura, il leggere, l’immaginare. (La perdita della dimensione erotica della cultura, che è felicità della mente, è la perdita più grave della nostra civiltà).
Ero al mio l’ultimo anno al Romagnosi quell’inizio di marzo in cui, alle 10,30 circa del mattino, arrivò la notizia del rapimento di Aldo Moro, e spontaneamente in tanti uscimmo dalle classi, spaventati e turbati, e qualcuno diceva che forse dovevamo scappare in montagna, come durante il fascismo. Fu un attentato alle nostre vite e alla nostra giovinezza, fu l’inizio di una deriva che macinò tante vite, tra deliri di lotta armata e l’irruzione massiccia dell’eroina.
“C’era una volta la memoria...”
E’ per non dover mai cominciare così una storia, che amo e sostengo il liceo classico e i valori che trasmette. Quanto agli insegnanti, chiederei loro di essere guide, formatori di autodidatti. Ciò che non ho mai smesso di essere.

4/06/2009

Il prefetto che non ama gli scrittori (un articolo di Riccardo De Gennaro)

Per gentile concessione dell'autore, Riccardo De Gennaro, scrittore e giornalista.
Il prefetto che non ama gli scrittori

È probabile che il prefetto di Parma, Paolo Scarpis, non ami gli scrittori. Forse non legge, forse ha un romanzo nel cassetto che nessuno gli pubblica, forse è uno di quelli che quando sente la parola cultura mette mano alla pistola. Sta di fatto che ogni qualvolta uno scrittore si permette di esprimere un’opinione sulla “sua” città Scarpis lo bacchetta immediatamente sulle colonne compiaciute di questo o quell’altro giornale locale. L’ha fatto nei giorni scorsi con Roberto Saviano, reo di aver ricordato in tv che l’economia parmense ha conosciuto e conosce infiltrazioni camorristiche, l’aveva fatto, nell’ottobre 2008, con Beppe Sebaste, che in un reportage su Parma, pubblicato da “Il Venerdì di Repubblica”, ricordava l’esistenza di un certo sottobosco cittadino, confortato peraltro – nei suoi giudizi – da un terzo scrittore, Carlo Lucarelli.
Aver definito “sparate” le dichiarazioni dell’autore di Gomorra è particolarmente singolare: non solo per la scelta del sostantivo, che andrebbe utilizzato con più cautela nel caso di una persona minacciata dalla camorra e sotto scorta, ma anche perché Saviano si limitava a riportare i risultati di un’indagine di un magistrato, Raffaele Cantone, sul boss Pasquale Zagaria. Perché quando Cantone, un mese fa, intervistato da Stefania Parmeggiani di Repubblica, ha spiegato i motivi che hanno spinto i casalesi a scegliere Parma come terreno fertile per i loro affari, il prefetto non ha replicato a mezzo stampa? Forse gli scrittori, che in Italia contano poco o nulla, sono bersagli più facili? Certamente sì. L’ha riconosciuto lo stesso Saviano, che non nasconde i propri timori di delegittimazione e isolamento. “Sono ‘sparate' di una persona che sta a 800 chilometri di distanza”, ha detto Scarpis, che è forse più informato di altri su dove si trovi esattamente Saviano.
Nei confronti di Sebaste, da lui mai citato, il prefetto aveva osservato: “Ho letto l’articolo, si tratta di argomenti triti e affrontati con spirito molto fazioso da parte di qualcuno che, a quanto ne so, è un parmigiano pieno di livore nei confronti della sua città e non capisco il perché, avrà i suoi motivi”. Ci si chiede che cosa volesse insinuare. Nel suo pezzo Sebaste, accusato di faziosità, si rifaceva soprattutto alle cronache e ricordava, in particolare, il fallimento Parmalat, lo scandalo della Guru di Matteo Cambi, fatti di nera, i cantieri aperti. Toccava poi il tema della “tolleranza zero” e, naturalmente, richiamava il caso del ragazzo di colore pestato a sangue dai vigili urbani. Quanto alla camorra, Sebaste riferiva un commento di Lucarelli: “Parma è bellissima, ma deve riconoscere i suoi problemi: come altre città ricche del Nord è permeabile ai capitali della mafia. L’unico vero antidoto è la cultura, la socialità, la sua tradizione”. Significa essere faziosi? Forse essere faziosi, viceversa, è proprio non riconoscere quei problemi. Non c’è nulla di male nel farlo, non è ledere il prestigio della città. È difenderlo, semmai. Anche perché quei problemi esistono, come fa spesso notare Saviano, anche in molti altri capoluoghi del Nord. Lo diceva lo stesso Cantone nell’intervista sopra citata: “La storia di Parma è paradigmatica, perché disegna uno scenario che è applicabile ovunque, esportabile in qualunque città abbia grandi ricchezze e scarsa attenzione ai fenomeni malavitosi”. È una fortuna, evidentemente non accettata da Scarpis, che gli scrittori oggi scrivano anche di queste cose.
Riccardo De Gennaro

