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10/13/2011

Terraferma & Carnage


   Ho visto Terraferma di Emanuele Crialese e l’ho trovato bellissimo. Ho visto Carnage di Roman Polanski e sono stato deluso. Questa critica si rivolge però alla critica (cinematografica), a volte pretestuosa e spocchiosa, che proietta sui film i propri vizi di superficialità e schematismo.

   Penso ad esempio all’accusa di estetismo al film di Crialese: a parte che è il film meno estetico del regista (soprattutto se confrontato all’onirismo di Nuovomondo e al suo celebre mare di latte), perché non mettersi l’anima in pace e riconoscere che sì, i film di Crialese hanno un’intensità pittorica che oggi non ha uguali, e questa sua ricchezza estetica è da ringraziare? Siamo ormai affogati dalle trame, e rischiamo di dimenticare che il narrare è più importante delle storie, che il cinema è soprattutto immagini (in movimento), come la letteratura è fatta di frasi e di toni prima che di soggetti.
   Ma in Terraferma (patrocinato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) c’è altro. Come il dibattito, quasi un’agorà, che a metà film compendia meglio di un trattato di etica la questione dei “beni comuni”. I pescatori parlano del dramma dei “clandestini” che incontrano in mare, del divieto di salvarli. Solo i vecchi dicono la verità e l’evidenza: “le nuove regole sono contro quelle nostre (...), noi dobbiamo rispettare la legge del mare”. Quando un giovane osserva che i clandestini sono una brutta pubblicità per i turisti, ecco la sarcastica risposta del padre: “E’ arrivato il pubblicitario... Secondo te avrei dovuto fare morire gente in mare per la pubblicità?”
   Vengo così alla delusione di Carnage, osannato dai critici. Nonostante la bravura magistrale degli attori e l’eleganza del testo teatrale di Yasmina Reza, scritto in una Francia laica e più che politicamente corretta, appare oggi fuori bersaglio: magari ci fosse ancora qualcosa da smascherare, magari il problema fosse l’ipocrisia, e il napalm della spudoratezza non avesse spazzato via, con le maschere, ogni bene comune e ogni evidenza. L’inferno non sono gli altri, come esclamava Sartre e sottintende Carnage, ma essere condannati, confermati a se stessi. Si ride (moderatamente) finché l’imbarazzo ci sommerge tutt’in una volta alla battuta “dopo aver visto Jane Fonda predicare alla televisione mi è venuta voglia di comprare la camicia del Ku Klux Klan”. E il relativismo della tesi di fondo, che siamo tutti nevrotici e ogni atteggiamento equivale a un altro, è più moralista e falso dell’assolutismo buonista delle magnifiche sorti e progressive.

(articolo uscito per la rubrica "zona critica" su Venerdì di Repubblica del 21 ottobre 2011)