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2/05/2011

Su una foto di Charles e Jane (Bukowski e l'eros senza potere)

   Fu forse Ludovico Ariosto nell'Orlando furioso a inventare l’immagine del pallone gonfiato. Quando Astolfo va sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, tra i “vani disegni” e i “vani desideri” dei mortali gli capita di calpestare “un monte di tumide vesiche”, ovvero vesciche gonfie d’aria che risuonano di fioche grida e tumulti, e altro non sono che ciò che resta delle “corone antiche”, i potenti regni del passato, “che già furo incliti, et or n’è quasi il nome oscuro”. Ma i potenti, che hanno la cecità di affidarsi unicamente al presente, gonfiarlo e gonfiarsi come palloncini, mostrano già sempre nel proprio squallore presente il loro futuro flaccido e grinzoso: “che schifo”, ha detto una ragazza che lo conosce da vicino del potente di Arcore, “da vomitare”.

   Una mia amica ha postato su Facebook una fotografia bellissima, assurdamente censurata dai gestori del social network (è stata per questo addirittura "bannata”). Raffigura lo scrittore Charles Bukowski e la sua amica Jane nella cucina povera di lui, portacenere ingombro sul tavolino, bottiglie e disordine di oggetti, sulla parete una tappezzeria floreale stinta, e un fantasma di Monna Lisa (un calendario?). Lo scrittore è seduto su una sedia, barba e capelli spettinati, lei in piedi al suo fianco, allegra e completamente nuda. Col braccio sinistro lui le cinge i fianchi, colla mano destra le accarezza delicatamente il sesso, mentre lei divarica e solleva l’altra gamba per dargli più spazio. La fica all’aria, il volto felice e sorridente, e quello assorto e deliziato di lui. Non è tanto che lui sembri suonare l’arpa toccando il corpo di lei, non è solo il perfetto equilibrio formale della foto in bianco e nero a dare la bellezza. E’ la portata liberatoria, in tutti i sensi, di corpo e anima nell’intimità e gioia condivise, e soprattutto la totale assenza di potere e di manipolazione nel loro scorcio di rapporto, una nudità antecedente e più profonda di quella dei corpi. E anche, se volete, l’allegria di essere poveri, e che l’amore e il sesso, come scrisse qualcuno, sono la consolazione dei poveri, non dei ricchi e potenti.

(testo della rubrica domenicale "acchiappafantasmi" su l'Unità del 5 febbraio 2011)
Ed ora ecco la foto, salvata:
Ce ne sono altre di questa serie, ma forse non altrettanto belle. L'amica che ha postato questa immagine su Facebook (in una pagina privata, si noti) voleva, riuscendoci, suscitare una discussione semiologica (e anche psicologica e politica). Tutto è stato cancellato (anche la mia condivisione sulla mia pagina "pubblica") da un network che legittima spesso immagini e iniziative politicamente e antropologicamente intollerabili. La nudità non commerciale, invece no. L'amica si chiama Serena Galié, e nei suoi commenti scriveva di avere trovato la foto conturbante, e di non vedere perché non dovesse conturbare; scriveva anche sul fatto che, essendo di Bukowski, già all'epoca noto, la foto ha un contesto di narrazione che già la esclude dalla pura pulsione pornografica. Diceva infine (tutto questo è ricostruito a memoria) qualcosa sul fatto che nel "paradigma di Arcore" non ci sarebbe il piacere della donna, ma l'esibizione del potere fisico/economico quindi ridotto all'impotenza (non era esattamente così, ma erano dei botta e risposta). Io avevo notato proprio questa antinomia a proposito del "potere", tra questa foto e l'innominabile di cui oggi tanto parliamo. Siamo per un'etica pubblica, certo, e anche privata, ma non per questo dimentichiamo la pulsione di "vita contro la morte" (è un titolo anni '60) e ridiventiamo repressi e bacchettoni. L'idea è di riportare qui gli interessanti commenti salvati dalla discussione su Facebook, cui altri se ne aggiungeranno. Un saluto, b.s.

8/26/2008

Storie di politica, panchine e palloncini

Domenica scorsa (24 agosto) è uscito su Repubblica questo mio articolo che aspettava da tempo, sui Palloncini, e che vi invito a leggere. Parla di Casalvieri e delle sue fabbriche di palloncini (leader mondiali), del mio amico artista Elmerindo Fiore che abita lì, di Marcel Duchamp, perfino di Stephen King, e mi è molto intimo. Tutto sommato, oltre che estetico, per me è anche politico - come poteva essere politico Ariosto, non Machiavelli. Idea che la politica (ma in fondo tutti noi) è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i palloncini... (nella foto, Duchamp con palloncini tenuti col filo).
Forse lo sento in particolar modo stanotte, dopo una serata al festival dell'Unità, pardon alla Festa Democratica (nazionale) di Firenze, dove sono stato invitato a presentare Panchine (sono tuttora a Firenze, in un hotel niente male dove passo la notte), che mi ha lasciato sensazioni diverse, ma la cui tonalità dominante è malinconica. Nel frattempo, all'Unità, quella vera, è arrivato il nuovo direttore, Concita De Gregorio, il cui editoriale di oggi 26 agosto era semplicemente bellissimo. Tanto che d'impulso ho scritto questa lettera al giornale:

Cara Unità, cara Concita: leggendo il tuo primo editoriale di martedì confesso di essermi emozionato. Esco così dal riserbo per scriverti i miei più sentiti auguri per questo nuovo capitolo del giornale e della tua carriera - e, spero, dell’opposizione ed elaborazione politica e culturale in Italia. Ho usato apposta una parola desueta, “carriera”, che significava al tempo dei nostri padri quello che è, una semplice strada di campagna, comunque sia un percorso (oggi per il lavoro si dice job, come un pezzo di ricambio). Credo che quella parola dall’aria antica sia appropriata sia per farti gli auguri che per salutare il contenuto del tuo editoriale, che affronta il tema della memoria e quindi del futuro, della politicità della vita, e quello enorme della precarietà. Perché, più ancora che un lavoro scarso e non garantito, la precarietà descrive la perdita di futuro e le derive individuali e collettive di chi non sa più organizzare narrativamente la propria vita, anche fuori dal lavoro. Di chi non sa dedicarsi in profondità a nulla. Non è quello che accade anche ai politici? Non basta più dire che, per la prima volta, i figli sono più poveri dei loro genitori; ma le stesse vite dei loro genitori risulteranno ai nuovi precari incomprensibili, votate com’erano a obiettivi a lungo termine la cui linearità poteva in parte compensare i sacrifici: voltandosi indietro o guardando in avanti, la vita poteva assumere un senso narrativo, e non è poco. Ecco qualcosa che riguarda i poveri come i ricchi. La frammentazione delle esperienze che si riflette in una frammentazione dell’io, la cooperazione superficiale, l’intensificazione del presente come unico tempo disponibile (l’unico futuro che c’è si offre come futuro di questo presente), la superficialità delle relazioni sociali, tutte queste attitudini in perfetto spirito aziendale stanno forgiando un tipo antropologico che assomiglia molto alla dannazione: un’eternità senza tempo e senza storia. Dove tutto manca e continua a mancare anche a chi si crede berlusconiano e felice – l’ansia del consumismo, anche dei più giovani, che sfocia nelle più diverse tossicodipendenze. Ecco, cara Concita, il mio auspicio è che l’Unità, oltre a tutto quello che hai scritto, sia un esempio anche di questo, di un cercare di rendere più narrative le nostre vite e il nostro sguardo sul mondo.