(Nota: su la Repubblica.it, pagine di Parma, si era sviluppato un ampio dibattito tra i lettori e cittadini indignati: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/03/28/sulla-camorra-parma-saviano-fa-solo-sparate.html ; il mio pezzo su Parma per Venerdì dell'ottobre scorso è leggibile qui nel blog: http://beppesebaste.blogspot.com/2008/10/giallo-parma-e-cielo-azzurro.html

10/28/2008

Giallo Parma e cielo azzurro

Oggi su l'Unità c'è una mia "memoria" delle Barricate di Parma (cronaca di una duplice esperienza, le testimonianze filmate di chi le Barricate le vide e le fece, e una "passeggiata" oggi negli stessi luoghi di quell'epica, dove le badanti e gli immigrati hanno oggi sostituito i proletari di un tempo). E, sempre su Parma, incollo qui una sorta di reportage gonzo, in realtà assa serio, uscito sull'ultimo Venerdì di Repubblica, la settimana scorsa. Quello che non avrei previsto era che il direttore del giornale locale intervistasse il prefetto di Parma sul mio pezzo (ne riporto alcune frasi nella mia replica). Buona lettura.

Giallo Parma
Cammino per Parma, la mia città in cui non abito più. Ho visitato la mostra del Correggio – la sua sensualità angelica e ammiccante - e contemplato da vicino, grazie alle impalcature, gli affreschi nelle cupole del Duomo e della chiesa di San Giovanni, quel giallo vorticoso che risucchia verso l’alto (che da bambino mi ricordava l’uovo all’occhio di bue). Poi sono andato nel parco periferico in cui è stato picchiato e sequestrato lo studente ghanese Emmanuel Bonsu da un gruppo di vigili in borghese: il giallo delle foglie, dei vialetti sabbiosi “stile Versailles”, dei muri dell’ex fabbrica Eridania, ora Auditorium firmato Renzo Piano. Giallo Parma, che confonde sacro e profano. Come la foto del cadavere del giovane Mario Lupo, accoltellato nel 1972 dai fascisti, pubblicata dalla Gazzetta di Parma per annunciare il libro del fotoreporter locale Giovanni Ferraguti. C’è poco spazio per la memoria dell’antifascismo, un tempo vivissimo, nella “città cantiere” dell’ex sindaco Ubaldi. Si respira ancora l’ideologia della modernizzazione, anche se la ristrutturazione permanente è nell’agenda dei costruttori. Una politica spettacolare e spregiudicata ha sfidato il buon senso nel progetto di una metropolitana (13 km, fermate ogni 700 metri, per una città di 170 mila abitanti che vanno tutti in bicicletta), e quello del ridicolo nei ponti faraonici alla Calatrava. All’inaugurazione di uno di essi, ha detto il rappresentante europeo: bel ponte, peccato manchi il fiume. A Parma c’è solo un omonimo torrente, quasi sempre in secca.
Seduto al caffé, sui giornali locali vedo rimbalzare gli stessi titoli. Processo Parmalat; condanne confermate per i complici del killer di Gianmario Roveraro, finanziere dell’Opus Dei (che salvò la Parmalat quotandola in borsa). Il killer, Filippo Botteri, giovane consulente finanziario, emblematico della Parma bene e del suo stile di vita, sembra uscito da un romanzo giallo del parmigiano Valerio Varesi, il più simenoniano degli scrittori italiani (il suo commissario ha il volto di Luca Barbareschi in tv). Leggo dell’operazione all’occhio di Emmanuel Bonsu (detto “negro”) dopo il pestaggio, e le testimonianze che inchiodano i vigili; leggo su "Polis Quotidiano" le dichiarazioni del comandante dei vigili urbani delle Terre Verdiane sul fattaccio di Parma: “da noi non sarebbe mai potuto accadere, è una questione di stile di comando”. Timida richiesta dell’opposizione di sinistra: dimissioni “temporanee” dell’assessore alla polizia municipale. Si mormora di una futura alleanza, o inciucio, tra il centrosinistra che governa ancora la Provincia e la “Civiltà parmigiana” di Ubaldi, sindaco di centrodestra per dieci anni e padrino un po’ deluso dell’attuale.
Leggo che la “Fiera del Lusso” (?) non si farà, se non in tribunale (guerra non chiarita di carte bollate) mentre apre la nota “Mercante in fiera”: era la mostra dell’antiquariato, ora si vende un po’ di tutto. Crisi del Parmigiano: i produttori incontrano il ministro leghista delle politiche agricole, ma il ministro non si fa vedere. L’universo concettual-pubblicitario dei parmigiani è a rischio implosione. I suoi simboli sono gadget onnipresenti, come l’icona di Verdi con barba e cilindro riproposta anche intorno al gazebo che oscura in parte la statua del Parmigianino, con totem di coppe e prosciutti hard core a sedurre i turisti, e gigantografie in polistirolo di Verdi a benedire. Quale il sacro, quale il profano? C’è il “Festival Verdi”, e sotto le volte del Municipio un’installazione apposita: due poltrone rosse simil Frau, brani registrati, grandi pannelli con fotografie de La Traviata e sibillini frammenti d’opera: “Tutto è follia nel mondo”, “Gioire di voluttà”, “Di quell’amor che è palpito”. Sembra di stare in una grande osteria all’aperto. Manca solo l’accento impastato, o l’ironia sublime della voce di Paolo Nori, altro scrittore esule parmigiano.
Alla manifestazione antirazzista, mentre in piazza parlavano i rappresentanti della comunità ghanese e il segretario della Cgil, gli altoparlanti coprivano le voci con la Traviata. Ma Parma non è razzista, lo scrive Alberto Bevilacqua, e tecnicamente forse è vero. Di certo è sazia e soddisfatta di sé, sprezzante verso i poveri e i diversi, incapace di guardarsi dal di fuori. Clinicamente si dice “narcisista”: un circuito chiuso e autoreferenziale che cerca conferma di sé, dunque insicura, come gli Italiani all’estero che cercano gli spaghetti ovunque. I parmigiani si sentono speciali, ma di speciale hanno solo questo sentimento, o presunzione, un darsi di gomito che racchiude chissà quale appartenenza. Simulacri e marketing, dall’austriaca Maria Luigia ad Arturo Toscanini che emigrò in America. Ne era spia il tic linguistico, “città dell’eccellenza”, sulle labbra dell’ex sindaco. Eccellenza di che? A Parma si allunga l’ombra della camorra, avvertiva Roberto Saviano su l’Espresso. Lo ha ripetuto il parmigiano di nascita Carlo Lucarelli a un incontro pubblico. Mi ha detto poi: “Parma è bellissima, ma deve riconoscere i suoi problemi: come altre città ricche del Nord è permeabile ai capitali della mafia. L’unico vero antidoto è la cultura, la socialità, la sua tradizione”. Tra i problemi, i fallimenti finanziari della Parmalat di Callisto Tanzi (“come una brutta storia di mafia”, ha detto il pubblico ministero Greco), della Guru di Matteo Cambi, cocainomane e bancarottiere, ditte che chiudono e casse integrazioni. Altri omicidi senza passione, che hanno riempito le cronache negli ultimi anni. Sullo sfondo, i tanti appalti della “città cantiere”, anche quelli che stravolgeranno il volto della storica piazza mercatale della Ghiaia, o del medievale Ospedale Vecchio, sede dell’Archivio di Stato, trasformato in albergo di lusso. Appalti spartiti dai soliti noti.
Molti ironizzano sulle ordinanze del sindaco Vignali, e la Carta sulla Sicurezza firmata proprio a Parma. Tolleranza zero contro chi va a puttane, chi butta le cicche per terra, chi mendica, bivacca, imbratta i muri, chi parla forte e disturba il quieto vivere, chi piscia per strada. C’entrano con la sicurezza e la paura della gente? Anche l’ex sindaco Ubaldi ha preso le distanze: “Abbiamo già tre polizie per la repressione del crimine. Metterci anche i vigili è sbagliato. Si sollecitano reazioni allarmate, si autorizzano isterie collettive”. Massimiliano Brunetti, cronista di "Polis Quotidiano", mi ricorda altri discussi comportamenti della polizia municipale, come lo sgombero di profughi sudanesi del Darfur da un’ex cartiera, gennaio 2005, tuttora ospitati da don Luciano Scaccaglia, parroco della Chiesa Santa Cristina, strenuo difensore dei non garantiti.
In tutto questo, Parma è un laboratorio italiano. Le trame opache del mondo finanziario, il consumismo estremo, l’infelicità inconsapevole tra ricchezze e luccichini, il senso di diffusa anestesia e indifferenza. Valerio Varesi, giornalista e romanziere, sospira: “Parma era un laboratorio sociale e libertario, ora lo è dei divieti. C’è stato un mutamento genetico? La sua storia è di una città da sempre contro le coercizioni, insofferente ai despoti - “popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli – dalle coltellate al Duca alle Barricate contro i fascisti di Balbo, e nei primi anni ’60 le lotte operaie”. Ricorda Mario Tommasini, l’assessore che con Basaglia aprì i manicomi e realizzò con Marco Bellocchio il film Matti da slegare, i brefotrofi svuotati, la creazione della fattoria di Vigheffio coi malati di mente. “La Parma di oggi è invece quella omertosa delle banche, questa sì un attentato alla sicurezza dei cittadini, della finanza virtuale, personaggi da Falò delle vanità di provincia, donne noleggiate e macchine sportive, la tv spazzatura che si fa carne. Quanto lontana da quelle solide basi contadine, i piedi ben piantati nelle zolle di terra, che costruì la ricchezza di Parma, quella delle industrie agroalimentari”. Come in Novecento di Bernardo Bertolucci, penso, dove il sacro e il profano potevano anche confondersi, ma non cancellarsi.

(uscito su Venerdì di Repubblica del 25 ottobre 2008)


"Parma è sana troppo clamore". "I parmigiani sono sconcertati la città dipinta dai media non è quella che conoscono". Questo il titolo della sconcertante intervista del direttore della Gazzetta di Parma al Prefetto Paolo Scarpis in reazione al mio articolo. Per replicare si è delegato il prefetto (a quando la critica stilistica e di genere al Ministero dell'Interno, con tanto di timbro che autorizza la pubblicazione?). Per dire che "Parma è diventata protagonista sui media per episodi che hanno avuto un clamore sicuramente sovradimensionato rispetto all'entità degli stessi", ha attaccato il sottoscritto. Questa la mia replica inviata ieri per e-mail alla Gazzetta di Parma:
"Leggo con comprensibile ritardo (dove abito la Gazzetta di Parma ahimè non si trova) un'intervista del direttore della Gazzetta al Prefetto di Parma, in cui si commenta un articolo di un non nominato scrittore su un non nominato magazine de la Repubblica. Il magazine è Venerdì, l'autore è Beppe Sebaste, il sottoscritto. Osservo solo questo: è una strana cosa chiedere a un prefetto, cui di solito ci si rivolge per avere dati su crimini e sicurezza, di esprimere un giudizio su stile e opportunità di un articolo che contiene a sua volta giudizi etico-estetici sulla città, nonché una certa nostalgia. Altrettanto strano è accettare di rispondere, e commentare ("argomenti triti", "spirito fazioso"), fino all'illazione e all'insinuazione ("a quanto so, è un parmigiano pieno di livore verso la sua città e non capisco perché"). E' uno stile che si commenta da sé. (Da parte mia girerò la lettera ai colleghi che sulla città si sono espressi nell'articolo in questione)".

Detto questo, spero che oggi non piova, almeno a roma, e che il cielo resti azzurro sopra le teste degli studenti che affolleranno la strada davanti al Senato in cui si discute del decreto Gelmini.